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Autore: Persej Combe    24/02/2019    2 recensioni
Vieni da me, Augustine. Stasera i bambini sono con la madre. Vieni da me.
[Lubricantshipping]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Clem, Lem, Nuovo personaggio, Professor Platan
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I racconti della scogliera'
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   Chiuso in una spirale vorticosa di pensieri, Meyer stava in attesa di un qualcosa che lo riscuotesse da quella matassa di fantasie informi ed opprimenti che avevano preso ad assillarlo senza tregua. Non vi era modo di definire lo sconforto suscitato da quell’ultima innegabile rivelazione, di fronte alla quale si era scoperto per l’ennesima volta inetto, incapace.
   L’ascensore si fermò al piano e nello scatto delle porte che si sbloccavano egli parve finalmente trovare quel qualcosa, un senso di fuga che era rimasto così inerme ad aspettare nella più completa passività: non un gesto, non un cenno, né il minimo movimento per ottenerlo lui stesso.
   Subito dopo vennero le voci dei bambini: Lem e Clem gli erano corsi incontro trepidanti, coi coriandoli e i festoni nelle mani. Tra i loro baci e le moine affettuose, Meyer fu costretto a cedere. Si chinò a terra e li caricò entrambi in braccio, per un attimo nelle loro voci ritrovò serenità. Ma poi di fronte a lui apparve la figura impeccabile di Aura, che lo attendeva sulla soglia della porta di casa. Vide il suo sorriso, e si vergognò d’esserne così dipendente; e tuttavia il sollievo era troppo grande, la raggiunse e si prese anche il suo abbraccio, ma non il suo bacio. Entrarono. I figli già reclamavano supplichevoli la fetta di torta promessa, ora che il papà era tornato.
   Si sedettero al tavolo della cucina, Aura tirò il dolce fuori dal frigo, delicatamente aprì l’involucro colorato. Lem stava armeggiando con il tappo dello champagne, con Clem che lo imitava pedissequamente. Meyer tolse loro la bottiglia dalle mani nel timore che potessero farsi male in qualche modo: «A questo ci pensa papà», disse, lanciando un’occhiata di sfuggita alla targa, «Ma Aura, non dovevi… Avrai speso una fortuna».
   «Beh, dopotutto è un’occasione speciale, no?» replicò lei, «Rimettiti pure a sedere, adesso taglio qualche fetta. Bambini, fate piano!».
   «Voglio vedere papà che fa scoppiare il tappo!» esclamò Lem sporgendosi sul tavolo. Clem lo seguì subito a ruota libera.
   «Va bene, ma fate attenzione. Meyer?».
   «Lem, non stare troppo vicino. Anche tu Clem, va’ un pochino indietro... Ecco, così, bravi. Allora stappo!».
   La piccola si coprì gli occhi per proteggersi, ma non appena il tappo venne fuori in uno scoppio fragoroso si unì alla contentezza degli altri battendo forte le mani, dondolandosi tutta gongolante sulla sedia e scalciando con le gambine sotto il tavolo. Quando la madre arrivò con due generose fette di torta al cioccolato, si rimise composta e ordinata come il fratello più grande, e prima di afferrare la forchetta aspettò pazientemente che ognuno fosse stato servito, piluccando appena qualche zuccherino di nascosto di tanto in tanto.
   Meyer osservò soddisfatto i suoi due figli, e li ringraziò per aver aiutato la mamma a preparare la festa. Il salotto e la cucina erano stati agghindati di addobbi e disegni, e innegabilmente la casa aveva un aspetto molto meno vuoto e triste del solito, ora che si erano riuniti un’altra volta tutti e quattro. I bicchieri di champagne e succo alla pesca si vennero incontro tintinnando fra loro e allora si brindò a gran voce: «A papà e Blaziken!».
   Sembrava di essere tornati ai tempi di una volta, quando si era ancora insieme e si condividevano le giornate come in una famiglia perfetta. Lem raccontava animatamente dei suoi compiti a scuola e ripeteva orgoglioso le tabelline a memoria – avevano fatto fino a quella del sette – mentre la bambina canticchiava qualche filastrocca sgrammaticata che aveva inventato lì per lì. Ma ecco che proprio da lei, da lei che era nata al di fuori di ogni ordine, da quella frattura insanabile, s’incominciò a frangere il fragile mantello sotto al quale ancora una volta avevano preteso di celare la realtà delle cose.
   Ad un tratto, Clem aveva preso goffamente ad allungarsi sopra il piatto del fratello e a staccare uno per uno gli zuccherini dalla sua fetta di torta, per poi ficcarseli ingorda nella boccuccia grande e spalancata.
   Meyer e Aura interruppero i propri discorsi, e come sconvolti rimasero a guardare quella scena. Perché era palese il fastidio che campeggiava sul viso del figlio maggiore, e tuttavia da parte di questo non pareva esserci la minima intenzione a reagire a quell’ingiustizia, seppur tanto semplice, che la sorella stava perpetrando con la massima e istintiva naturalezza.
   Che cosa fai così? Dille qualcosa, arrabbiati!, avrebbe voluto implorare Meyer. Difenditi, non farti mettere i piedi in testa!
   Qualcosa, in effetti, Lem la disse, quando guardò le facce incredule dei genitori, e fu tanto dolce, fin troppo dolce nei confronti della sorella: «Non fa niente. Può prenderli».
   Ma perché non litigavano come avrebbero fatto tutti i fratelli normali? Perché Lem si mostrava così accondiscendente e passivo nei riguardi di Clem, di quel danno immeritato? Meyer calcò la presa delle dita che stringevano insicure il bicchiere semivuoto.
   E poi, pensò ancora, che lei si comporti in questo modo! Ma chi gliel’ha insegnato?
   ...Possibile? Siamo stati noi?
   Siamo stati noi.
   Si rivolse istintivamente verso Aura e dalla sua espressione capì che stava pensando la stessa cosa. Che per quanto si fossero sforzati di riportare un clima sereno, di mantenere i rapporti uguali ai precedenti, era inutile nascondere l’evidenza: non erano più una famiglia perfetta, non ci sarebbe mai stata una famiglia perfetta. Sopraffatto da quell’angoscia, Meyer non riuscì a reagire – avrebbe voluto sgridarli, alzare la voce, forse persino separarli! E tuttavia a quale scopo? Cercò di nuovo il viso di Aura, non sapendo come intervenire, ma anche i suoi occhi erano lucidi, e vi scoprì distintamente le proprie stesse ansie, la consapevolezza del fallimento. Sentendosi osservata, ella distolse lo sguardo. Si alzò dalla sedia e ritirandosi al lavandino si mise a sciacquare il piatto e a lavarlo. A quel punto tornò la solita freddezza, e tutti tacquero.
   Quando ebbero finito di mangiare, i bambini chiesero il permesso di andare a giocare. Clem raccolse il tappo di sughero che era caduto a terra sulle piastrelle e restò per un po’ indecisa se restituirlo alla mamma e al papà, tenendolo stretto fra le dita piccine. Lem la scosse piano per un braccio: la sorellina alzò la testa verso di lui, e dal suo sguardo capì che sarebbe stato meglio lasciarli soli. Allora lo seguì lungo il corridoio e si chiuse con lui in cameretta.
   Aura, poggiata di schiena contro il ripiano della cucina, li osservò sgattaiolare via. Sospirò. Poi si rivolse a Meyer, stava sforzando un sorriso, e: «Insomma?» lo incalzò. Non voleva parlare di quel che era appena successo, ma in effetti neppure l’altro sembrava molto propenso, quindi: «Non mi racconti nulla? Avanti, sono curiosa! Che mi dici del professore? Ti ha sorriso ancora?».
   Meyer però a quelle parole si tirò su d’improvviso e la squadrò. Si sentì di colpo tremendamente a disagio, e le preoccupazioni di prima, quelle che lo avevano assillato in ascensore, tornarono a galla nei suoi pensieri. Con gesto nervoso mandò giù l’ultimo sorso rimasto nel bicchiere, poi prese la bottiglia e provvide a riempirlo un’altra volta. Aura si sorprese di quell’atteggiamento, e timidamente provò a fare qualche altra domanda, per cambiare di nuovo argomento, perché starsene in silenzio in quel momento era fuori discussione.
   «No, ecco», disse allora Meyer, più per acquietare lei piuttosto che sé stesso, «Lui non c’era».
   «Oh... Peccato», rispose Aura. «Ti era sembrato un uomo gentile, vero?».
   «Sì. E a quanto pare non solo quello».
   «Anche bello».
   «Anche bello. Già».
   Meyer restò per un po’ con la testa china, rigirando lo champagne nel calicetto. Sollevò gli occhi ad incontrare quelli di lei, che attendeva il continuo del discorso. Poi le vide: belle, a forma di cuore, tinte di un rosso sfacciato. Le sue labbra – in passato doveva averle baciate un’infinità di volte.
   «Il rossetto…» mormorò soprappensiero mentre vi posava lo sguardo con maggior insistenza.
   Aura gli rivolse un’occhiata perplessa.
   «Hai il rossetto sbavato», precisò meglio. Ella allora arrossì e si portò una mano a coprire la bocca.
   Quella mattina Meyer si era alzato di buonora. Era partito in sella al motorino con l’aria fredda dell’autunno che pizzicava in gola. Aura era passata poco prima per prendere i bambini e accompagnarli a scuola, insieme si erano accordati per rivedersi di nuovo a casa più tardi, poi lei si era raccomandata che la chiamasse e che le facesse sapere, e gli aveva dato un bacio, uno lieve, sulla guancia. Custodendo quel piccolo gesto d’affetto nella mente, Meyer era partito in sella al motorino con l’aria fredda dell’autunno che pizzicava in gola, e si era mosso verso l’Università.
   Non aveva saputo bene che cosa aspettarsi dai risultati del colloquio. Se da una parte era consapevole che l’eventualità di un successo sarebbe stata molto scarsa, dall’altra però il sorriso che il professore gli aveva rivolto alla fine l’aveva ossessionato per tutti quei giorni al punto tale da spingerlo a sperare in un’unica, misera possibilità.
   Perché era stato così gentile. Ma forse gli aveva solo fatto tanta pena.
   Aveva parcheggiato, messo via il casco, calcato il cappello sulla fronte, ed era andato. Sulla piazza principale dominava incontrastata una statua di altezza imponente: un monumento dedicato a Uxie, Pokémon della conoscenza, era stato eletto a protettore di quei luoghi deputati allo studio e alla diligenza. Nell’appigliarsi a qualcosa che lo distraesse dalla tensione, Meyer aveva sollevato la testa a rivolgere lo sguardo ad esso. Vi aveva scorto all’interno un qualcosa d’insolito, così attraversando la strada vi aveva fissato intensamente la vista sopra, e alla fine se ne era accorto – gli occhi del Pokémon, contrariamente ad ogni convenzione, stavano spalancati a scrutare imperturbabili davanti a sé. Era un’opera di grande maestosità e potenza, ed egli se ne era sentito così affascinato, ma subito dopo era sopraggiunto il confabulare confuso di due ragazzini lì vicino, che si ammonivano reciprocamente di non guardare mai la statua negli occhi se non avessero voluto essere bocciati a un esame. Superstizioni da matricole, chiacchiere sciocche. E tuttavia Meyer come un bambinone si era ritratto e aveva abbassato il viso, le guance rosse d’imbarazzo.
   Giunto in corridoio, come la volta precedente si era ritrovato in mezzo ad una sfilza interminabile di Veterani, Fantallenatori e Domadraghi. Si era seduto, aveva aspettato qualche minuto facendo di continuo su e giù con la manica del maglione per controllare l’orologio, poi la porta aveva cigolato, si era aperta, tutti avevano alzato lo sguardo, e infine, dopo giorni interi passati a ripensare a quel sorriso, la rivelazione che lui non c’era: soltanto l’altra, l’altra.
   Venne il suo turno. Meyer oltrepassò l’entrata dello studio, e alla scrivania trovò l’assistente intenta ad appuntarsi qualcosa su un’agenda. La donna sollevò il viso e con un gesto della mano lo invitò ad accomodarsi di fronte a lei.
   «Meyer, giusto?» chiese.
   «Sì».
   «Il professore mi aveva appunto detto che preferisce essere chiamato per nome. Anche lei, mi chiami semplicemente Sophie».
   «D’accordo, se a lei sta bene».
   Sophie gli aveva rivolto un sorriso cordiale. Poi aveva afferrato il plico di fascicoli che teneva da parte e aveva iniziato a cercare il suo. Una volta trovatolo si era messa a sfogliarlo con attenzione, prestando la massima cura nel leggere ogni pagina. Nell’attesa egli si era limitato ad osservare le sue mani, perché gli occhi non avevano voluto spingersi oltre a leggere fra le righe di quelle schede, a decifrare quel che vi era scritto sopra. Morbide, affusolate, dalla gestualità precisa e il tocco delicato…
   Ma per quanto potessero essere piacevoli quelle dita e tenero il candore di quella sua pelle, il silenzio a lungo andare si era fatto insopportabile, e allora aveva dovuto riempirlo in qualche modo, così:
   «Ecco, la verità è che non mi era stato detto della lotta Pokémon, non ero abbastanza preparato, in effetti non sono neanche tanto bravo, perciò...» aveva preso subito a giustificarsi, perché non avrebbe potuto interpretare quell’attesa in altro modo che come una posticipazione dell’ennesimo fallimento.
   Sophie si era fermata, aveva sollevato la testa un’altra volta e l’aveva guardato.
   «No, a dire il vero, il professore è rimasto abbastanza colpito dalla sua prova», confessò. «Certo, abbiamo avuto altri candidati che con lo stesso Pokémon hanno dato prestazioni migliori, ma riteniamo che il suo dopotutto sia un caso particolare. Essendo questo un ambito prettamente legato al competitivo, non capita molto spesso di studiare soggetti più familiari con l’ambiente domestico. Per questo motivo il professore ha deciso di accettarla comunque nel programma».
   Sorpresa e giubilo, confusione!
   «Mi ha accettato?» aveva ripetuto Meyer incredulo «Aspetti, vorrebbe forse dire che in ogni caso mi avrebbe accettato lo stesso per questa mia condizione?».
   Sophie aveva riso, le era sfuggito uno strano commento:
   «Santo cielo, è vero che Augustine si accontenterebbe di chiunque pur di... però...».
   Non appena si era resa conto delle proprie parole, si era bloccata, interdetta. Senza dare a Meyer il tempo d’intenderne il senso, aveva scosso la testa, gli si era rivolta in tono mortificato.
   «Mi perdoni, lasci stare quello che ho detto. Non era riferito a lei», si scusò. «Comunque sia, no, è chiaro che se la prova fosse risultata del tutto fallimentare sarebbe stato scartato: al contrario, per i suoi standard se l’è cavata piuttosto bene. Guardi, le faccio vedere».
   Allora Sophie aveva girato le schede per potergliele illustrare e aveva iniziato a spiegargli i valori e le cifre volta per volta. A quel punto Meyer era rimasto a scrutarla attentamente, un po’ perché era stato fin troppo emozionato per riuscire effettivamente a concentrarsi su ciò che gli stava dicendo, e un po’ perché... Dio, non l’aveva capito nemmeno lui in un primo momento.
   I lunghi capelli ricadevano mossi sul suo viso ad incorniciarle la bella fronte ampia, mentre le sopracciglia stavano tese ad accentuare l’intensità di quegl’occhi seriosi, un poco socchiusi, come che volessero nascondere un qualcosa di recondito, un mistero, una tristezza irrisolvibile che si agitava dentro il suo animo e che a lui, estraneo, non era dato di cogliere. Ma essi rifulgevano anche di un fiero ardore, e pieni di orgoglio splendevano d’un verde inaudito, perturbanti. La spessa montatura rossa degli occhiali non vi rendeva giustizia. Più degli occhi ancora, tuttavia, Meyer venne colpito dalle sue labbra – e solo a quel punto aveva cominciato a rendersi conto.
   Sulla sua bocca carnosa, il rossetto si era sbavato lungo la parte di un bordo. Allora egli si era di nuovo ritrovato di fronte a quel bacio, alla curva del mento di lui che si era piegato a unirsi per un istante con lei. Quindi aveva capito che ad attrarlo, di questa donna, non era stato tanto il suo aspetto, quanto il fatto che da esso fosse attratto quell’altro uomo.
   Improvvisamente si ritrovò di nuovo al tavolo della cucina, e sentì un senso di colpa crescere nei riguardi di Aura, adesso che la aveva davanti e che gli stava parlando, di qualcosa che però a conti fatti non stava nemmeno ascoltando.
   «Va tutto bene?» gli chiese infatti lei dopo un paio di minuti, essendosi accorta che si era distratto e che era rimasto troppo a lungo col braccio sospeso in aria, senza neanche bere un goccio dal bicchiere.
   «Sì, ecco, scusami. Mi ero perso nei pensieri».
   «Che genere di pensieri?».
   Questo era meglio che non lo sapesse, decise fra sé e sé. Scosse la testa e posò il calice sulla tovaglia.
   «Ma nulla, nulla», cercò di sviare mentre rovistava nelle tasche in cerca del pacchetto di sigarette. Ne accese una e si abbandonò contro lo schienale della sedia. Restò così a fumare, silenzioso, sotto lo sguardo apprensivo della vecchia compagna che continuava a scrutarlo, seduta lì accanto a lui. Ad un tratto la chiamò:
   «Aura».
   «Sì?».
   «Perché non mi hai detto della lotta? Tu lo sapevi, non è vero? Me lo hai nascosto di proposito».
   «Oh, Meyer... Era a questo che pensavi?» mormorò dispiaciuta. Si passò una mano sul viso, gli occhi socchiusi in un attimo di riflessione. Prese un tovagliolo e si mise a sfregare lì dove i bambini avevano fatto cadere della cioccolata, ma le macchie non venivano via.
   «Temevo che la possibilità di fallire ti avrebbe distolto da qualsiasi tentativo», ammise. «So che se te l’avessi detto ti saresti tirato indietro senza nemmeno provarci. Volevo che per una volta potessi essere sicuro di te stesso, senza badare al resto».
    Sarebbe stato stupido negarlo: dopo tutti quegli anni, Aura lo conosceva fin troppo bene. Meyer annuì, e portandosi la sigaretta alle labbra le disse nel modo più sincero che gli fosse mai venuto: «Ti ringrazio».
 
 
 
   Dopo quel giorno, Sophie non l’aveva più vista. Al suo posto avevano preso ad avvicendarsi assistenti ogni volta diversi, con cui Meyer non era mai riuscito a rapportarsi più dello stretto necessario. Anche il professore, Augustine, si era fatto all’improvviso inarrivabile: troppi Allenatori, troppi Pokémon da seguire tutti assieme. Con il tempo Meyer aveva scoperto che quel sorriso amorevole non era mai stato esclusivamente diretto a lui, ma che egli lo rivolgeva a chiunque gli si dovesse rapportare. Se ne era sentito un po’ mortificato.
   Ad ogni modo, era diventato ormai innegabile che questo professore destasse in lui certe pulsioni, un fascino irresistibile, al di là del semplice sorriso. Meyer aveva cominciato a studiarlo, di nascosto, durante le ore che passava sempre più spesso in Università. E si era sorpreso di quanto ne fosse conquistato, giorno dopo giorno.
   Una volta era accaduto che, fermandosi in corridoio a prendere un caffè, lo avesse intravisto in fila alle macchinette vicino alle scale per fare lo stesso. Assieme a lui c’era un suo collega poco più giovane, non particolarmente bello, ma dallo sguardo pronto e la cadenza appassionata della voce, che ben compensavano alla sproporzione di quel naso troppo pronunciato in mezzo al viso liscio e sbarbato.
   Stavano discutendo di qualcosa, non avrebbe saputo dire di preciso l’argomento, tuttavia pareva fosse in ogni caso piuttosto noto a entrambi. Si scambiavano le proprie riflessioni al riguardo con disarmata sincerità, ed era con un sorriso cordiale che il professore gli si rivolgeva incessantemente, sia che concordasse o che dissentisse con quel ch’egli diceva. Con fare sciolto, poi, si era proposto di offrirgli il caffè, senza ammettere contestazioni, e quando dopo erano andati a sistemarsi accanto alla finestra fermandosi ad osservare gli studenti che entravano e uscivano dall’edificio della Facoltà, gli occhi di Meyer si erano improvvisamente illanguiditi d’un tratto. Perché qualcuno avrebbe potuto scambiare quei gesti per la sua solita ed ineffabile gentilezza, ma lui vi aveva scorto qualcosa d’altro.
   Lasciando raffreddare il proprio bicchiere sul davanzale, il professore si era avvicinato al collega e gli aveva porto il suo, sorreggendolo con entrambe le mani che andavano in parte a chiudersi sulle sue dita, sfiorandole impercettibilmente e con delicatezza. Si trattava di qualcosa di talmente tanto insignificante che uno non ci avrebbe mai fatto caso a meno che non ci si fosse soffermato con attenzione; ma Meyer l’aveva visto e aveva anche notato chiaramente quell’unico istante d’esitazione in più nella presa delle mani che era bastato a trasformare quel tocco da semplice gesto meccanico e distratto ad un più intenso, calcolato contatto volontario. Allora aveva capito ch'egli non lo stava banalmente interpellando su qualsiasi cosa stessero parlando – lo stava corteggiando. Ed era un corteggiamento così sottile, discreto, da risultare delizioso e gradevole in un modo unico tutto suo, al punto che Meyer ne rimase come meravigliato e sedotto a propria volta, seppur fosse così distante da loro e le sue mani stringessero da sole il bicchiere ormai vuoto.
   In quel mentre, il suo sguardo aveva incontrato quello di Augustine, laggiù, che ancora accarezzava le dita di lui, ed essi erano rimasti a guardarsi silenziosamente per qualche momento, l’uno e l’altro ai lati opposti del corridoio. Gli pareva di aver scorto un qualche bagliore di sorpresa nei suoi occhi, ma non aveva potuto averne conferma perché subito dopo aveva abbassato la testa ed era tornato a parlare con quell’altro.
   Per un’intera settimana Meyer non aveva fatto altro che chiedersi come fossero andate più tardi le cose tra quei due. E da una parte, aveva incominciato a pensare che non gli sarebbe dispiaciuto ricevere anche lui una cosa del genere. Allora era stato il periodo delle domande.
   Ciò che lo aveva sconvolto più del resto, quel giorno in cui aveva posato gli occhi sulle labbra di Sophie, era stato il fatto che fino a quel momento, quando andava ormai verso i quaranta, non si fosse mai reso conto di quanto anche gli uomini destassero in lui un’irrefrenabile attrazione.
   C’erano stati dei momenti in cui, da giovane, posando stancamente la testa sulla spalla di un compagno di viaggio, mentre si era fermi a scaldarsi davanti al falò, avesse provato l’impulso di spingersi oltre, di lasciarsi andare contro quel petto e fra quelle braccia; oppure che fosse intenerito dalla più lieve e imprudente carezza, da un tono di voce – quante volte, inconsciamente, aveva ricercato un contatto, una vicinanza, quante volte era rimasto ad ammirare un viso o un corpo mentre si era insieme a dormire, a spogliarsi, ad allenarsi! Ma poi aveva sempre pensato che fosse perché Aura era lontana e gli mancava, che voleva baciarla e doveva accontentarsi appena di stringersi al cuscino e imprimervi sopra con la mente le sue forme, il suo profumo, che insomma la solitudine lo inducesse a desiderare tutte queste cose in quei compagni occasionali, che spesso condividevano la tenda con lui anche il tempo di una notte soltanto (Blaziken era stato tanto paziente, allora, nell’ascoltare il suo tormento).
   Adesso invece intendeva che quel desiderio era fondato e non costruito, e palpitava nel cuore con violenza e ardore. Possibile che il legame con Aura lo avesse distratto a tal punto da fargli perdere di vista sé stesso? Che nell’anelare alla loro unione avesse compiuto il sacrificio e si fosse rifiutato di riconoscere la natura più intima della propria persona?
   Con leggero timore, Meyer aveva cominciato a scoprirsi. Nei corridoi incontrava Augustine e lo guardava, e attraverso la sua visione gli si rivelava quello che davvero provava, la parte di sé che era stata a tacere tanto a lungo. Per breve tempo aveva cercato di opporvi resistenza, strenuamente aveva combattuto, perché non era riuscito a capirlo, ad accettarlo, fino a quando una sera, che era a casa da solo, quasi per caso per la prima volta aveva cercato e aveva visto qualcosa, e poi timidamente si era toccato pensando a lui. Con un gemito strozzato aveva sollevato di getto la testa così pesantemente incassata nelle spalle e si era lasciato cadere fra i cuscini del divano, in un certo delizioso, inaspettato sollievo, che era rimasto a contemplare in balia del proprio affannoso respiro, via via sempre più quieto. Si era fermato ad ascoltarlo. Non c’era altro suono intorno che il suo fiato, e il battito del cuore nel suo petto accaldato, al riparo tra i vestiti. Sul tavolo, la ventola del computer su cui si sarebbe dovuto rimettere a lavorare girava fischiando. Anche il vento, di fuori, sbuffava, riversandosi contro i vetri delle finestre. Col sopraggiungere del tramonto, per strada era sceso il freddo. Anch’egli cominciò a sentirlo. Fece scivolare la mano ancora un poco sulle forme del corpo, a percepire la propria presenza, indugiando in quella sensazione di tranquillità. Avrebbe voluto addormentarsi. Il sonno scese a poco a poco sulle palpebre, e Meyer si rasserenò nella stretta delle sue stesse braccia che lo cingevano. Gli parve di rivedere le labbra di Augustine, quel suo sorriso amorevole. Ma che cosa aveva appena fatto?
   Di colpo si tirò su a sedere e stette ad osservarsi, gli abiti improvvisamente stretti e soffocanti, il sudore che gl’imperlava la fronte. Pensò ai bambini, ad Aura, soprattutto ad Aura, e tentò disperatamente di trovare una giustificazione, seppur non ce ne fosse bisogno, ma aveva questo senso di colpa pesante addosso che lo opprimeva e che doveva scacciare via in qualche modo, e allora, allora... Con le dita si precipitò a sfiorare l’anulare, in cerca dell’anello com’era solito, e tuttavia fu in quel momento che soggiunse in lui la più grande realizzazione, l’evidenza che ancora non era riuscito a cogliere del tutto chiaramente.
   Il fatto, cioè, che Aura ormai non c’era più.
   Aura non c’era più.


 
 
~ ~ ~



Ciao a tutti, lettrici e lettori, ben ritrovati! ♥
...E soprattutto, buon anno! Come sono andati questi primi due mesi del 2019? Per quanto mi riguarda, suppongo di dover ancora ingranare bene con questa questione del ritmo di pubblicazione: tra revisioni, impegni e studio, l'inserimento di questo capitolo è scalato dalla fine delle vacanze natalizie alla fine della sessione invernale. Vi chiedo scusa se vi ho fatto attendere più del previsto!
L'evoluzione di Meyer e la sua presa di coscienza nei confronti di ciò che sente di essere è il nodo centrale attorno a cui volevo sviluppare questa storia, e in effetti il segmento delle macchinette è uno dei primissimi che ho scritto quando ho cominciato a lavorarci sopra. Spero che possa essere sembrato coerente e non troppo affrettato, in ogni caso ci sarà ancora modo di approfondirlo meglio! Spero anche che il capitolo vi sia piaciuto, sebbene magari alcune reazioni possano essere state esagerate, ma ho l'impressione che in una famiglia come quella di Meyer, che sta attraversando una fase così delicata, anche le cose più banali possano essere fonte di turbamento. Perciò, ecco, da una parte spero che anche questo in un certo senso sia risultato coerente. Per quanto riguarda Sophie, infine, sì: come qualcuno aveva previsto si tratta proprio dell'assistente che Platan ha nell'anime!
Prima di chiudere, ringrazio JoksBK e GingerGin per il loro prezioso confronto, e Afaneia per l'ultima recensione alla seconda conchiglia.
Un forte abbraccio a tutti quanti, e mi raccomando mettiamocela tutta anche quest'anno per realizzare i nostri obiettivi!

Persej

P.S. Ho fatto richiesta per inserire Meyer nella lista personaggi della sezione, posso chiedervi il favore di andare a votare per lui? Vi ringrazio tanto in anticipo ♥
  
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