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Autore: Adeia Di Elferas    26/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Isabella d'Aragona si portò una mano sulle labbra e poi, tesa, domandò: “E Alfonso e Sancha hanno già pensato a cosa fare?”

Boltraffio scosse il capo e ammise: “Non ne ho idea. Questa è l'unica notizia che sono riuscito a sentire. A corte se ne parla, ma il Duca fa finta che non stia succedendo nulla.”

La vedova di Gian Galeazzo Sforza fece un respiro profondo e poi, dovo aver chiuso un momento gli occhi, fece un cenno di ringraziamento al suo amico e convenne: “Ebbene, già sapere che il papa sta pensando di schierarsi con la Francia anche contro Napoli è una cosa importante, da sapere. E, dopotutto, il matrimonio di suo figlio con una parente di Luigi non poteva portare ad altro...”

“Non sono bravo in politica, mia signora...” si schermì subito il pittore, con un sorriso un po' imbarazzato: “Queste valutazioni le lascio a voi.”

“Cercate di capire cosa faranno Alfonso e Sancha. Se scapperanno e torneranno a Napoli, allora dovete aiutarmi a trovare un modo per comunicare con loro e...” cominciò a dire Isabella, i capelli, ancora rossi e soffici come un tempo, che le coprivano un po' il volto, rendendola ancora più affascinante di quanto Giovanni Antonio ricordasse.

“Mia signora...” una delle guardie che la presidiavano giorno e notte si affacciò nel salottino e, dopo un breve inchino disse: “Le vostre figlie vi reclamano.”

L'Aragona sapeva benissimo che non era così, ma che era solo un modo gentile e criptico che quel soldato – diventato nel corso della sua lunga prigionia mascherata un suo fedele amico – aveva trovato per farle capire che stava per esserci il cambio della guardia.

“Non importa, io tanto stavo andando...” fece Boltraffio, recuperando goffamente la sua tela e farfugliando: “Apporterò qualche modifica, come concordato e vi terrò informata.”

“Quando tornerete qui?” chiese Isabella, che avrebbe voluto trattenerlo non solo per carpire altra informazioni, ma anche solo per aver qualcuno con cui parlare apertamente.

“Io... Io non lo so. Ho... Ho in previsione di andare a Bologna, forse. Non so quanto potrò tornare, ecco...” fece il pittore, evasivo.

A quel punto l'Aragona capì. Non era il primo che sentiva in procinto di scappare. Perfino Leonardo, sosteneva qualcuno, si stava preparando a lasciare Milano. Tutti i topi stavano lasciando la nave che affondava e Ludovico non si accorgeva nemmeno che stavano imbarcando acqua.

“Andate con Dio.” fu il saluto, freddo, di Isabella: “E state bene, quando sarete a Bologna, voi che potete.”

 

“Ebbene, potevate anche dirmelo prima.” disse Luffo Numai, cercando di trattenere la voce, una mano sullo stomaco, come se quel gesto bastasse a placare l'acidità che quell'arrabbiatura gli aveva messo addosso.

“Da quando la mia corrispondenza privata è affar vostro?” incalzò Caterina, piantando i pugni sui fianchi e guardandolo in casgnesco.

“Da quando non è corrispondenza privata! Quel che scrivete a vostro cognato è anche affare dello Stato!” esclamò l'uomo, non riuscendo più a trattenersi.

Anche se la Tigre era una donna d'esperienza e, ormai, anche d'età, a tratti a Luffo sembrava di avere a che fare con una ragazzina.

“Ho solo scritto quello che avevo già scritto a Francesco Fortunati, né più né meno.” mise in chiaro la Contessa, abbassando un po' la voce per non farsi sentire da quelli che stavano arrivando dalle scale.

Trovava quanto meno inappropriato essersi fermati in mezzo a un corridoio a discutere a quel modo, ma quando Numai l'aveva provocata, non era stata in grado di trattenersi e aveva dovuto difendersi, a costo di attirare l'attenzione di qualche eventuale testimone.

Quello che aveva fatto non le pareva nulla di particolarmente grave. Appena dopo aver spedito la lettera a Fortunati, quella in cui lo pregava di far presente al Medici quanto fosse adirata per i conti alterati e modificati in favore di Firenze, non aveva resistito e ne aveva stilata una copia pressoché identica proprio per il cognato.

Luffo si era scomposto solo nel sapere di una risposta piccata da parte di Lorenzo, ma, di fatto, anche la missiva del fiorentino era solo corrispondenza privata. Non era stata la Signoria a dirsi offesa per quell'accusa, non un Gonfaloniere di Giustizia, né un Collegio di Priori, ma solo un uomo.

“Vi prego, mia signora, state solo attenta a quello che fate.” sussurrò Numai, guardandola con intensità, una mano che si allungava verso di lei, forse per posarsi su un braccio in modo da sottolineare ancora di più le sue parole: “Sapete quanto me quanto Lorenzo stia tramando per ottenere la custodia di vostro figlio. Non gettate legno nel fuoco. Non fatelo. Fate buon viso a cattivo gioco. E non inimicatevi nemmeno vostro zio Ludovico. Vi prego. Ascoltatemi, vi scongiuro.”

“Che c'entra mio zio Ludovico, adesso?” chiese in un soffio Caterina, vedendo, con la coda dell'occhio, che quelli che arrivavano dalla scale erano un paio di soldati, Giovanni da Casale e due dei suoi figli, Bernardino e Galeazzo.

Il Consigliere sollevò appena le sopracciglia e occhieggiò verso Pirovano, che sembrava essere apparso proprio al momento giusto: “Vi chiedo solo: vale la pena di scontrarsi con il Duca di Milano solo per avere un uomo a scaldarvi il letto la notte?”

La Leonessa restò tanto attonita, nel sentirsi rivolgere quella parola, da non avere la prontezza di controbattere a tono.

“Potete averne cento migliori di lui. Nessuno dei vostri soldati vi direbbe di no e lo sapete anche meglio di me.” proseguì Numai, deciso ad arrivare in fondo, fin tanto che non veniva zittito: “Ora quindi vi chiedo: è davvero così importante, per voi, da rischiare l'alleanza con Milano per lui?”

“Non vedo perché l'alleanza dovrebbe essere a rischio...” iniziò a dire la donna, mentre il gruppetto si avvicinava a loro fino a giungere a tiro d'orecchio.

“Lo so bene cosa intendete fare con quell'uomo, e prima o poi lo capirà anche il Duca. Se vostro zio vi somiglia, non accetterà l'idea che voi gli abbiate strappato un cavallo di razza che ha cresciuto e addestrato personalmente e a proprie spese. Pensateci.” concluse il Consigliere, lasciando la Sforza senza parole e allontanandosi in fretta, con un cenno del capo prima a Pirovano e poi ai figli della Tigre.

“Tutto a posto?” chiese Giovanni da Casale, un occhio ancora a Numai, ormai già abbastanza lontano.

Caterina annuì, secca e poi, con uno sbuffo domandò, di rimando: “Dove state andando?”

Il milanese lasciò che fosse Galeazzo a rispondere: “Siamo stati a vedere i lavori al Paradiso.”

A quella rivelazione, la Tigre si irrigidì e poi indagò, cercando di apparire discreta: “Chi ha proposto di andarci?”

Sia il Riario, sia Bernardino guardarono Pirovano che, un po' in imbarazzo, ammise: “Io.”

La Contessa, a quel punto deglutì e poi disse ai figli di andare ad aspettarla nella sala delle letture, che li avrebbe raggiunti a breve per parlare un momento. Congedò anche i soldati che li seguivano, ma fece segno a Giovanni di restare.

“Ti avevo detto che ti ci avrei portato io più tardi.” lo riprese, a voce bassa, ma decisa.

L'uomo si grattò la nuca, seguendola mentre lei si avvicinava alla finestra che dava sul cortile d'addestramento: “Eri impegnata... Galeazzo è al corrente quanto te dello stato dei lavori e Bernardino ha insistito per seguirci...”

“Tu non hai capito che qui comando io.” lo zittì la donna, senza ammettere altre repliche: “Se io ti dico che al cantiere si va dopo, e ci si va solo noi due, si fa così e basta. Non siamo alla pari. Io comando, tu esegui. Sia che tu ti veda come un ambasciatore di Milano, sia che ti senta già al mio soldo.”

Pirovano la guardò in tralice. L'uso dell'impersonale alla fiorentina l'aveva messo sull'attenti. Si era reso conto abbastanza in fretta, vivendo più a stretto contatto con lei, che quando dimostrava qualche contaminazione dovuta al suo matrimonio con il Medici, la situazione si stava facendo seria.

Così si appoggiò pesantemente al davanzale con i gomiti, mettendosi a guardare fuori e borbottò, appena udibile: “Non mi sembrava una cosa tanto grave.”

“La è, invece.” chiuse il discorso la Leonessa e si mise accanto a lui, cercando di calmarsi.

Forse, nella sua ottica, anche il soldato aveva ragione, ma Caterina sentiva di avere un ottimo motivo per essere così prevenuta verso qualsiasi suo slancio di intraprendenza personale.

Era successo qualcosa di analogo con Giacomo. All'inizio non aveva dato peso alle sue – sempre misere e poco impegnative – iniziative. E poi, prima che se ne rendesse conto, l'aveva scoperto a tramare alle sue spalle, a cercare di venderla al nemico, a prendere accordi sottobanco che non era nemmeno in grado di capire.

E, in un certo senso, alla Sforza pareva che pure Ottaviano Manfredi, a un certo punto, le fosse sfuggito di mano. All'inizio l'aveva seguita passo a passo, restando indipendente, ma dimostrandosi affidabile. E poi, una notte, se l'era trovato davanti con il pugnale in mano...

Mentre Pirovano e la Tigre stavano alla finestra aperta, nel cortile qualche soldato stava tirando di spada, svogliatamente, un po' per colpa del caldo e un po' perché alcuni si erano messi a chiacchierare, facendo battute volgari e ridendo come pazzi.

“Muovetevi! Fate andare quelle gambe e quelle braccia!” gridò a un certo punto il maestro d'armi, accorgendosi della presenza della Contessa alla finestra: “La nostra signora vi guarda! Non vorrete certo fare brutta figura!”

“E che ci mettiamo in mostra da fare? Tanto la Tigre ha già compagnia, per stanotte!” rise uno dei Capitani che stavano aiutando le reclute a prendere confidenza con le armi.

“Per stanotte probabilmente sì, ma per domani chi lo sa!” ribatté a tono Caterina, con un sorriso che la diceva lunga: “Avanti, fatemi vedere di che siete capaci!”

Giovanni da Casale, sentendo quello scambio di battute, si ritirò dalla finestra, e le chiese, in un sussurro, come temesse che dal cortile qualcuno potesse sentirlo: “Perché permetti ai soldati di mancarti così di rispetto?”

La Sforza, restando con gli occhi fissi al cortile, rispose, calma: “Oh, avanti... Sei un uomo d'armi anche tu, no? Lo sai... Ci si diverte anche così. Tra soldati questo genere di scambi è normale, soprattutto nei momenti di calma come adesso.”

“Ma tu non sei un soldato.” si incaponì Pirovano, gli occhi scuri che si stringevano, cercando di capire chi fosse davvero la donna che aveva davanti: “Sei una Contessa. Questa è solo... Solo soldataglia. Non c'entrano nulla, con te.”

Per quella mattina la Leonessa decise di averne avuto abbastanza. Non aveva impegni urgenti e avrebbe potuto chiedere al suo cancelliere di svolgere le questue al suo posto. Perciò, con un certo sollievo, prese repentinamente una decisione che da giorni voleva prendere.

“Si vede che, in fondo, non mi conosci...” sospirò e, lasciando la finestra, gli diede un colpetto sulla spalla e gli disse: “Esco a caccia. Stanotte non aspettarmi. Dormi nella stanza affianco.”

Pirovano sentì la bocca seccarsi. Avrebbe voluto chiederle perché e, soprattutto se lo stesse relegando alla tana solo perché si era arrabbiata o se perché avesse intenzione di passare la notte con qualcun altro.

Alla fine, però, appena prima che gli sfuggisse da sotto al naso, ebbe appena la forza di domandarle: “Quando... Quando andiamo insieme a vedere i lavori al Paradiso?”

Caterina sarebbe stata tentata di rispondergli male, di dirgli che non era più necessario andarci assieme, visto che c'era stato giusto quella mattina, ma alla fine rispose, ricacciando indietro la rabbia: “Domani. Se non avrò di meglio da fare. Ah, devi dire a Cardella che voglio che per oggi mi sostituisca alle questue.”

La Contessa non attese nemmeno di vedere la reazione del milanese e gli voltò subito le spalle, diretta, rapida come una furia, alle stalle. Fece sellare il suo stallone, andò nella sala delle armi e prese la lancia da cinghiale, arco e frecce e solo allora si ricordò di aver detto a Galeazzo e Bernardino di aspettarla nella sala delle letture.

Tornando verso la stalla, chiamò a sé il maestro d'armi e gli disse: “Andate nella sala delle letture, quando potete e dite ai miei figli che ho avuto un contrattempo.”

L'uomo annuì e, non appena la sua signora attraversò il cortile in sella al suo stallone, sotto al sole caldo di giugno, chiese ai soldati di proseguire un momento senza di lui.

Arrivato alla sala delle letture, si trovò davanti Bernardino, che aspettava in piedi, vicino al camino spento, e Galeazzo, seduto in poltrona, schiena dritta e un'espressione neutra in viso.

“Vostra madre ha avuto un impegno imprevisto e mi ha detto di avvisarvi...” fece l'uomo, restando sulla porta.

Il Riario ebbe un breve moto di delusione, ma incassò abbastanza bene, arrivando anche a ringraziarlo.

Il più piccolo, invece, sentite quelle parole distolse lo sguardo, accigliandosi e poi, prima che il maestro d'armi riuscisse a trattenerlo, si mise a correre, scappando via.

“Perdonatemi...” fece Galeazzo, alzandosi di scatto e filando dietro al fratello minore.

Lo raggiunse quando ormai era già sulle scale e riuscì a farlo fermare per puro caso senza farlo ruzzolare giù dai gradini. Lo aveva agguantato per una manica e, così, tenendolo soldamente, lo indusse a calmarsi.

“Che c'è?” gli chiese, le iridi di un verde pieno e semplice che cercavano quelle del fratello che, crescendo avevano assunto una sfumatura tanto particolare da ricordare in modo impressionante quelli della loro madre.

“Hai sentito, no?” fece il bambino, tirando su col naso: “Un impegno improvviso! Come se fosse vero... C'è sempre qualcosa di più importante, per lei. Noi arriviamo sempre dopo. Sempre.”

Il Riario avvertì una stretta al cuore nel sentire il fratello parlare a quel modo. Non solo perchè nel profondo della sua anima a volte si trovava a dargli ragione, ma perché ricordava bene, benché fosse ancora un bambino, che parole molto simili, anni addietro, erano uscite dalle labbra di Ottaviano.

“Nostra madre deve badare a uno Stato.” disse, senza mollare mai la presa sul piccolo Feo, per evitargli una comoda fuga: “Non è una cosa facile. A me lascia fare solo pochissime cose, eppure già mi rendo conto di quanto possa essere pesante sentirsi tutto quanto sulle proprie spalle. Non devi biasimarla, se a volte non ha tempo per noi.”

“Non ha mai tempo per noi.” lo contraddisse Bernardino.

Galeazzo non si sentiva bravo, con quei discorsi, ma tentò un'ultima arringa: “Potrebbe scoppiare una guerra a breve. Ha bisogno di pensare e di ragionare... Noi possiamo solo cercare di non disturbarla e di aiutarla, quando ne siamo in grado.”

Bernardino si asciugò il naso con il dorso della mano. Era così arrabbiato che avrebbe voluto piangere, gridare e fare a botte. Ecco perché aveva cercato di lasciare la rocca: a quell'ora avrebbe di certo trovato in giro per la città i suoi amici dei bassifondi e loro non si tiravano mai indietro, quando dava inizio a una rissa.

“Se non ci voleva, non doveva farci nascere.” concluse il Feo, le lacrime che questa volta non si nascosero più, arrivando a rigargli le guance arrossate.

Il Riario si trovò in seria difficoltà. Non era il genere di argomenti di cui voleva parlare. Era molto più facile, per lui, occuparsi di armi e soldati che di sentimenti. Deglutì un paio di volte, indeciso su cosa dire d'altro e poi, come se avesse trovato la panacea di ogni male, propose al fratellino di andare assieme nelle cucine, a cercare Bianca, per farsi dare qualche pezzo di spongata avanzata dalla sera prima.

Però, non appena lasciò la presa, liberando Bernardino, questi corse via, facendo una smorfia e gridando: “Tanto anche Bianca mi odia!”

Rimasto solo, Galeazzo restò qualche minuto ancora sulle scale e poi, ricomponendosi, si lisciò il giubbone e andò nel cortile d'addestramento, mescolandosi ai soldati e sfogando la sua frustrazione a suon di fendenti e parate.

 

L'assedio di Cascina era durato per ventisei ore. I cannoni e le urla dei soldati non avevano dato tregua ai nemici nemmeno durante la notte.

Ranuccio da Marciano e Paolo Vitelli non si erano fermati un attimo, gridando ordini, guidando personalmente gli assalti e coordinando ogni attacco di artiglieria e di fanteria.

I primi ad arrendersi, sotto al sole cocente di quel 26 giugno furono i fanti stranieri accorsi a difendere la città e solo in un secondo momento anche gli abitanti di Cascina, i Commissari Cittadini e il castellano della rocca deposero le armi.

La città era in ginocchio e l'esercito di Firenze, per quanto vittorioso, era allo stremo, dopo oltre un giorno intero di battaglia.

“Loro – ordinò Vitelli, in sella al suo miglior cavallo da guerra, il viso ancora sporco di sangue e polvere, indicando i Commissari e il castellano – verranno portati a Firenze in catene. Subito.”

Quelli che lo seguivano annuirono e si misero subito all'opera per legare tutti i prigionieri e mettersi all'istante in marcia.

“E di questi cosa ne facciamo?” domandò Ranuccio, presentandosi dal comandante con due uomini legati per i polsi.

Vitelli strinse le palpebre contro il sole, non riconoscendo in un primo tempo due dei suoi più acerrimi nemici. Quando comprese di essere davanti a due prede di rango, smontò da cavallo e, impietoso, con un colpo di piatto della spada dietro alle cosce fece cadere entrambi in ginocchio.

Cristoforo Albanese e Rinieri della Sassetta tenevano il capo chino, entrambi coi capelli arruffati e impastati e le spalle scosse da un tremito che poteva tradire paura come vergogna.

“Traditori.” li apostrofò Paolo, sputando in terra.

“Ma è una cosa di tre anni fa..!” provò a dire Rinieri, che non si sentiva più un disertore.

Aveva lasciato il campo fiorentino di nascosto, nel 1496, ma ormai era al soldo veneziano da così tanto che non gli pareva di aver fatto nulla di diverso da quello che avrebbe fatto qualsiasi condottiero scontento della propria paga.

“Non si deve aver pietà, dei traditori.” rimarcò Vitelli, facendo un cenno al suo attendente.

Albanese strinse gli occhi, temendo di sentirsi recidere la testa dal collo da un momento all'altro, mentre il suo compare crollò con il viso al suolo, scoppiando in lacrime.

“Scriverò a Firenze per sapere che farne di voi.” fece a voce bassa Paolo, fermando il suo soldato con un cenno della mano: “Ma sappiate che per me non siete più uomini.”

 

Per decidersi ad andare al cantiere del Paradiso con Giovanni da Casale, Caterina non ci aveva messo un giorno, come previsto, ma quasi tre.

Dopo la notte passata alla Casina, da sola, aveva cercato di appianare un po' le loro divergenze, finendo per placare la rabbia nello stesso modo in cui lo faceva con Giacomo. Non contava troppo sulla stabilità di un legame basato quasi solo sull'attrazione fisica, ma per il momento non sapeva fare di meglio.

In fondo, si diceva, tra tutti gli amanti che aveva avuto, aveva cercato come sostegno in quei difficili momenti proprio Pirovano e l'aveva fatto solo perché era giovane e bello, non certo per farci conversazione.

Anche con i suoi figli non aveva cercato un punto di contatto che andasse oltre qualche contentino e un paio di sessioni di allenamento sotto la sua supervisione. In quel periodo non riusciva in nessun modo a gestire il suo ruolo di madre e, se anche l'avesse voluto, forse le sarebbe risultato impossibile, vista la quantità di ore che passava a occuparsi dell'esercito, della diplomazia e, non si vergognava a pensarlo, del suo amante.

Se non si teneva per sé almeno la notte, anche a costo di dormire poco, sarebbe impazzita e a Forlì e Imola non serviva una Contessa pazza.

Il sole del mezzogiorno era alto sui lavori alla cittadella che, finalmente, era ben delineata e riconoscibile. Il vecchio Paradiso era ancora al suo posto, chiuso e negletto, ma anche quando i costruttori avevano insistito per raderlo al suolo e sfruttare anche quel punto per la fortificazione, la Tigre si era opposta con tanta fermezza da portarli a non sollevare mai più la questione.

“Allora, che te ne pare?” chiese la Contessa, quando lei e Giovanni ebbero portato a termine il loro approfondito giro di ricognizione.

“Mi pare un gran lavoro.” disse l'uomo, gli occhi scuri puntati sulle parti già ultimate della cittadella: “Può essere molto utile, ma solo nelle mani giuste.”

“Ovvero?” chiese la Leonessa, curiosa di vedere se l'idea del soldato combaciava con la propria.

“Ovvero nelle mani di qualcuno disposto a difenderla fino alla morte. Se resisterà fino all'ultimo fiato, sarà utile alla rocca, altrimenti sarà stata solo uno spreco di soldi e tempo.” fece Pirovano, alzando un po' le spalle.

“Sì.” convenne Caterina: “Ecco perché ho pensato di affidarla a te.”

“A me?” la voce del condottiero si era fatta sottile, quasi incredula.

“Sì. Mi fido di te.” disse piano la donna: “In altri tempo l'avrei chiesto a...”

La sua mente era andata in automatico a Tommaso Feo, l'unico uomo a suo parere in grado di esserle davvero d'aiuto in una situazione difficile come quella.

“Ma non importa – riprese, senza rivelare il suo pensiero – adesso è di te che voglio fidarmi.”

“L'avresti chiesto a Manfredi, se fosse stato ancora vivo.” fece Giovanni, travisando del tutto la reticenza della sua amante.

Quella stoccata irritò molto la Contessa, che, con voce rigida, ribatté: “No. A Manfredi non avrei mai affidato un ruolo del genere, perché sarebbe stato uno spreco. Però tu sei un uomo fedele e capace e so che non mi lascerai nei guai. Hai detto tu stesso che vuoi morire combattendo per me, no?”

Gliel'aveva ribadito anche quella notte, mentre lei lo stringeva al suo seno, nel calore della sua stanza che, lasciata la finestra aperta, profumava d'estate. Lui le aveva giurato il suo amore, le aveva ribadito tutta la sua abnegazione e le aveva giurato che sarebbe morto al suo fianco, la spada in mano e le urla dei nemici morenti nelle orecchie.

“O era solo una promessa fatta a un'amante, una di quelle che si fanno tanto per far contenta la donna che ti ha appena lasciato libero di infilarti nel suo letto?” chiese Caterina, sollevando un sopracciglio e restando in attesa.

“Terrò la cittadella, se è questo che vuoi.” accettò il milanese, un po' restio: “Ma prima immagino che dovrai far portare a termine i lavori.”

“Sì.” annuì la donna, con un sospiro: “E comunque non ti costringerò a stare alla cittadella prima che scoppi la guerra. Appena il papa mi scaglierà contro suo figlio, però, ti voglio su quei camminamenti a puntare i cannoni contro quel maledetto Borja.”

Pirovano seguì la direzione indicata dal dito della Tigre e per un istante anche lui si vide su quei camminamenti a gridare ordini e difendere l'ultimo baluardo di Forlì.

“Sarà una fine grandiosa.” sussurrò, come se potesse scorgere il proprio futuro nella polvere sollevata dagli operai.

“Nessuna fine è grandiosa.” lo corresse la Contessa, facendogli segno di seguirla, per tornare verso la rocca: “Ma almeno possiamo cercare di renderla meno penosa restando a testa alta fino all'ultimo.”

 

 
 
   
 
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