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Autore: https_hind_elba    22/02/2019    0 recensioni
Silverton, 2017
[mo-rì-re] v.intr.: cessare improvvisamente di peccare.
"La verità è che ci siamo, tutti quanti, nessuno escluso, sporcati le mani, gli occhi, la bocca, tutto quanto, del peccato. Io, lei, chiunque. Il mondo intero si è sporcato del peccato, proprio o altrui, poco importa di chi; e niente e nessuno potrà cancellarlo, così come nessuno potrà cancellare dai nostri volti le parole che siamo riusciti a scambiarci con lo sguardo".
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Che schifo i bagni pubblici; che schifo i bagni del college; che schifo questo posto; che schifo Silverton.

Disgustata da quell'ammasso di carta igienica e qualcos'altro, che, sinceramente, preferisco non continuare ad osservare, esco dal gabinetto e raggiungo la mia ineguagliabile amica, Shelley, la quale si sta beatamente passando il suo solito e insostituibile rossetto rosso ciliegia sulle labbra turgide.

«Ti prego, ricordami perché siamo in questo luogo lercio», mi lamento, tentando di fermare l'ennesimo conato di vomito.
Oserei quasi dire che ci sia qualche corpo in decomposizione sepolto sotto le piastrelle del pavimento, da quanto puzza questo bagno, quindi, di conseguenza, sarebbe superfluo sottolineare che pare che questo posto non fiuti la candeggina o qualsiasi altro prodotto di pulizia, dalla nascita della regina Elisabetta e, cielo, con tutto il rispetto per la sovrana del Regno Unito, ma quella donna aveva messo le sue fottute chiappe su quel dannato trono e aveva giurato che non si sarebbe più alzata. E, per la sfortuna di William, George e il tipo di cui non mi ricordo mai il nome, a questo punto, mi sa, che non si farà togliere mai, e poi mai, la corona, nemmeno da morta.

«Perché sei nella tua fase da ragazza ribelle e vuoi attirare l'attenzione dei tuoi irresponsabili genitori su di te. E io, da buona amica, quale sono, appoggio le tue decisioni», risponde, rivolgendomi un sorrisetto malizioso, di quelli che mi fan venir voglia di sfondare le casseforti, per derubare qualche banca, utilizzando come ariete, la sua testa.

Le schiocco un'occhiataccia per niente divertita, mentre riposa il rossetto nel beauty-case.

Ricorda: le vuoi bene.

È tua amica da una vita, circa.

Inoltre, non è colpa sua se ha sbattuto la testa da piccola. È stata la sua sorellastra a farla cadere: non è colpa di Shelley.

«Uno, non è assolutamente vero che sono nella fase da ribelle», sbuffo scocciata, «Non ho mica quindici anni».

«Infatti, ne hai quindici e mezzo», continua a prendermi in giro. Lo fa di proposito, per farmi innervosire, perché lei sa, meglio di tutti quanti, meglio di chiunque, che disprezzo, con tutta l'anima, qualsiasi persona pensi che i miei, di comportamentisiano dei capricci, che siano le lagne di una bambina viziata, di quelle che si lamentano perché papino ha fatto loro un regalo di compleanno meno costoso dell'anno scorso e quindi si mettono lì, tutte infuriate, a trovare un modo per convincerlo a rimediare, il prima possibile, al suo imperdonabile errore.

«Due», proseguo, ignorandola, «ti vorrei ricordare che, anche tu, sei scappata da Cambridge per venire qui, a Silverton».

Prendo il gel igienizzante dalla sua borsa nera, poggiata sul lavabo, e inizio a spalmarmelo sulle mani.

Ripeto: che schifo questo posto. Ho, addirittura, toccato la maniglia della porta e chissà chi altro ci avrà appoggiato le sue mani. Ew.

«Non lo chiamerei scappare, ma sì, l'ho fatto», ammette, strappandomi il gel dalle dita, «e non me ne pento», prosegue decisa, lasciandomi con la bocca leggermente schiusa dallo stupore: è davvero raro vedere Shelley Velasco senza il suo sciocco e perverso sorriso dipinto sulla faccia. A dire la verità, c'è più probabilità di incontrare e ballare la cucaracha con un pennuto di un dodo, che vedere l'espressione seria dipinta sul viso della mia amica mentecatta. Insomma, è come per gli astrologi osservare la cometa di Halley: un evento che capita una volta sola nella vita.

«Sai benissimo che te ne puoi andare quando vuoi. Non sei costretta a rimanere qui. Hai la tua vita a Cambridge, la tua famiglia e i tuoi amici, diversamente dalla sottoscritta».

Non mi è mai piaciuta, e continuo a non gradire, l'idea che sia venuta con me; non perché io non apprezzi la sua presenza o altro, ma odio il fatto che stia rovinando la sua vita, solamente per starmi vicina e farmi sentire meno sola. 
Sono i sacrifici che fanno le amiche, che ne vuoi sapere tu, mi ripetevano, e infatti, io quell'essere egoisti, proprio non lo capisco.

«E qui, ho te; quindi resto. Considerami pure egoista e arrogante, ma tu, invece, non te ne puoi andare senza di me. Mi piace questo posto», ammette e stacca il suo sguardo dallo specchio -pieno di scritte scribacchiate da studentesse annoiate-, facendo incontrare i suoi occhi grigi -lo stesso colore delle nuvole dell'oceano che si ammassano, in pieno inverno, sopra montagne- con i miei.

«Detto questo, se te ne vai senza il mio permesso e, di conseguenza, senza di me, ti ammazzo. Sai benissimo che ne sono in grado», mi minaccia, sistemandosi la sua chioma biondo platino.

«Non ne dubito», rispondo, ridendo. Già, ne sarebbe in grado, eccome. In seguito, dopo essersi liberata del mio cadavere, ritornerebbe a casa come se nulla fosse. Ci metterei una mano sul fuoco che lo farebbe, perché, se c'è una cosa che Shelley ha, è proprio il coraggio e la testa per le fare le cose.

«Cambiando discorso, la tua amichetta del cuore ci sta mettendo una vita», borbotta seccata, riferendosi alla nostra nuova conoscente, Melanie.

«La smetterai mai di chiamarla in quel modo? È fastidioso sentirtelo dire ogni volta che parliamo di lei. Inoltre non capisco proprio perché non ti vada a genio. È simpatica e poco impicciona; cosa vuoi di più?».

In realtà mi è più che chiaro il motivo: è gelosa di Melanie. Non che mi stupisca, è sempre stata possessiva nei miei confronti. Prima che ci trasferissimo nel buco del culo del mondo, c'eravamo solo io e lei. C'era solo lei a cui potevo raccontare i miei problemi, c'era solo lei che mi capiva, c'era solo lei che mi consolava, c'era solo lei con cui potevo sclerare per la fine di una serie tv o di un libro, c'era solo lei che consideravo speciale, impareggiabile e indispensabile. Un po' mi dispiace, ma non possiamo essere al mondo solo io e lei.

«Beh, non possono mica piacermi tutti. Ma poi l'hai vista? Si mette addosso solamente vestitini, per lo più osceni, e sembra appena uscita da quel film horror. Come diavolo si chiama? Quello che somiglia a le bambole assassine», preme l'indice della mano sulla punta del naso, pensierosa.

«Ah, ecco: Annabelle! Adesso dimmi se non è identica a quelle dannate bambole», protesa.
Non mi lascia il tempo di ribattere, per prendere le difese di Mel, che riparte con la sua parlantina e io non riesco a non fermarmi, un breve e fugace momento, ad osservarla, perché sì, nonostante ci conoscessimo da quando, all'età di dieci, mi vomitò sulle scarpe, io amo ancora osservarla, notare come gesticola quando è arrabbiata, come si tasta assiduamente i capelli per consuetudine, come guizza la sua pelle esangue, tipicamente norvegese. Che poi lei, oltre al tegumento, di norvegese, non ha un bel niente e per quanto ne so, può benissimo essere islandese, o avere DNA finlandese, magari è addirittura figlia di qualche comunista russo. Poco ma sicuro, è la rampolla di qualcuno, almeno di quello siamo sicure. O quasi.

«Comunque, penso si sia persa; da quanto è stupida, sarà entrata nel bagno degli uomini», proferisce sghignazzando.

Quando vuole, sa essere davvero una vera e propria stronza, ma le voglio troppo bene per ricordaglielo ogni volta che apre bocca, così come le voglio troppo bene per ricordarle che anche lei finiva, abitualmente, nei bagni degli uomini e, cosa più importante, sempre in buona compagnia.

«Piantala, non è mica scema. Queste cose dovresti dirle davanti a lei, magari così ci ripenserai due volte, prima di ripeterle», la riprendo. Certe volte mi sembra di essere una madre che rimprovera il figlio, ché infastidisce la sorella minore.

«Okay, okay, va bene. Come vuoi», mi fa un sorriso di scuse, «però fammi mettere un po' di correttore su quella faccia. Sembri uno zombie», ammette, mentre riapre il beauty, senza nemmeno aspettare una mia risposta.

«Grazie al cazzo, sta notte ho dormito solo due ore», le ricordo, facendole cenno di procedere per coprire le enormi borse sotto ai miei occhi e mi appoggio al lavabo, tentando di non pensare ai miliardiadi di microrganismi che si trovano sulla superficie.

«Ti vedesse tuo padre, gli verrebbe un colpo al cuore», afferma, riferendosi all'enorme cicatrice sul mio volto, mentre passa il prodotto sulla mia pelle leggermente abbronzata ed io, non posso far a meno di provare a trattenermi dal tossire, ché, anche oggi, s'è messa troppo profumo.

«Probabile», commento, tentando di chiudere la conversazione lì. Poiché, in questo momento, non mi va proprio di parlare della causa per cui sono andava via dalla mia città natale o di come la mia faccia è stata marchiata, per sempre.
Fortunatamente la porta del sudicio bagno si spalanca ed entra Melanie, con i suoi lunghi capelli, da un lato neri e dall'altro fucsia, e il suo solito abbigliamento stile baby doll. Appena la porta si richiude, la bionda, a fianco alla sottoscritta, sbuffa irritata e si allontana, dirigendosi verso la finestra socchiusa, attraversata dai raggi del sole.

«Hola hermosa, scusa il ritardo; volevo seguire la lezione di Chimica fino alla fine», si giustifica, ignorando completamente Shelley.

Sì, si odiano per davvero.

«Beh Torres, non so a Porto Rico, ma a casa mia, se una persona è in ritardo, avvisa», precisa Shelley e Melanie le fa il dito medio.

Alzo gli occhi al cielo. Dio, ti prego, aiutami con queste due.

«Possiamo, per una volta, evitare di litigare? Vi prego», domando con voce stanca. Non mi va proprio di sopportare l'ennesimo litigio per l'ennesimo argomento stupido. Sì, certo, alcune volte è pure divertente vederle bisticciare, ma altre, tipo adesso, mi viene voglia di prenderle a mazzate.

Si guardano per un breve attimo, per poi farmi entrambe un sorriso che, però, non riesco a interpretare, se con un "ci proveremo" oppure se con un "tutto per non respirare più quest'aria nauseabonda".

«Fantastico, allora, adesso, possiamo indirizzarci da Logan», sorrido, per poi invitarle a prendermi a braccetto. Sì, ho quest'abitudine che ci fa passare, tutte e tre, per lesbiche, nuocendo gravemente alla nostra reputazione da ragazze etero.

«Shelley, vieni alla festa?», sento dire da Logan, col suo marcato accento australiano, mentre le circonda le spalle col suo braccio       

«Shelley, vieni alla festa?», sento dire da Logan, col suo marcato accento australiano, mentre le circonda le spalle col suo braccio.

Il campus è più affollato del solito: ci sono ragazzi e ragazze che passeggiano, altri che semplicemente sono seduti sul prato a parlare di cosa faranno durante il weekend, di com'è andata la lezione, di gossip o di chissà che.
C'è chi è appoggiato a qualche albero o muretto, mentre fuma di tutto, tranne che sigarette, e c'è chi semplicemente si gode questi ultimi giorni di sole.

«Dovresti aver capito che io sono la festa. Pensavo fossi più sveglio, Logan», si vanta, togliendosi di dosso il suo braccio, «più che altro, Nora vieni con noi o preferisci andare dal nonno?», mi chiede interessata.
Con "nonno" intende il proprietario di una piccola libreria, che noi frequentiamo quando decidiamo di isolarci dal resto del mondo, facendo finta che la stupidità umana possa essere intrappolata dietro a una vecchia porta.

Magari fosse possibile.

«'Sta sera non riuscirei proprio a sopportare una festa; in più qualcuno deve pur rimanere sobrio per riuscire a recuperarvi quando sarete sbronze da far paura e mi chiederete di tenervi i capelli mentre vomiterete l'anima», appoggio lo zaino sul prato fiorito e mi siedo, decidendo di imitare delle ragazze del secondo anno, sedute più in là «e comunque sì, andrò da John».

Tutti quanti seguono il mio esempio, accomodandosi di fianco a me. Il leggero venticello mi scombina i capelli neri, che iniziano a solleticarmi il viso. Non esito a legarmeli immediatamente, con l'elastico nero, che tengo sempre al polso.

«Penso che sia un po' troppo fuori dalla tua portata», mi prende in giro Logan, «Quanti anni ha? Ottanta?», continua con voce giocosa.

Ma se adesso mi alzassi e dicessi a tutti della sua infatuazione per Shelley oppure che è omfalofobico?

Smetto subito di prendere in considerazione la mia balzana idea di metterlo in imbarazzo, appena mi rivolge uno dei suoi sorrisi mozzafiato; con la leggera abbronzatura che risalta ancora di più il bianco del suoi denti, il suo sorriso è perfetto.

È uno di quei ragazzi di cui non si può fare a meno di notare quanto sia bello, con la sua mascella scolpita, i suoi occhi verde pino -protetti da un paio di occhiali da vista- e la sua chioma sempre scompigliata, che non ha mai avuto l'onore di essere spazzolata.

«Oddio sì, sareste tipo Holly Madison e Hugh Hefner», urla Melanie eccitata, tanto che temo m'abbia spaccato il timpano destro. Già sono sorda da quello sinistro, se anche quello destro fa la stessa fine, diventerò strabica a forza di leggere i sottotitoli e a guardare le scene delle serie tv allo stesso tempo. Oh mamma, e poi chi lo finisce Il Trono di Spade? E Grey's Anatomy?

«Quasi quasi, ti preferivo quando non ci rivolgevi nemmeno la parola», ammetto scocciata. Mi stanno davvero shippando con un uomo che potrebbe essere benissimo il mio bisnonno? Ma cos'hanno che non va i miei amici?

«Vero, stavamo benissimo prima di te», dice Shelley con faccia disgustata.

Oh Cristo, stanno davvero per ricominciare con i loro battibecchi?

Rivolgo un'occhiata a Logan, in cerca d'aiuto, ma, sdraiato a pancia in giù, sta sbranando con lo sguardo delle ragazze.

«Zitta, Frankestain», ribatte l'altra.

Melanie è sempre stata quella che dà nomignoli a tutto e a tutti, ne è la prova Frankestain, riferito a Shelley. Questo perché la madre di quest'ultima ha da sempre avuto un'ossessione innata per la famosa scrittrice britannica Mary Shelley, così, su due piedi, chiamò la figlia maggiore Mary e la minore Shelley. Tutto normale, storie che si sentono tutti i giorni, insomma.

«L'unica che deve chiudere la bocca qui, sei tu, Chucky».

«Litigi molto maturi, vedo», commento, cercando di fermarle prima che inizino a strapparsi i capelli l'un l'altra. Era già successo una volta e penso sia stata una delle scene più imbarazzanti della mia vita, anche perché l'episodio era avvenuto davanti alla mia cotta dell'epoca (la stessa cotta che, più tardi, divenne prete; già, ho questo effetto sui ragazzi). Inutile dire che era stato più difficile dividerle che trovare una scusa valida sul perché si stessero sbranando a vicenda, alle quattro e mezza del mattino, in una chiesa anglicana, con un ragazzo completamente nudo e ubriaco che cantava a squarciagola Safe and Sound dei Capital Cities.

L'unica cosa di cui sono certa, oltre al fatto che se prendi due compresse di Tachipirina cinquecento, diventa mille, è che le volte in cui avrei voluto sotterrami, non si possono contare sulle dita delle mie mani. E sicuramente aumenteranno nei prossimi giorni...
 

Sperando che non si sia suicidato nessuno durante la lettura, al prossimo capitolo!

P.S. Ovviamente fatemi sapere che ne pensate lol

   
 
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