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Autore: Adeia Di Elferas    28/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La lettera appena arrivata alla rocca aveva avuto sulla Tigre un effetto immediato. Così come l'aveva letta, si era chiusa in un mutismo sordo a qualsiasi tipo di domanda e, senza dare spiegazioni né al castellano, né a Giovanni da Casale, che era al suo fianco quando la missiva le era stata consegnata, si era ritirata in camera per riflettere.

Si era convinta che Firenze non si sarebbe mostrata così poco interessata a lei. Anche se si era permessa di lamentarsi delle incongruenze notate nei conti, non si sarebbe mai attesa un simile rifiuto riguardo la riconferma della condotta per Ottaviano.

Sapeva benissimo che suo figlio non era certo un soldato prezioso, ma il fatto che fosse un cittadino di Firenze, secondo lei, avrebbe dovuto fare la differenza.

Seduta alla scrivania, si prese un momento la testa tra le mani, il cervello che lavorava a gran velocità, cercando un modo efficace per girare la questione a suo favore.

Sapeva che i focolai di ribellione a Pisa ancora non erano spenti, ma sembrava ovvio che anche in quel caso Ottaviano servisse poco alla causa fiorentina. In più, e non doveva scordarselo, la Signoria le doveva ancora saldare la condotta scaduta. Anche se suo figlio non aveva fatto molto, aveva comunque dovuto sostenere delle spese per mantenere l'esercito e Boschetti era ancora al campo fiorentino, pronto a prendere ordini, senza però ricevere un soldo da secoli.

La tentazione di scrivere direttamente a Lorenzo era forte, ma sapeva che non era il momento di agire d'impulso. Ormai si era in estate, il caldo quasi improvviso e torrido che aveva stretto nella sua morsa le sue terre lasciava poco a sperare per i raccolti e la metteva in allarme per le epidemie che sarebbero potute scoppiare da un momento all'altro. Sapeva che i francesi si stavano organizzando e secondo gli informatori dell'Oliva Luigi XII stava già facendo muovere i suoi, guidati da Gian Giacomo da Trivulzio per dare il primo assalto al confine milanese.

Firenze non le era mai servita tanto come in quel momento. L'eredità di Giovanni non le era mai servita tanto come in quel momento. Entrambi questi bisogni sarebbero rimasti del tutto insoddisfatti, se avesse calcato la mano tanto da rompere definitivamente una via di comunicazione con Lorenzo.

Però non poteva nemmeno tacere. Le servivano soldi e presto le sarebbero serviti anche alleati potenti che le coprissero le spalle. La Signoria doveva concederle almeno i rimborsi per le spese e una mano tesa, se non per lei, almeno per i suoi figli.

Non gliene importava nulla, se in quei giorni Fortunati – come le aveva fatto presente nella sua lettera – era impegnato a preservare ciò che restava di Cascina, facendo pesare il suo ruolo di piovano. Non poteva dimenticare che lui c'era, il giorno in cui Ottaviano Manfredi era stato ucciso, e non poteva parimenti dimenticare come ne fosse uscito del tutto illeso, mentre il faentino era stato trucidato. Sapeva, coscientemente, che il religioso non avrebbe potuto far nulla per salvarle l'amante, ma un velo di risentimento le era rimasto e pretendere da lui almeno il servigio di qualche ambasciata le pareva tutt'altro che un prezzo alto, per il suo perdono.

'Havemo visto quello ne scrivite, unde volemo siate cum quella Sig.ia et cum Magn.co Laurentio, et faciate instantia che, quando il servizio nostro non siano per acceptarlo, ce vogliano almanco satisfare de quello restiamo ad havere como è conveniente et rasonevole.' scrisse, dopo una brevissima apertura, sperando che Francesco capisse quanto fosse adirata: 'Ma bene saremo contenti che voi recordate a le loro Sign.rie che il servire et la fede nostra non merita questo premio. Che noi, como è manifesto a tucto il mondo, havemo messo suso il Tavoliere la Robba, persone et Stati per farli beneficio, ancora che a questo non fossimo obbligati. 'Cosa che da nullo altro Signore né Conductiero suo è stata facta: et per tale cagione havessimo creduto, quando mai non fossimo stati al Soldo di Sue Sig.ie, haver meritato perpetua provisione da quelle. Da le quale non ce potiamo persuadere procedano queste cose, ma più presto da la malignità de qualchi malevoli.'

La Sforza si prese un momento. Sospirò, si guardò attorno e si grattò la fronte. La sua camera era illuminata dal sole forte di quel 28 giugno e il cielo terso, oltre la finestra, le ricordava come non mai quanto fosse pericoloso quel periodo dell'anno. Le guerre e l'estate erano un abbinamento che aveva imparato a conoscere fin da bambina.

Anche se riteneva improbabile vedersi arrivare il figlio del papa sotto le porte cittadine prima dell'autunno, era certa che al nord si sarebbe cominciato a combattere presto, molto presto.

Quando i suoi occhi caddero sui libri che erano stati di Giovanni, ammonticchiati accanto alla missiva, sulla scrivania, e poi sul giaccone lasciato da Pirovano sull'inginocchiatoio la sera prima, qualcosa in lei scattò.

Quel confronto, il vedere come gli oggetti appartenuti al suo terzo marito convivessero con la presenza sempre più ingombrante di Giovanni da Casale, il rendersi conto della facilità con cui lei stessa aveva aperto le porte di quella stanza a un uomo che, in fondo, conosceva ancora molto poco, furono come una molla.

'Tuctavia la cosa è qui. Noi provideremo per altro verso a le cose nostre, facti più accorti a la nostra spesa, et potria occurrere de li tempi che forsi non saria manco al proposito il servitio nostro di quello sia stato fin qui ad altri. Non è nostro instituto zettare li beneficii facti in ochi al alcuno, ma in questo caso la passione ne fa parlare liberamente.'

Intingendo la punta della penna nell'inchiostro, la Tigre fu tentata di smorzare la cosa, ma non si trattenne, confidando nelle capacità di Fortunati che avrebbe dovuto mitigare e tradurre nella lingua dei diplomatici la sua sfuriata: 'Voi potete rendere amplissimo testimonio de la fede et innata dispositione nostra verso quella Excelsa Signoria de la quale non siamo mai per mancare et similmente de le opere nostre promptissime in li travagli passati. Però extenderitive in farli intendere il tucto cum quello modo ve parerà più expediente, aciò cognoscano loro Signorie che noi ce ne resentiamo, secondo che ne la fede, prudentia et virtù vostra ci confidiamo. Et così ve stringemo a fare omnimamente. Valete.'

Firmò, rischiando, per quando stava premendo sul foglio, di lasciare anche una macchia.

Rilesse un paio di volte, chiedendosi se fosse stata abbastanza chiara e poi, sigillando il tutto, uscì di nuovo dalla sua stanza, diretta verso lo studiolo del castellano.

Mentre era ancora in corridoio, sentì la voce della sorella chiamarla e, non avendo la prontezza di sfuggirle, le chiese: “Che c'è? Parla in fretta, che ho da fare.”

“C'è che ho bisogno di soldi e che hai promesso di scrivere a nostro zio, ma non mi risulta che tu l'abbia fatto.” fece Chiara, vergognandosi come una ladra per come parlava, ma continuando con fermezza: “Mio marito adesso è a Roma e se non avremo modo di avere i soldi per vivere e per dar da mangiare ai nostri figli, lui accetterà una condotta dal papa.”

Quella notizia raggelò la Leonessa, che, fermandosi un attimo, scrutò con attenzione il viso della sorella.

“E mi ha fatto sapere che in questi giorni anche Bartolomeo d'Alviano è a Roma e sta convincendo il papa ad appoggiarlo in Umbria, e in cambio lui combatterà al fianco del Borja.” continuò Chiara, provando una sorta di crudele orgoglio nello scorgere negli occhi verdi della Tigre un lampo di panico: “Come vedi, non sono fuori dal mondo come credi, anzi, ne so anche più di te, a volte.”

Caterina deglutì. Conosceva bene le qualità dell'Alviano. Ricordava anche la stima che Virginio Orsini nutriva per quel suo giovane e intraprendente cognato. Se il papa stava arruolando condottieri del suo calibro, significava che non voleva solo vincere la guerra, ma non dare proprio alcuno scampo ai suoi nemici.

“E tuo marito che può offrire al papa?” chiese la Contessa, cauta, cercando di non tradire troppo la sua ansia, ma riuscendo solo in parte a controllare la voce.

“I Fregoso sono ancora importanti nel genovese. Il re di Francia ha bisogno uomini, armi e danaro, ma anche passaggi facili e vie di fuga sicure. Mio marito e io possiamo offrire le nostre conoscenze.”

“Passate al mio soldo, allora.” propose, istintivamente, la maggiore, più nella speranza di strappare un valido appoggio a Rodrigo Borja che non per il desiderio di tirarsi in casa anche Fregosino Fregoso.

“Tu non puoi darci nemmeno i soldi per mantenerci. Il papa può offrirci una condotta di tutto rispetto.” le fece notare Chiara.

“Ma siamo sorelle...” provò a dire Caterina.

“Scrivi a nostro zio.” concluse l'altra Sforza: “Quando avremo la sua risposta, saprò cosa dire a mio marito.”

Il tono, quasi minaccioso, colpì la Tigre come una pugnalata. D'un tratto, non riconosceva più la sorella che, malgrado tutto, aveva creduto di poter ritenere un'amica sincera.

Stava per ribattere, senonché proprio in quel momento Cesare Feo stava attraversando il corridoio e, vendendola con una lettera in mano, le chiese: “Devo farla spedire?”

La donna, distogliendo l'attenzione da Chiara – che se ne andò all'istante – annuì e precisò: “Che parta subito. Diretta a Francesco Fortunati.”

“Si tratta della replica alla sua ultima?” si informò il castellano.

La Leonessa, lo sguardo che si perdeva verso la figura della sorella, che si stava allontanando sempre di più, fece segno di sì, distrattamente e poi, come se Cesare avesse qualche colpa per il nervosismo che la stava divorando, gli lanciò una stoccata gratuita, esclamando: “Ci fosse una volta che capite senza bisogno di domandare..!”

Il castellano si morse la lingua per non rispondere male a quell'ingiusto rimprovero, e Caterina, per sfogarsi, decise di andare nel cortile assieme ai soldati, a tirare di spada e muoversi un po'. Doveva ragionare e cercare di capire meglio come procedere.

Mentre volteggiava in aria la sua arma, scansando attacchi e calando fendenti, riuscì a vedere più distintamente la sua situazione e comprese l'importanza della calma. Se avesse voluto vincere quella guerra, sarebbe stata semplicemente una folle. Ma resistere il più possibile e basta, mettendo al sicuro quelli a cui teneva, poteva essere ancora un traguardo raggiungibile.

Tanto per cominciare, quella notte, quando si trovò stretta al petto di Giovanni da Casale, invece di stare in silenzio, come faceva quasi sempre, gli raccontò quello che gli aveva detto Chiara e gli disse, perentoria: “Devi convincere mio zio a darle quello che vuole.”

“Ma se suo marito è a Roma...” provò a opporsi Pirovano, stanco per la lunga giornata e desideroso di addormentarsi per qualche ora: “Insomma, se sta già trattando con il Borja, non tornerà indietro.”

“Lo so.” ammise la donna con un respiro fondo, annusando l'aria di quella notte estiva che si mescolava con il sentore rassicurante dell'uomo che teneva stretto a sé: “Ma è mia sorella e ho deciso così.”

 

Paolo Vitelli chiuse la lettera arrivata direttamente dalla Signoria e la lanciò in terra, con sprezzo.

Aveva già mandato a Firenze gran parte dei prigionieri, tenendo al campo solo Rinieri della Sassetta e Cristoforo Albanese, ma l'aveva fatto credendo che gli sarebbe stato ordinato di usarli per qualche scambio con Pisa.

“Nemmeno fossi un macellaio...” borbottò tra sé, lasciando in terra il messaggio e uscendo dal suo padiglione.

Si sentiva preso in giro, si sentiva trattato come un boia, come un aguzzino senza valore. Gli era stato ordinato di giustiziarli, senza far fracasso, senza dare spettacolo. Non si erano nemmeno presi la briga di spiegargli il motivo ufficiale, né chiedergli di condurre un interrogatorio o un processo.

Ucciderli in battaglia sarebbe stata una cosa, ma prenderli di peso e sgozzarli come maiali solo perché a Firenze qualcuno – probabilmente Lorenzo Medici – aveva deciso così, per Paolo era troppo.

Guardò un momento il sole allo zenit e si asciugò una goccia di sudore che gli rigava la fronte. Si era ormai a fine giugno e il caldo era quello dell'estate piena. I suoi uomini cominciavano a farsi insofferenti e Vitelli sapeva quanto fosse necessario muoversi.

Si doveva dare l'assedio a Pisa e lo si doveva fare presto. Bisognava sfruttare la disfatta di Cascina per dare il colpo di grazia al nemico. Prima, però, c'era da sistemare la questione di Rinieri e di Albanese.

Con passo cadenzato, attirandosi gli sguardi un po' interrogativi dei suoi soldati, mentre raggiungeva lentamente il punto del campo in cui era stata allestita la gabbia per i prigionieri importanti, Paolo capì cosa avrebbe fatto.

Chiamò a sé uno degli scudieri e gli ordinò di preparare due cavalli: “Non di quelli veloci. Prendine due di quelli messi peggio. Che possano fare un po' di strada, ma che non siano di razza.”

Il giovane si allontanò per cercare quel che gli era stato chiesto e così il comandante andò dai due ostaggi. Li guardò a lungo e loro fissarono lui. Erano seduti in un angolo della gabbia, l'unico punto un po' riparato dal sole cocente, grazie a un gioco di ombre delle tende vicine.

“Alzatevi.” ordinò Vitelli, con un cenno del capo.

Albanese e Rinieri si scambiarono un'occhiata e poi, malfermi sulle gambe, si misero in piedi. I loro occhi tradivano l'inquietudine tipica di chi si sente vicino alla morte, e Paolo lasciò che si convincessero che la loro fine era prossima.

Quando sentì gli zoccoli dei cavalli arrivargli alle spalle, però, non finse più e disse, in fretta, quasi temendo di arrivare a cambiare idea: “Siete liberi. Tornatevene a Pisa o dove accidenti vi pare.”

Cristoforo ebbe un mezzo mancamento, tanto che dovette aggrapparsi alle sbarre per non crollare in terra. Era così sollevato da credere di aver sentito male e di aver travisato tutto quanto.

Rinieri della Sassetta, invece, era rimasto saldo sulle gambe, ma non mollava il profilo altero e imperscrutabile di Vitelli nemmeno per sbaglio.

“Perché lo fate?” gli chiese, mentre il comandante in persona apriva la gabbia.

“Perché non sono un boia.” fu la lapidaria risposta del tifernate che, dopo aver indicato loro i cavalli, girò sui tacchi e tornò verso il proprio padiglione, il capo chino e un peso in più sulle spalle, ben sapendo quanto poco la Signoria avrebbe apprezzato quel suo slancio di orgoglio.

 

“Era ora che finalmente il nostro caro Giovanni da Casale ci facesse vedere di cosa è capace...” la voce di Simone Ridolfi sorprese Caterina, che, impegnata a osservare quel che aveva davanti, non si era accorta del suo arrivo.

“Che ci fate qui al Quartiere Militare?” gli chiese, tornando subito a concentrarsi su Pirovano che, coadiuvato dal Capitano Rossetti e da Michele Marulli, stava dando prova della sua abilità in sella.

Tutti sapevano quanto si fosse distinto a Milano, nel corso dell'ultimo torneo a cui aveva preso parte e così, un po' per accontentare i curiosi e un po' per motivare i soldati a fare del loro meglio, la Sforza aveva chiesto al suo amante di dare sfoggio del suo talento.

Mentre il cavallo da guerra del milanese guizzava come senza peso tra i due rivali, catturando l'attenzione di tutti e strappando a Galeazzo un'esclamazione di ammirazione profonda, il Governatore di Forlì si sedette accanto alla Tigre, sugli spalti.

Era una piccola platea di legno che veniva sfruttata soprattutto in occasioni come quelle o quando il Primo Capitano delle Guardie doveva fare lezione teorica alle reclute più inesperte.

Oltre alla Contessa erano presenti Galeazzo, che quasi non fiatava per l'emozione di vedere un simile guerriero all'opera, e Bianca, che teneva in braccio Giovanni.

A Simone non pareva appropriato che il bambino, che aveva poco più di un anno, fosse lì, ma non era arrivato al Quartiere Militare per fare gli interessi del figlio del suo defunto cugino.

“Ho appena incontrato i rappresentanti dei contadini – spiegò Ridolfi, quasi sussurrando nell'orecchio della sua signora – e ho pensato di venire qui a distendere un momento i nervi.”

Dopo un attimo di silenzio, gli occhi sempre rivolti a Giovanni da Casale, che dava prova della sua padronanza del caracollo, Caterina soffiò di rimando: “È andata così male?”

Simone si schiarì la voce e, grattandosi il barbone rossiccio cercò di minimizzare: “È andata come mi aspettavo che andasse. I campi sono senza contadini e non piove da troppo tempo. Se non troviamo il modo o di riportare gli uomini agli aratri o di comprare il frumento altrove, possiamo dichiarare la resa ancora prima di cominciare a combattere.”

La Leonessa sapeva benissimo che il Governatore aveva ogni ragione, ma non sapeva come far fronte a quell'annoso problema. Confidava nel pronto arrivo di un nuovo ambasciatore da Firenze, con cui trattare anche l'acquisto di qualche centinaio di staia di grano, ma dopo la sua ultima lettera, non le era ancora stato fatto sapere nulla di nuovo.

Marulli e Pirovano si stavano adesso spalleggiando, in una figura che li vedeva opposti al Capitano Rossetti e al Capitano Bezzi. Con un boato che salì da tutti i presenti, i due corsero alla carica fin quasi all'ultimo metro, aprendosi poco prima dell'impatto, mandando a vuoto i due forlivesi. Quella manovra evasiva scatenò un pandemonio di applausi e motti di approvazione.

Anche Bianca, che pur doveva tenere fermo Giovannino, agitato dalla confusione che li circondava, riuscì a battere le mani e a dire al fratello: “Hai visto come sono bravi?”

“Milano e Firenze assieme...” fece il Governatore, con un mezzo sorriso, vedendo in Giovanni da Casale l'emblema del Ducato e nel bizantino, fiorentino d'adozione, quello della Signoria: “È quello che volevate, no?”

Caterina non rispose, prolungando il suo applauso per non dovergli dare peso. Temeva di capire dove stesse andando a parare e non aveva alcuna intenzione di sorbirsi una ramanzina da un uomo come lui.

Faceva caldo, stava sudando e avrebbe volentieri abbandonato gli spalti per andare in una locanda a rinfrescarsi con del vino, all'ombra e in silenzio. Non era nelle condizioni di litigare.

Simone, nel frattempo, aveva posato gli occhi scuri su Pirovano, perdendosi, per la prima volta, a valutarlo per quel che era. Un ottimo cavallerizzo, uno spadaccino impagabile e di una bellezza innegabile, tanto spiccata da non lasciare indifferente nessuno.

Non gli era difficile capire perché la Tigre avesse fatto di tutto, pur di riaverlo a Forlì.

“Certo che Manfredi l'avete dimenticato in fretta...” sussurrò malevolo, non riuscendo proprio a tenere a freno la lingua: “Anche più in fretta di quanto abbiate dimenticato mio cugino Giovanni.”

Galeazzo, seduto proprio accanto alla madre, aveva sentito quelle ultime parole e si era irrigidito, temendo una reazione violenta da parte della Leonessa.

Tuttavia, la donna riuscì a trattenere il veleno e ribatté, quasi sorridendo: “E vostra moglie? Vi scrive, ogni tanto, o è troppo impegnata a passare da un letto all'altro?”

Ridolfi sporse in fuori le labbra, colpito su un nervo scoperto e Galeazzo, che fino a un attimo prima era stato pronto a prendere, in caso di necessità, le parti della madre, si tranquillizzò.

“Piuttosto, tornando a fare le persone serie – riprese la Sforza, passando sopra a quell'incompatibilità caratteriale di fondo che lei e Simone avevano avuto fin dal primissimo momento – ieri ho scritto a Lorenzo.”

Il Governatore, finalmente, riuscì a staccare gli occhi da Marulli e Pirovano e guardò la Contessa.

“Gli ho scritto per avvisarlo che sto mandando al campo Stasio Prognolo, per pagare i miei soldati e per mettere al corrente Boschetti di quello che sta succedendo.” spiegò la donna, con un sospiro carico di tensione: “Non posso lasciarli senza paga, anche se non spetterebbe a me sborsare questo denaro... I soldati senza paga diventano soldati ingestibili e violenti e io non voglio per nessun motivo che si possa dire che il mio esercito fa danni. Ho dato ordine che non saccheggino, che non rubino e che non usino violenza alle donne dei paesi vicini al campo. L'unico modo, però, per evitare tutto questo, è pagarli.”

Simone annuì appena e convenne: “Avete fatto bene.”

“Sì, ma intanto ho dovuto chiedere a Leonardo Strozzi di fermare l'acquisto di una partita di cavalli da guerra perché i soldi che aveva tenuto da parte per quelle bestie li ho dovuti affidare a Prognolo per le paghe dei soldati.” rese noto la Sforza, scuotendo il capo.

“Tra poco ho l'incontro con i rappresentanti della nobiltà...” disse piano Simone: “Venite anche voi.”

“Perché?” chiese la Tigre, che trovava inutile presentarsi a una riunione sterile come quella.

“Perché se vogliamo soldi, possiamo tirarne su un po' con le tasse. E, al momento, loro sono gli unici che possano pagare di più.” rispose il Governatore con ovvietà.

Caterina guardò Giovanni da Casale che, i capelli incollati alla fronte per il sudore, continuava a cavalcare, esibendosi come a una parata, felice di ricevere applausi, e ancora preciso come fosse fresco e riposato, dopo quasi due ore di esercizio, nel colpire i bersagli con la lancia.

“Non posso aumentare le tasse.” si oppose subito lei: “Ho fondato il consenso sulla loro riduzione, non posso rischiare proprio adesso.”

“Fate come volete.” concluse Simone, alzandosi di scatto: “Ma quando non avremo nemmeno un soldo per pagare da mangiare ai vostri uomini, ricordatevi che io ci avevo provato.”

La Contessa lo lasciò andare senza aggiungere altro e, quando tornò a guardare davanti a sé, si accorse che Galeazzo la fissava. Anche Bianca, ne era certa, aveva sentito quell'ultimo scambio di battute, ma, concentrata su Giovannino, faceva finta di non interessarsene

“Non avere paura.” sussurrò Caterina, al figlio che aveva scelto come suo erede: “Il Governatore ragiona come un commerciante, io ragiono come un comandante. È più importante avere il consenso, in questi casi, che non il denaro. Il potere sta dove la gente vuole che stia.”

Il Riario ci ragionò sopra e poi, annuendo, tornò a osservare Pirovano e gli altri armigeri, anche se, alla madre non sfuggì, nei suoi occhi non brillava più l'entusiasmo di poco prima, ma campeggiava un'ombra di paura difficile da dissipare.

 

Dionigi Naldi si calò un po' la berretta sugli occhi, cercando di non attirare l'attenzione di nessuno.

Dal punto che aveva scelto poteva vedere molto bene l'ingresso della locanda e anche i suoi uomini posizionati ai lati della stalla. La boscaglia vicina gli aveva permesso di portarsi appresso più soldati di quanti gliene servissero davvero e sperava con tutto se stesso che la sua preda prendesse la strada su cui aveva piazzato la sua trappola.

Ci aveva messo parecchio, prima di stanarlo, ma ormai Galeotto Bosi era alla sua portata. Non si nascondeva nemmeno più, credendosi forse protetto dalla lontananza da Castrocaro e Val di Lamone. Lì praticamente nessuno sapeva chi fosse, ma Dionigi era stato in grado di rintracciarlo facendo le domande giuste alle persone giuste.

Stava calando la sera e l'aria aveva il profumo dei campi rimasti al sole tutto il giorno. Da terra si sollevava una calura intensa e Naldi avrebbe tanto voluto potersi togliere un po' di vestiti e, magari, farsi un tuffo nel fiumiciattoli lì vicino.

Da quando militava al soldo della Tigre, in particolare dopo aver passato un po' di tempo a Forlì, tra i suoi uomini, aveva cominciato ad apprezzare la sensazione di essere pulito. I bagni regolari a cui lei costringeva la sua truppa creavano, secondo Dionigi, una piacevole dipendenza.

Finalmente la porta della locanda si aprì. Bosi era da solo, barcollava un po'. Probabilmente si era ubriacato, come l'informatore di Naldi diceva che facesse spesso.

“Forse – aveva detto argutamente la spia – lo fa perché in fondo sa che alla fine lo prenderete e ha paura di morire.”

Dionigi lo tenne d'occhio con discrezione e, quando lo vide allontanarsi dell'osteria e imboccare a piedi una strada opposta a quella sperata, maledisse la sorte, ma lo seguì comunque. Anche i suoi uomini che erano in attesa lì vicino fecero altrettanto e, quando finalmente furono in un punto solitario, buio e tranquillo, l'uomo della Sforza decise di agire.

“Siete voi Galeotto Bosi?” chiese, a voce moderatamente alta, cercando di apparire calmo.

Sentendosi chiamare con il proprio nome, Bosi si accigliò. Aveva bevuto tanto e, quando si voltò, vide l'uomo che l'aveva apostrofato in modo sfuocato.

“Sono io...” ammise, senza ragionare.

Naldi, che ormai gli era molto vicino, estrasse con rapidità il pugnale da sotto il mantello di stoffa scura e, piantandoglielo nell'inguine, facendolo piegare su se stesso con un gemito strozzato, gli sussurrò: “Ringrazia Dio che io non ti lasci alla Tigre...”

 
 
   
 
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