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Autore: Adeia Di Elferas    24/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Per favore, Chiara, non è il momento...” la voce della Tigre era risuonata così perentoria nel corridoio, che perfino Giovannino, in braccio a sua zia, si fece scuro in volto, visibilmente preoccupato.

La Sforza più giovane, che avrebbe solo voluto parlare alla sorella in merito alla propria situazione, non fece nulla per fermarla, limitandosi a guardarla andare verso lo studiolo del castellano.

Caterina avrebbe voluto apparire un po' più affabile, ma quella giornata era partita male e stava proseguendo ancora peggio.

Evidentemente, a minare la stabilità del suo potere, non bastavano le voci, sempre più opprimenti e incontrollate che ormai la indicavano come unica mandante dell'omicidio di Ottaviano Manfredi – i più fantasiosi, addirittura, la vedevano come esecutrice materiale – e quindi si erano dovute anche mettere delle calunnie da parte dei fiorentini che, in modo più o meno subdolo, stavano sabotando i suoi commerci e riducendo la sua credibilità.

Trovava assurdo quel comportamento da parte di uno Stato che le si era detto formalmente amico, che si era avvalso dei suoi uomini e anche delle sue strade, e che, in cambio, le aveva dato poco o nulla.

Ciò che l'aveva davvero fatta imbestialire, però, era stata un'altra cosa. Dopo che i libri contabili relativi agli ultimi interscambi tra lei e la Signoria erano arrivati da Firenze erano stati subito analizzati con accuratezza dai suoi. Così, nel giro di mezza giornata, Caterina aveva finalmente avuto conferma che gli intermediari fiorentini che si erano occupati delle transizioni tra il suo Stato e Firenze al posto di Fortunati, che in quel periodo aveva delegato ad altri perché a Forlì da lei, avevano truccato i conti, ovviamente a favore di Firenze.

E la cosa più grave stava nel fatto che tra i colpevoli c'era per certo anche Andrea Pazzi, un ambasciatore, un uomo che avrebbe dovuto garantire con la propria integrità l'integrità dello Stato che serviva e rappresentava.

Quando la donna arrivò nello studiolo del castellano, Cesare Feo non c'era. Voleva discuterne con lui perché, a differenza di tanti altri, era capace di stemperarla, quando stava per avere un colpo di testa che avrebbe potuto creare incidenti diplomatici non indifferenti.

Lo aspettò per un po', il resoconto dei contabili stretto in mano. Non riusciva a sbollire dalla rabbia, chiedendosi con che faccia i fiorentini osassero trattarla ancora a quel modo, malgrado fosse la vedova di un Medici, la madre di un Medici, la cognata di un Medici! Ed era anche cittadina di Firenze per matrimonio. Eppure, tutte quelle evidenze svanivano nel nulla, forse cancellate dal fatto che era una donna, o che era una Sforza o, ancora peggio, che era, per la Signoria, solo un'inutile perdita di tempo.

“Perdonatemi, mia signora, non sapevo che mi steste cercando.” fece il castellano, entrando nello studiolo e restando un po' spiazzato nel trovarsi davanti la Tigre intenta a camminare nervosamente avanti e indietro.

“Colpa mia che non vi ho fatto cercare.” tagliò corto lei: “Leggete qui.” disse e gli porse il foglio che stringeva nel pugno.

Cesare dovette mettersi alla scrivania e spianarlo per un paio di minuti, prima di poter decifrare cosa vi era scritto. Man mano che leggeva, la sua fronte si corrugava e la sua testa si scuoteva lentamente, in segno di incredulità.

Quando ebbe concluso, guardò la sua signora e chiese: “Che intendete fare?”

“Fosse per me, marcerei su Firenze oggi stesso!” sbottò la Leonessa.

Il castellano la lasciò fare, mentre si perdeva in una sequela di volgarissime bestemmie e improperi di ogni sorta. Sapeva che se aveva modo di sfogarsi a quel modo, poi recuperava un minimo di senno.

Lo infastidiva sentire una donna così bella parlare in modo tanto scurrile, ma meglio qualche imprecazione colorita che una guerra scatenata solo per orgoglio.

Come previsto, dopo qualche minuto, la Contessa cominciò ad abbassare la voce, trovando sempre meno espressioni aggressive con cui apostrofare i fiorentini e, alla fine, come sfinita, si lasciò cadere sulla poltrona e, cominciando a giocherellare con il nodo nuziale che ancora la legava ai Medici, soffiò: “Che cosa devo fare, Cesare?”

Il Feo si schiarì la voce e sussurrò: “Io eviterei di scrivere alla Signoria. Cercate l'intermediazione di Fortunati. Finora, quando ha potuto, ha mediato abbastanza bene tra voi e vostro cognato...”

“Pensate che sia una mossa di Lorenzo anche questa?” chiese Caterina, abbattuta.

L'uomo strinse le labbra, ricordandosi come solo un paio di giorni prima la sua signora l'avesse messo di nuovo a parte delle sue preoccupazioni in merito all'apparente silenzio del Medici riguardo la questione ancora aperta dell'eredità del povero Giovanni.

“Non so che cosa abbia in mente vostro cognato, ma mi pare chiaro che stia facendo di tutto per ostacolarvi. Non mi stupirei che fosse anche questa una sua idea.” fece, con cautela, il castellano.

La donna sospirò un paio di volte e poi, lasciando la poltrona, fece cenno a Cesare di alzarsi e lasciarle la scrivania.

Egli eseguì all'istante e poi, non avendo avuto ordine di andarsene, restò lì accanto a braccia incrociate sul petto, in attesa di altre disposizioni.

La Tigre prese il necessario per scrivere e, dopo un incipit abbastanza tranquillo, decise di affondare un colpo che di certo a un intenditore fino come Fortunati non sarebbe sfuggito, ma che, in caso di intercettazione sgradita, non avrebbe potuto costituire un motivo di reale attrito tra lei e la Signoria.

Prima di tutto spiegò di volere i conti e il pagamento dei debiti di Pierfrancesco, uno dei fiorentini che si era occupato di curare la contabilità degli ultimi mesi, e poi sottolineò: 'che per certo la robba nostra pare molto suave et dolce ad altri, et noi non siamo per zetarla via per darse troppo grande fatica et difficultà ad acquistarla.'.

Chiusa la missiva con la richiesta abbastanza esplicita che venissero sostituiti responsabili della sua contabilità in terra fiorentina, la Leonessa porse la lettera al castellano e attese che la leggesse, prima di chiedere: “Può andare?”

“Può andare.” concordò lui e, dopo che la sua signora l'ebbe siglata e sigillata, andò subito al piano di sotto per dare l'incarico a una staffetta.

 

“Ora lo capite anche voi – aveva detto Paolo Vitelli a Ranuccio da Marciano, quando si erano ricongiunti il giorno prima – che per il momento Cascina non la si può prendere a patti.”

Era necessario conquistarla, prima di avanzare verso Pisa e sedare la rivolta di quelli che non volevano arrendersi al lodo di pace emesso da Ercole Este. Anche senza più l'aiuto dei veneziani, i pisani non demordevano e la Signoria aveva dato ordine di frenare ogni possibile ritorno di fiamma sul nascere.

Se i nemici fossero insorti, uscendo dai confini pisani e arrivando a lambire Firenze, allora sarebbe stato impossibile riuscire a contenerli. Spenti sul nascere tutti i focolai di dissidio, invece, c'era una concreta possibilità di far finire quel conflitto prima che scoppiasse. E passare da Cascina era indispensabile.

Ranuccio era stato convinto che bastasse scendere a patti con chi comandava Cascina, magari facendo pressioni anche sul piovano Fortunati, che sembrava essere una sorta di signore de facto di quella città, ma quando il Vitelli gli aveva raccontato nel dettaglio l'ostinazione dei commissari cittadini e del castellano della rocca a non piegare la testa al suo volere, allora si era detto favorevole all'uso della forza.

“Piazzatene altre due lì...” disse piano Marciano, indicando un punto che gli pareva perfetto, mentre i suoi uomini portavano sul posto due bombarde: “E poi ne mettiamo altre due più a est e questo lato è fatto.”

Guastare il territorio era fondamentale, se volevano costringere gli abitanti di Cascina ad arrendersi. Spaventando la popolazione, minacciandola con l'artiglieria, prendendo d'assedio con il ferro e con il fuoco la rocca e le mura, finalmente anche i commissari cittadini e il castellano si sarebbero consegnati.

Ranuccio guardò un momento verso il cielo. Splendeva un sole sfolgorante e gli pareva assurdo che, pur vedendo di certo i loro maneggi, i nemici non stessero nemmeno tirando una freccia contro di loro, anche solo per infastidirli.

Se quello era l'atteggiamento che dominava i fanti stranieri che stavano dando man forte a Cascina, con un po' di fortuna, pensò il Marciano, la città sarebbe caduta nel giro di un giorno.

 

Caterina guardava in silenzio il soffitto della sua stanza, cercando di non pensare a nulla, ma ritrovandosi di continuo a rimuginare su quel che aveva sentito a riguardo di Vincenzo Naldi.

Era una domenica mattina tranquilla e la Tigre stava approfittando di quelle ore di silenzio per prendersi un po' di tempo per sé. Con lei c'era anche Giovanni da Casale, ma in quel momento nessuno dei due pareva interessato all'altro.

Avevano passato la prima parte della giornata ad amarsi, furiosamente e senza requie, quasi avessero paura di non fare in tempo ad averne abbastanza, ma poi, verso metà mattina, si erano placati, e, senza trovare argomenti di cui discutere, si erano messi, zitti e ognuno immerso nei propri pensieri, a riposare.

La Sforza era relativamente tranquilla, perché aveva dato ordine ad Argentina di tenere lontano dalla sua stanza chiunque, salvo emergenze. Avrebbe potuto passare quel tempo con i suoi figli, lo sapeva, ma i più grandi erano usciti per la Messa e quasi per certo si sarebbero fermati in città o a far compere o a incontrare dei conoscenti, mentre Giovannino era con le balie, a recuperare un po' di sonno dopo una notte turbolenta, passata tra starnuti e una fastidiosa febbricola che, per fortuna, sorto il sole era svanita nel nulla assieme alla chiusura nasale.

L'unico, a parte il più piccolo, che forse non aveva seguito in chiesa i fratelli, era Bernardino, ma la donna aveva chiesto al castellano di tenerlo d'occhio per lei e quindi, almeno per quella domenica, si sentiva tranquilla. Seguito dallo zio di suo padre, sentendosi importante, probabilmente il ragazzino non si sarebbe cacciato nei guai. Almeno fino a che Cesare Feo fosse riuscito a tenerlo al suo fianco.

Però, malgrado in quel momento non avesse nulla di grave su cui rompersi la testa, non faceva altro che rimuginare su Dionigi Naldi. Si diceva che ci fosse lui dietro i disordini in Val di Lamone dei giorni addietro e la Leonessa si chiedeva se fosse vero.

Quell'uomo, malgrado tutte le belle parole del fratello Dionigi, era ancora al soldo veneziano, eppure aveva infastidito gli uomini di Astorre Manfredi, formale alleato della Serenissima. Che l'avesse fatto nella speranza di ingraziarsi proprio lei, quasi in segno di fedeltà nei suoi confronti? O che lo stesse facendo per aiutare il fratello nelle ricerche di Galeotto Bosi?

Caterina si grattò un momento il collo, pensosa. Quale che fosse il reale movente di Vincenzo Naldi, anche altri avrebbero pensato che ci potesse essere lei sotto. E in tal caso, Venezia come avrebbe reagito? E Faenza? Non poteva dimenticare che Bianca era ancora ufficialmente la moglie di Astorre e che, passata la buriana della guerra tra Firenze e Venezia, probabilmente Castagnino sarebbe tornato a pretendere che la Riario raggiungesse il suo legittimo sposo...

Anche Pirovano stava navigando in acque torbide, nella sua mente. I suoi occhi scuri rincorrevano i riflessi d'argento che il sole imprimeva sui capelli bianchi della sua amante e più la osservava, più un'ansia molto strana lo prendeva.

Sapeva che Caterina era stata capace di cose orrende. Sapeva che aveva fatto a pezzi un uomo, dopo la morte di Manfredi, e sapeva che ne aveva uccisi a decine, dopo la morte del suo Giacomo.

Però c'era qualcosa che lo inquietava molto di più. Non era tanto il saperla capace di togliere la vita a qualcuno. Lui era un soldato, anche lui aveva ucciso, e più di una volta, e non sempre in modo onorevole. Ciò che lo gettava nel panico era pensare che quella donna potesse davvero essere stata in grado di progettare la morte di un uomo che diceva di amare.

Erano state chiacchiere molto pesanti, quelle che si erano rincorse alla morte del Feo. Si diceva che fosse stato un suo piano, ardito e complicato, ma riuscitissimo, per togliersi di mezzo un uomo ormai più dannoso che utile e ricambiare quasi per intero la classe di governo del suo Stato. Era crudele, come visione della Sforza, ma qualcuno ancora sosteneva fosse l'unica realistica.

In confronto, pensare che avesse potuto far uccidere Manfredi, era un nonnulla. Tuttavia, quando trovò il coraggio di parlare, Giovanni da Casale decise di partire dal carico minore.

Lisciando un po' il lenzuolo che gli copriva in parte il petto, l'uomo deglutì e chiese, tanto repentinamente da far quasi sobbalzare la Leonessa: “Ma è vero quello che dicono sulla morte di Manfredi?”

Caterina non ebbe bisogno di chiedere delucidazioni. Il tono usato dal suo amante era troppo denso di preoccupazione per poter essere frainteso.

Sistemandosi un po' accanto a lui, la donna prese fiato e rispose: “Non l'ho fatto uccidere io. Se fossi stato qui e mi avessi vista quando ho saputo cos'era successo, non avresti dubbi.”

“Davvero?” chiese in un sussurro Pirovano, indeciso se crederle o meno.

La Contessa non aveva alcuna voglia di doversi giustificare con lui, perciò, un po' piccata, si mise seduta e, accennando a lasciare il letto, esclamò: “Non credevo che fossi qui per interrogarmi!”

Il giovane allungò una mano, posandola sulla sua schiena, per invogliarla a restare e si scusò, decidendo all'istante di non provare nemmeno per sbaglio a nominare Giacomo Feo: “Perdonami, è che si sentono tante cose...”

La Sforza sbuffò e, rimettendosi coricata, ribatté: “Se stai ad ascoltare tutto quello che dicono, allora come trovi il coraggio di stare sotto le lenzuola con me? Non hai paura che ti getti in un pozzo pieno di lame per puro diletto?”

Giovanni si morse il labbro, rendendosi conto di aver sbagliato a porgerle quella domanda, e sospirò, cercando di tirarla a sé.

Lei, però, lo tenne a distanza e, coprendosi un po', più per non lasciargli vedere troppo che non perché avesse freddo, gli disse: “Piuttosto, vedi di renderti utile, dimmi quello che sai, di preciso, sui provvedimenti che sta prendendo mio zio. Sei stato a Milano per un bel po', prima di andare a Castrocaro, raccontami tutto quello che hai visto e sentito.”

L'uomo fece un paio di respiri fondi e poi, riordinando le idee, cominciò a raccontarle tutto il suo soggiorno milanese, tentando di condire la narrazione con le sue impressioni sulle reazioni del Moro e sulle chiacchiere di palazzo.

Caterina all'inizio lo ascoltò con molta attenzione, prendendo mentalmente nota di tutto quello che lui diceva, ma dopo un po' la sua mente cominciò ad andare altrove.

Passava lo sguardo dalle sue labbra, che si muovevano senza sosta, ai suoi occhi scuri che, per concentrarsi meglio sul resoconto, evitavano di guardarla, perdendosi nei ricordi dei giorni passati al nord.

La Leonessa, a un certo punto, si rese conto di non essere più in grado di seguire il significato delle parole del suo amante. Non seguiva più il senso del discorso, ma solo la sua musicalità.

Nei toni bassi, nelle inflessioni e nella cadenza inconfondibile che coloriva alcune frasi, sentiva i suoni di casa. Era come tornare indietro nel tempo, come farsi cullare da qualcosa di caldo e soffice, qualcosa in grado di farla sentire al sicuro e protetta.

Finalmente, come colta da un lampo di comprensione improvviso, capì che quello era uno dei motivi principali per cui le piaceva così tanto quell'uomo.

Da che erano morte sua madre Lucrezia e sua sorella Bianca, a parte l'Oliva, qualche sporadico ambasciatore e Chiara – la cui pronuncia si era sporcata, negli anni passati lontani dal palazzo di Porta Giovia – nessuno più aveva fatto risuonare l'accento di Milano nella sua rocca. Nemmeno i suoi figli.

Colta da uno slancio di tenerezza e incosciente riconoscenza verso l'uomo che le stava accanto, la Sforza si mosse con uno scatto repentino, lasciando il nascondiglio delle coperte e abbracciandolo con forza.

Giovanni da Casale, colto allo sprovvista a metà di una frase, l'accolse tra le sue braccia con prontezza, chiedendo: “Tutto bene?”

Caterina affondò il viso nel petto del suo amante, respirando con forza il suo odore e gli sussurrò, con la voce un po' arrochita: “Non mi ero resa conto di quanto mi mancasse casa mia.”

L'uomo deglutì e poi chiese, guardingo: “Milano?”

“Sì.” annuì la Contessa: “Milano.”

Pirovano fece un sospiro profondo, chiedendosi vagamente come potesse quella donna ritenere ancora Milano casa propria, dato che, da quel che gli risultava, aveva passato ben più della metà della sua vita lontana dal Ducato.

Seguì tra loro un lungo momento di silenzio e la Leonessa, a malincuore, si rese conto che il giovane, il cui cuore batteva lentamente contro il suo orecchio, non sapeva cosa dirle, né come interagire con lei in quel momento. Se al suo posto ci fosse stato un altro Giovanni, di certo le cose sarebbero andate diversamente.

Pirovano era una cosa diversa e come tale Caterina decise di trattarlo.

Mettendo a tacere la vena malinconica che l'aveva riportata agli anni più belli della sua vita, quelli trascorsi tra Milano e Pavia, andando a caccia, giocando con i suoi fratelli e riempiendosi la testa di storie di cavalieri e condottieri dalla fama leggendaria, quegli anni d'oro che avevano preceduto il tradimento capitale perpetrato da suo padre e la fine della sua innocenza, la donna sollevò un po' il viso e cercò lo sguardo del suo amante.

Trovandolo confuso, come si era attesa di vederlo, si decise una volta per tutte a non sperare più di trovare in lui qualcosa che andasse oltre qualcosa di estremamente terreno. Andavano d'accordo, si capivano quando parlavano da soldati, ma tutto ciò che andava oltre un discorso sui falconetti o una considerazione sulla vita militare finiva a essere per loro un motivo di lontananza, e la Tigre non poteva permettersi di allontanarlo, non in quel momento di bisogno.

Così gli accarezzò la guancia, su cui stava già ricrescendo la fitta barba scura che gli aveva fatto rasare solo il giorno prima, e con un bacio silenzioso, gli fece capire che era stanca di riposarsi e che voleva riprendere la battaglia amorosa che avevano interrotto.

 

Il quattordicenne Astorre Manfredi teneva fissi gli occhi chiari su Niccolò Castagnino, aspettando che finisse di parlare, prima di esprimersi.

“Ecco perché vi dico che è necessario attaccare militarmente Forlì.” concluse il tutore, sporgendo un po' il mento in fuori e tenendo lo sguardo puntato su quello del ragazzino, come faceva sempre quando voleva convincerlo di qualcosa.

Il signore di Faenza si passò piano la lingua sulle labbra. Non gli piaceva l'idea di scatenare una guerra con Forlì. Lì viveva Bianca Riario, sua moglie. Che esempio avrebbe dato ai suoi sudditi, attaccando la terra di sua moglie?

Anche Sebastiano Zaccaria, il canonico del Duomo che gli faceva da precettore, aveva insistito molto, nel dirgli quanto fosse importante, per un uomo di potere, essere d'esempio, con la propria vita, e non a parole.

Prima di dire la sua, Astorre si voltò un momento verso i fratellastri, Giovanni Evangelista e Francesco. Loro due, secondo il giovane, erano gli unici di cui potesse davvero fidarsi, a parte Zaccaria. Erano figli di suoi padre, suoi fratelli per metà e da quando sua madre Francesca era stata allontanata dalla sua corte, erano gli unici suoi consanguinei che sembrassero importarsi di lui.

Castagnino seguì quello scambio di occhiate con apprensione. Aveva cercato di tenere i due figli illegittimi di Galeotto Manfredi il più possibile lontano da Astorre, ma non c'era riuscito. Quei due erano più vecchi, più disincantati e maledettamente più scaltri del fratellastro. Da quando si erano messi in mezzo, per Niccolò era diventato sempre più difficile pilotare le decisioni del suo protetto e ancor più di rado era riuscito a prendere iniziative senza consultarlo prima. Lo seguivano come due cagnacci e quella situazione, secondo lui, avrebbe fatto crollare tutti i suoi piani, alla lunga.

“Ritengo sia opportuno lamentarsi con Venezia di questo comportamento di Giampaolo Manfrone e anche di quello di Vincenzo Naldi.” disse piano il Manfredi, spostandosi una ciocca di capelli biondissimi dalla fronte: “Sono entrambi al soldo di Venezia e noi siamo sotto la protezione del Doge. Spetta a lui richiamarli.”

“Ma non capite che sotto a queste continue rappresaglia che fanno nelle campagne c'è quella strega della Sforza? Ma non vi accorgete che quella donna sta facendo di tutto per indebolirvi e poi spazzarvi via? Non vi è bastato quello che voleva fare usando vostro cugino Ottaviano?” la voce di Castagnino si alzava sempre di più man mano che proseguiva e, più si alzava, più Giovanni Evangelista e Francesco si avvicinavano al fratellastro, quasi in segno di protezione.

“Ho deciso così e basta.” concluse Astorre, voltando il profilo – aggraziatissimo e ritenuto senza pari in tutta Faenza – e facendo cenno a Niccolò di andare pure.

Il suo tutore, incassando il colpo con poca grazia, chinò il capo e borbottò tra sé qualcosa, ma, del tutto impotente davanti a quell'assurda presa di posizione, non poté far altro che ritirarsi in buon ordine e andare a scrivere la missiva di lamentele per Venezia.

“Non posso attaccare la Contessa Riario.” spiegò Manfredi, rivolgendosi ai fratellastri: “Bianca Riario è la mia sposa e non potrei mai attaccarla.”

Giovanni Evangelista e Francesco si guardarono un secondo, come facevano sempre quando Astorre parlava con quel tono. Era un ragazzino strano, intelligentissimo, ma con una testa che lavorava su strade parallele che difficilmente si incrociavano con quelle percorse dalla maggior parte della gente.

Aveva tratti ossessivi e tratti invece affabilissimi. Loro avevano imparato a conoscerlo sempre di più, riuscendo perfino ad anticiparlo, a volte, ma si rendevano conto di quanto stesse diventando sempre più difficile da manovrare.

L'unico che pareva ancora in grado di pilotarne il pensiero era il suo precettore, il canonico Zaccaria, ed era su di lui che i due figli illegittimi del defunto Galeotto Manfredi cercavano costantemente di fare pressioni.

“No, hai fatto bene...” fece piano Francesco, posandogli una mano sulla spalla: “E poi è meglio tenersela buona, la Sforza.”

“Contessa Riario.” lo corresse Astorre, accigliandosi: “Ti prego di portare il giusto rispetto a mia suocera.”

Giovanni Evangelista fece un sospiro, trattenendo a stento un sorriso di commiserazione e poi, facendo un cenno agli altri due, esclamò: “Avanti, andiamo a sgranchirci un po' le gambe. È l'ora della scherma, per il nostro signore...”

Manfredi annuì. Anche se non si sentiva particolarmente portato per la spada, Zaccaria aveva insistito molto sull'importanza dell'uso delle armi, per il signore di uno Stato e Astorre non voleva deludere né il suo precettore, né il suo popolo.

Né, aggiunse tra sé e sé, mentre seguiva i fratellastri fino nel cortile del palazzo, la sua sposa che, un giorno, ne era certissimo, sarebbe arrivata a Faenza da lui e sarebbe stata compiaciuta e lietissima di trovarlo non più un bambino, ma un uomo, un uomo capace di amare una donna del suo rango, di comportarsi come si doveva ai ricevimenti, e di tirare di spada.

Sapeva che la sua diletta Bianca era cresciuta in mezzo ai soldati e non aveva mai voluto ascoltare i pettegolezzi che la volevano per quello disinvolta con gli uomini e incline al peccato. Però era sicuro che vedere così tanto ardore militare le avesse conferito un certo gusto per i cavalieri. Non voleva deluderla. Voleva essere all'altezza della situazione, e, come tutte le cose che voleva, alla fine l'avrebbe ottenuta.

 
 
   
 
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