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Autore: queenjane    02/03/2019    1 recensioni
Catherine Raulov cresce alla corte di Nicola II, ultimo zar di tutte le Russie, sua prediletta amica è Olga Nicolaevna Romanov, figlia dello zar. Nel 1904 giunge il tanto atteso erede al trono, Aleksej, durante la sanguinosa guerra che coinvolge la Russia contro il Giappone la sua nascita è un raggio di sole, una speranza. Dal primo capitolo " A sei settimane, cominciò a sanguinargli l’ombelico, il flusso continuò per ore e il sangue non coagulava.
Era la sua prima emorragia.
Era emofiliaco.
Il giorno avanti mi aveva sorriso per la prima volta."
Un tempo all'indietro, dolce amaro, uno spaccato dell'infanzia di Aleksej, con le sue sorelle.
Collegato alle storie "The Phoenix" e "I due Principi".
Preciso che le relazioni tra Catherine e lo zar e la famiglia Romanov sono una mia invenzione, uno strepitoso " what if".
Al primo capitolo splendida fan art di Cecile Balandier di Catherine.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Periodo Zarista, Guerre mondiali
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- Questa storia fa parte della serie 'The Dragon, the Phoenix and the Rose'
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Settembre 1915, Mogilev, Quartiere Generale.
Mi chiamarono lupo, tempesta, ero lodata come una segreta punta di diamante della polizia segreta, un soldato militante.
Per altri Cassiopeia era un lupo bastardo, un ermafrodito, una puttana, le voci così esagerate da parere irreali e quindi senza fondamento.“Che il diavolo ti porti, ragazzina. “La voce di mio zio era grave “Pensavo che dopo poco ti scocciassi, ti impaurissi e che volessi tornare strisciando da tua madre e invece.. NO. E nulla ti è mancato“
“Avete sbagliato tiro. Sono stata utile, malgrado tutto, e nel giro di una settimana ho catturato chi mi sorvegliava, ammetterete che non ero una fessa”
“Già, purtroppo. O per fortuna. Almeno non hai l’arroganza di considerarti indispensabile.” L’ironia inalienabile di mio zio, che aveva fatto la solita scommessa vincente, nel caso in esame sulla sottoscritta.
“ Per adesso, no. Posso congedarmi? Ho ..”la stanchezza mi era piovuta addosso, come una cappa malinconica, quanto tempo era che non riposavo senza il sottofondo di rumori molesti o il suono dell’artiglieria, la tensione nei muscoli e negli arti contratti? Già il non ricordarmene era una risposta adeguata, come il mancare di osservare bene mio zio ed i dettagli della sua stanza, la mia ironia era stata fuggitiva.
“Meriti una pausa. Domani incontrerai lo zar. Lui voleva trovarti già oggi, è qui con il suo erede, il ragazzino si considera un soldato, veste l’uniforme e mangia pane nero come le truppe, non che mangi molto, a dire la verità ma è davvero bravo, anche se ciarla senza sosta, una volta superata la timidezza. Sei spiritata, magra, con due occhiaie da paura, gli faresti impressione, domani gli farai meno spavento, o lo spero, qualche ora di riposo non ti farà male“ Sorrisi ascoltando quella descrizione di Alessio, evitai di offendermi sul paragone ad uno spaventapasseri, in quel periodo ero snella fino all’eccesso, a voler essere gentili.
Tacque per un momento, soppesando se dirmelo o meno, poi decise per la verità
“ Quando l’imperatore ha saputo l’identità di quella tale persona, chi era Cassiopeia, stava per picchiarmi…”Lo zar che perdeva le staffe?Una novità inopinata, il suo autocontrollo, l’educazione erano leggendari, mai reagiva, se, ipotesi, voleva destituire un ministro, lo riempiva di gentilezze e poi gli mandava l’ordine scritto, odiava i conflitti, le urla ” E non vi era modo per farti tornare indietro. Le tue operazioni andate a buon fine hanno acceso la sua curiosità,  ignorava chi fosse quella spia, il nome vero. Ha chiesto, in segreto, ho dovuto dirglielo.. Conta il quadro generale, non il singolo individuo, lo sai” Eccome se lo sapevo.

Cassiopeia era il mio nome da agente
 Mi chiamavano lupo e puttana, tempesta la definizione più gentile.
Era la guerra, l’oblio. Ero come Achille, il terrore dei nemici, chi osava sussurrare quel nome? Se pensavo che un tempo, discutendo con Olga, osservavo di amare il saggio re Ulisse, la situazione attuale aveva dell’ironia senza misura,Dio si divertiva a giocare a dadi.
“ Cosa gliene importa, scusate, allo zar, di  me?”esalai alla fine.
“ Più di quanto credi, ragazzina. Sei una amazzone per davvero, e sul serio”Enigmatico.
Scrollai le spalle e uscii nella  sera settembrina, sulla soglia mi girai di scatto, il tramonto mi rivestiva di zaffiro e indaco, piccoli toni di rosso e ciliegia, un crepuscolo amaro, gli dei della guerra erano davvero lontani.“Non chiamatemi più ragazzina, non lo merito.” Ero magra e sottile, i corti capelli da ragazzo, con stivali e pantaloni potevo passare, come in effetti passavo per un maschio, la giacca ben stretta e le bende allacciate sullo sterno, nascondeva lo scarno petto, con un cappello calato sul viso mi mimetizzavo bene. E nessuno si sarebbe aspettato di trovare la discendente di Felipe de Moguer vestita in quella guisa, tutti la pensavano infermiera volontaria nelle trincee di Francia, vedova, martire in fieri, una matta conclamata.
“Hai ragione, scusami. Il tuo alloggio è nella parte posteriore. Tranne che lo zar, nessuno potrebbe riconoscerti, solo suo figlio e il suo marinaio di guardia, i suoi precettori non sono molto svegli ” almeno lo sperava. “ E meno male che la zarina e le granduchesse non sono qui”
“Lo ha portato qui?cioè è sempre qui..” quell’inverno era stato bene, sempre, non vi era stata nessuna grave crisi, per quanto di pubblico dominio, come quella di Spala.
Fece un cenno di assenso e lo lasciai alle sue carte.
 
Cat, quando torni??
Non lo so, Alessio.
Ho solo una grande voglia di rivederti..
Il mai più non esiste.
Sono sempre viva e mi manchi, mi mancate tutti.
E per il tuo bene, spero di non vederti.
Sono tornata.
Alessio .. cosa fai?
 
Il mio nome, nella polizia segreta, era di Cassiopeia 130, come le più luminosa costellazione dell’universo in cui ballavano gli astri .. da bambina, Olga sosteneva che erano lampade accese dagli spiriti amici.
Ed io ero solo buio.
Quando mi addestravano, poche, intense settimane,  benedicevo la stanchezza fisica, ero un automa che non si concedeva il lusso delle lacrime, mio zio era il mio diretto superiore che si rendeva complice di un azzardo, di una follia di cui si era pentito, ma ormai era andata.
Non era solo la fortuna dei principianti, ero brava davvero.
Un bagno caldo, un letto morbido, un bicchiere di vino bianco, non badai ai particolari, ero tra amici, o aspiranti tali, mi fidavo .
Per quella sera non chiedevo di meglio.
Mi sdrai supina, le braccia aperte, aspettando un sonno senza stelle o sogni, come Felipe de Moguer, il mio antenato, in attesa delle battaglie.
Io sono Catherine e questa è la mia storia.
Dalla mia avevo la fortuna dei Rostov-Raulov, dei Fuentes, di Felipe, che si fece e divenne principe, ero una giocatrice d’azzardo senza carte, giocavo con la vita, senza fallo, arrogante e egocentrica come mio solito.
Le braccia vuote, quando NON mi ero sentita sola  era con Olga e Alexei, e tanto ora lei mi odiava, lui lo avevo abbandonato, alla fine del giro così era, meglio tracciare una riga e andare avanti, io non ero nulla per loro e loro nulla per me. Ed ero una bugiarda, come da prassi,per difesa,  ammettere che non contavano nulla disonorava me e loro, e tanto bisognava andare avanti, se non fossi andata via sarei ammattita del intero. E quando alla fine venne la tragedia compresero che per me erano stati tutto.

 
Era passato un anno, era il settembre 1915 ed ero a Mogilev, il quartier generale dello zar.
Il patriottismo più sfrenato aveva portato ad assaltare l’ambasciata tedesca della capitale, che mutò nome in Pietrogrado, molto più slavo,  ai concerti vennero espunti i musicisti come Bach e Beethoven, venne abolito l’albero di Natale, che era una usanza teutonica.
Idiozie.. detto da quella che odiava i tedeschi era una suprema ironia. Anzi, un sarcasmo estremo.
Poi erano cominciate le perdite, i lutti e i morti, mancavano le munizioni e i fucili, al principio del 1915 vi era tale carenza di cappotti, stivali e uniformi che i soldati erano costretti ad aspettare la caduta dei nemici per prendere le armi e  i cappotti e via dicendo.
Si parlava di corruzione e ammutinamento, di spie che ridicevano i piani, i primi a essere chiamati in causa la zarina e il suo starec innominato, ovvero Rasputin, lascivo, senza misura, spiato e che spiava. Circolavano nuovi e feroci aneddoti sulla famiglia imperiale, un ufficiale riferì di avere trovato lo zarevic in lacrime, che non sapeva per chi piangere, che se perdevano i russi singhiozzava lo zar, se subivano perdite i tedeschi frignava la zarina .. "E lo per chi devo piangete?" Alessio non avrebbe mai fatto una tale affermazione, chiariamo, tranne che rende l'idea di come era il clima.. 
Le truppe russe combattevano le forze della  Germania e dell’Austria Ungheria sul fronte orientale, perdendo perdite immani.
Il generale Denikin, ritirandosi dalla Galizia, aveva scritto che l’artiglieria pesante spazzava via intere file di soldati, che i reggimenti erano finiti a colpi di baionette, che i ranghi dei soldati diminuivano e le pietre tombali si moltiplicavano. Chi sopravviveva, era a rischio per le infezioni  e chi non riportava lesioni fisiche aveva incubi duraturi.
Tra la primavera e l’estate del 1915, vi furono un milione e quattrocentomila tra morti e feriti, 976.000 i prigionieri.
E poi il 5 agosto era caduta Varsavia. Ultimo omaggio della Grande Ritirata, il baluardo contro la presa della capitale.
A quel punto lo zar aveva deciso di assumere il comando delle truppe, recandosi al quartiere generale di Mogilev, esautorando suo cugino, il granduca Nicola, già comandante supremo delle truppe.
Un grave errore, che in caso di altre perdite, sarebbe stato associato ai disastri e peggio ancora, lontano dalla capitale, la zarina avrebbe sparso i suoi malefici effetti, coadiuvata da Rasputin.
I tedeschi erano nemici, lei era la Nemka, l’infida, la tedesca, la spia di suo cugino Guglielmo, Kaiser di Germania, nata principessa tedesca per i più era una straniera, che aveva dominato e dominava lo zar, che gli aveva dato un solo figlio maschio dopo anni, fragile e delicato,  che dicevano deforme, gobbo e ritardato.
Quella l’opinione accreditata, gli ambasciatori di Francia e Inghilterra avevano cercato di dissuadere Nicola II da quella determinazione, tutti i ministri del suo governo si erano dimessi per protesta e non era servito, che era lì.
Rasputin, nelle more, aveva combinato un altro dei suoi scandali, al ristorante Yar di Mosca, aveva importunato pesantemente un gruppo di donne, esibendo en plein air i suoi genitali, provocando una zuffa e, non contento, aveva urinato in pubblico. Alle rimostranze del gestore del locale, aveva ribattuto che era intoccabile, la vecchia (la zarina?) gli permetteva di fare tutto.  Uno scandalo più grande dei soliti, pardon, che si aggiungeva a quelli che creava con monotona regolarità, quando risiedeva nella capitale, la polizia lo spiava e lo proteggeva, annottando su dei taccuini chi entrava e usciva dal suo appartamento, la corte di adoratrici e  quanto altro, una delle favole della capitale.
Pensavo a quelle cose, il giorno dopo, le palpebre socchiuse, tra le mani una tazza smaltata di caldo caffè, godendomi il calore del sole e il profumo delle foglie, il semplice privilegio di essere sempre viva, un cavaliere con i quattro arti intatti, un proiettile da esplodere che era in carica, una ragazza che aveva rifiutato sua madre, vedova e senza figli, due volte avevo concepito e due volte avevo perso i miei bambini nel grembo, una che cercava di resistere, ero tutti ed ero nessuno. Che era alla deriva, cercava oblio e stordimento, gesti r corpi confusi, assenzio e feccia, un poco di calore per sentirmi meno sola, una principessa di gelo... Lo squallore affogato nel vino, brindisi sfrenati e la febbre della carne, il demone della lussuria..
“Principessa, che hai combinato?”
“Ho combattuto, Maestà, sono un soldato” Mi inchinai, tra le mani la tazza di caffè. Erano circa le sette di mattina, lui era giunto in anticipo, ma io ero sveglia da una ora abbondante.
Le parole fluirono automatiche, per un breve momento mi chiesi cosa facesse Olga, lei si era augurata di non vedermi mai più, io continuavo a pensarla, nessuno poteva vietarmi quell’esercizio dolente, intuivo che mi pensava ogni quasi singola ora, poteva avere detto di odiarmi e io avevo finto di crederci, volevo andarmene e solo lei mi avrebbe convinto a rimanere.. Una stratega della dissoluzione, io. Speravo che stesse bene, al meglio, pardon, considerate le circostanze, lei come le sue sorelle, scacciando il pensiero di Alessio e del mio fratellino. Che se li avessi rivisti, li avrei portati via con me, dispersi per sempre verso l’orizzonte, una fantasia, come avrei fatto con  un ragazzino di otto anni, curato un emofiliaco, per favore.. appena sapevo badare a me stessa, figuriamoci se ero in grado di gestire lo zarevic.
“Oh.. Principessa. Catherine. Figlia mia”Quelle frasi penetrarono la mia dura scorza, capivo ma non volevo capire, il segreto che aveva spartito con mia madre per tutta la vita, avevo evitato con cura una idea così assurda che poteva essere vera.
Figlia mia poteva essere un eufemismo, che lui ero lo ZAR, il piccolo Padre, detto Batiuska, padre del suo popolo, io una sua suddita, sua figlia, ero tanto brava a raccontare storie che alla fine finivo pure io per credervi.
“Chiamatemi lupo, tempesta, o meglio Cassiopeia.”
“Catherine” Mi posò le mani sulle spalle, mi ero rialzata, una stretta salda e ferma. “Sei solo Catherine, il resto..”una pausa “Catherine, alla francese, lingua che parli benissimo.. Catherine e non ti sminuisco, sei una amazzone, un tornado..”
I suoi occhi chiari alla stessa altezza dei miei, scuri come miele.
Non mi sottrassi a quella limpida occhiata, tutto scemò nel silenzio.
Rievocai il suo braccio che mi accompagnava a un ballo, il permesso di poter sposare mio marito, la stretta al suo funerale, compresi .. o cominciai a capire.
Posai una mano sulla sua schiena, mi strinse le dita.
Se il destino fosse stato diverso sarei stata Ekaterina Nicolaevana Romanova, figlia dello Zar, sorella di Olga, Tatiana, Marie e Anastasie Romanov, oltre che di Alessio Romanov.
La  sua primogenita concepita in una luminosa primavera, così lontana che pareva già una leggenda.
La figlia segreta, la bastarda dello Zar
ERO IO.
“Te lo affido”enunciò, la voce grave, i movimenti pesanti, mentre il ragazzino vibrava di gioia, aveva fatto fessi sia me che suo padre, i suoi occhi trionfavano di gioia e soddisfazione, un folletto, birichino e malizioso.
Dormiva nella stessa stanza, sempre lo seguiva passo per passo,  e non trovandolo quella mattina si era vestito piano e lo aveva tallonato, voleva fargli una sorpresa e la sorpresa l’aveva ben fatta a entrambi, lui credeva che non si sarebbe svegliato, confidando nel suo sonno immobile, di bambino e aveva altri pensieri, ritrovare ME e tanto altro (Nicola apprese che quando aveva incontri molto delicati doveva affidarlo a persone di fiducia, per non ritrovarselo ai talloni, il talento nell’evadere e spuntare all’improvviso era infinito).
Aveva seminato il suo marinaio infermiere, le guardie,tralasciamo che era davvero presto, una felice combinazione, il suo nuovo passatempo, più cresceva e meno tollerava l’essere guardato a vista, era diventato bravo come un agente della polizia segreta, un vero segugio a cercare varchi, osservare e via così, il mio degno discepolo, in un dato senso.
  Ed era presto, veramente presto.
Ed era una alba come una altra, pallide nuvole scialbavano il cielo a oriente, tipiche della fine dell’estate, indaco e grigio, pensava a tutto, tranne che non si sarebbe aspettato di trovarmi.
Vestito come un ragazzo che seguiva le truppe, nel suo lungo cappotto di cadetto, vicino al quartiere generale, era passato come un semplice soldato, la figura sottile ed elegante.
La sorpresa, reciproca, un momento immobile, poi avevo aperto le braccia e mi si era buttato addosso, lo slancio così forte da far quasi perdere l’equilibrio, eccolo che mi si era stretto contro, come una scimmia sul ramo o viceversa. Con gioia, incredula lo guardavo. 
Cat”
“Aleksej, amore, ciao”lo baciai, commossa, sussurrando, non mi pareva vero che fosse con me“ Tesoro mio, che bello, come sei diventato grande..” le ginocchia per terra, lo serravo tra le braccia, stretta con pari zelo.
Lui mi  riempiva il viso di baci, le dita contro i miei corti capelli. L’ultima volta che mi avevo visto li portavo lunghi fino alla vita,raccolti in suntuose trecce o chignon,  nel 1915 erano corti come quelli di un paggio irriverente, castano scuro, scintille mogano che si accendevano sotto i barbagli del sole, rubino e melagrana scuro.
Era cresciuto e, insieme, era rimasto il fanciullo che avevo amato, che amavo, desideroso di storie,che amava Achille.
Di profilo, ora ci somigliavamo come incisioni, mio zio lo aveva, infine, capito, ignorando volutamente il prezzo pagato da mia madre Ella. E non formulava la domanda, una coincidenza, ci poteva stare, di più no.
Io pensavo solo a me stessa e ai miei guai, mentre Ella cercava di fare il proprio e l’altrui bene, presiedeva ai comitati caritativi, educava il mio fratellino, dei suoi sogni o delle sue speranze nulla diceva, era una principessa, in attesa, costante, la sua bellezza si era tesa e raffinata, era sempre molto bella, nonostante la malinconia, ormai aveva scavallato le quarantaquattro primavere.
“ Cosa fai qui?” Ridendo. Commosso.  “Sei tornata, Catherine, Cat, sei tu.. Vero, non era un addio” già .. avevo fatto finta di non sentire quella sua domanda, ansiosa, precisa, illudendomi che era un bambino e avrebbe dimenticato, conoscevo tante lingue e tante parole, non avevo saputo mentirgli su quella questione specifica. “Ti tocco, ci sei, sei vera”
“Una sorpresa. Forse. Hai sbattuto da qualche parte?sono io … più ossa che carne, e tanto sono io, Zarevic, ti fa male qualcosa”
“NO. Catherine. Sono sicuro” prevenendo la successiva, ansiosa domanda.
“Sono qui, in segreto” Le mie labbra si aprirono in un sorriso mentre valutava gli stivali, i pantaloni e la scura giacca che indossavo.
“ E non devo dirlo”, contrattò svelto. “Desidero .. Anzi voglio che.. “
Lo zar scosse la testa, rassegnato. “Sentiamo, cosa vuoi?”
“Alessio. Aleksej Nicolaevich, Zarevic, bambino mio  .”Gli toccai le spalle, poi la fronte. “Cosa vuoi?” Una mezza idea la avevo.
“Passare la giornata con te. Con te, Catherine, Papa. Mi è mancata, la voglio, è mia” Ricordava così tanto Olga da spezzarmi il fiato, e non ero la sola, anche lo zar pensava la stessa cosa. E io volevo stare con lui”Senza marinai o precettori. Per favore, ti prego, Papa“un tono a mezza strada tra la supplica e il comando, e mi si era cacciato e stretto addosso, ricambiato con trasporto, lo stringevo ed era una liberazione dal dolore e dal buio di quelle lunghe stagioni.
“Va bene. Dalle retta, le devi obbedire in tutto, nessun capriccio, non scappare a  destra e manca, come fai di solito, o è la volta buona che ti metto in punizione, te la senti, principessa?”Un cenno con il mento, non volevo deludere lo zarevic nel breve periodo, nel lungo lo avrebbe imparato troppo presto.
“Lo sapevo, che tornavi, anche se ci hai messo tanto”Glissammo di correggere il refuso grammaticale. Mi augurai di saperlo gestire, intanto mi si era già attaccato alle gambe, per maggiore sicurezza, e sradicarlo sarebbe stato un duro affare . E io gli avevo messo le mani sulle spalle, a stento mi ero trattenuto dal prenderlo di nuovo in braccio, eravamo noi, di ritorno, attenti e fragili, finalmente lo rivedevo, un tesoro senza merito.
 Rise quando lo baciai sulle guance, gioia, stupore, meraviglia, il suo nome un incantesimo contro il male, lui ripeteva Cat e mi stringeva, districarlo sarebbe stata una inutile cattiveria. E sarei andata via, senza fallo, la felicità di quei momenti l’avrebbe riscontata alla partenza.
Per questo avrei preferito non vederlo. E intanto me lo caricai addosso, ero tornata a casa.
“Alessio, zarevic, tesoro”
“Prendimi in braccio.. forza” mi sdraiai sull’erba, stringendolo “Forza, Catherine, dai”mi mise i gomiti sul petto, ridendo da capo, enunciando che ero tanto buffa. “Il MIO DRAGONE” ricordando una mia storia, lo avvolsi tra le braccia, risi a caso, dopo.
Quel pomeriggio avrebbe segnato la prima delle nostre scriteriate imprese.
 
   
 
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