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Autore: Adeia Di Elferas    03/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Era da poco passato mezzogiorno e nel cortile d'addestramento erano rimasti pochi soldati. La maggior parte erano rientrati per mangiare qualcosa e altri avevano lasciato l'allenamento per andare a dare il cambio alle ronde sui camminamenti.

“Ma è davvero necessario lasciare costantemente così tanti uomini sulle merlature?” chiese Giovanni da Casale, mentre osservava con occhio critico altri due armigeri che andavano nella sala delle armi a riporre le corazzine e le spade spuntate.

“Voglio che Forlì abbia costantemente idea di essere protetta. Vedere uomini sempre in efficienza sembra far star più tranquilli i miei sudditi.” tagliò corto Caterina.

Si rendeva conto che il milanese avesse bisogno di prendere per bene le misure del suo modo di governare e delle sue abitudini, ma a volte le sue domande le sembravano tanto irritanti quanto superflue.

Quando era stato a Forlì in precedenze, forse sentendosi molto meno coinvolto nell'economia di Ravaldino, aveva evitato di addentrarsi troppo negli affari della Tigre. Forse era quel paragone a infastidire la Sforza. Se avesse potuto, l'avrebbe voluto tenere solo come distrazione, ma sapeva che in un momento come quello era importante avere anche il suo cervello e la sua abilità in guerra, non solo la sua prestanza come amante.

Si erano messi a osservare quella sessione di addestramento dalla finestra, per sottrarsi alla calura e al sole cocente. Da lì potevano vedere benissimo cosa facevano i soldati e commentare a tono, senza essere sentiti.

Stavano cercando di fare un punto della situazione e, convenendo con la Contessa, anche Pirovano si era trovato a dire che non avendo un esercito numeroso quanto quello nemico, era fondamentale, almeno, sfruttarlo nel modo migliore. Per far ciò, era necessario conoscere il più a fondo possibile ogni soldato, in modo da destinarlo al ruolo più adatto alle sue capacità.

“Come fanti quei due non valgono nulla...” sospirò Giovanni, indicando due ragazzi che stavano tirando di spada tra loro: “Guarda tuo figlio. È tre volte meglio di loro due messi assieme.”

Galeazzo, in effetti, a breve distanza dai due contadini che facevano gli armigeri improvvisati, sembrava un principe della guerra, per i suoi movimenti molto più fluidi e i suoi colpi parecchio più forti.

“Li metteremo ai rifornimenti.” concordò Caterina: “O, se quando ce ne sarà bisogno, a gettare pietre dalle merlature.”

Pirovano annuì e poi, sistemandosi un po', i gomiti appoggiati al davanzale, arrivò a sfiorare la spalla della donna con la sua. Era un tipo di contatto fisico che metteva Caterina un po' in difficoltà.

Anche se pure quella notte non aveva avuto problemi a dividere con lui il letto, non sentiva di avere quell'intimità necessaria per indulgere in quei gesti, così lievi e quasi sfuggenti, che invece le erano risultati del tutto normali e, anzi, appaganti, con Giovanni Medici e Giacomo Feo.

Tuttavia non si scostò, lasciando al suo amante quel piccolo spazio di confidenza e il milanese parve apprezzarlo molto.

La trovava spesso sfuggente, quando non erano nella loro stanza, e, a tratti, perfino quando si amavano la sentiva distante. Aveva rinunciato a capirla fin da subito, ma c'erano momenti, come quello, in cui avrebbe voluto sapere cosa ci fosse di preciso tra loro. Stava gettando tutto alle ortiche, per lei, non solo la fiducia del Moro, che gli aveva permesso di diventare quello che era staccandosi dalla marmaglia in mezzo alla quale era nato, ma la sua vita intera.

“Il Duca mi ha risposto...” le disse, quasi se ne fosse dimenticato: “Per tua sorella Chiara.”

“E che ha detto?” chiese subito la Tigre, stringendo le mani l'una nell'altra e tornando a guardare i soldati nel cortile, tesa.

“Che provvederà a lei. Ma solo a lei. Da quello che ho capito, si sente in debito con lei per qualcosa.” rispose Giovanni, con un sospiro.

La Leonessa capì subito quale fosse, quel fantomatico debito. Ricordava anche troppo bene il momento in cui, anni prima, Chiara le aveva rivelato di aver ucciso suo marito Pietro Dal Verme.

Era stato facile, per Caterina, ricostruire come Ludovico fosse il vero mandante di quell'omicidio e di come sua sorella, invece, si fosse lasciata comandare, come una marionetta, senza nemmeno rendersi conto di quello che stava accadendo.

“Ho capito.” disse solo, senza fare altre domande: “Fortunati mi ha assicurato che presto Firenze manderà un nuovo ambasciatore per contrattare il rinnovo della condotta di Ottaviano e per mercanteggiare su armi e grano. Ovviamente vorrebbero le mie armi in cambio del loro grano.”

Proprio nel momento in cui aveva nominato il suo primogenito, Ottaviano era apparso al limitare del cortile, con passo strascicato e begli abiti addosso, gli occhi che squadravano i soldati e il fratello Galeazzo. Li osservava quasi non capisse come mai si stessero dando tanto da fare.

Cercò un punto ombreggiato e, appoggiando la schiena al muro, il giovane Riario incrociò le braccia sul petto e, il volto in parte nascosto dai capelli inanellati, rimase lì a guardare.

“Sai già come convincere Firenze a volere Ottaviano?” chiese Pirovano, seguendo con la coda dell'occhio una bell'azione di Galeazzo.

“Certo. Farò credere loro che Milano mi ha offerto una cifra molto più alta, ma che io vorrei comunque scegliere Firenze, per una questione di... Fedeltà.” concluse, sfiorandosi incosciamente il nodo nuziale all'anulare sinistro.

“Ma Milano non ti ha proposto nulla.” disse piano l'uomo, distogliendo l'attenzione dal cortile e mettendosi a fissarla.

Il profilo della donna che amava, così illuminato dal sole di luglio, in quel momento gli pareva quanto di più leonino e ferale esistesse. I suoi occhi, di un verde imparagonabile, erano distanti, presenti a quel che succedeva, ma irrimediabilmente freddi. Le sue labbra piene descrivevano una linea severa e rigida. Il suo naso vibrava appena, annusando l'aria estiva e l'odore della polvere che si sollevava ogni qual volta che uno dei suoi soldati muoveva un passo. I suoi capelli, bianchi e sciolti, si muovevano appena nell'aria calda che entrava dalla finestra aperta.

Se non fosse stato certo che Caterina era umana, molto umana, terrena come poche altre donne, avrebbe potuto giurare che fosse qualcosa di mitologico. Gli ricordava come non mai le belve che si incontravano nei boschi, quelle che puntavano una preda e non la lasciavano fino a dissetarsi con il suo sangue.

“Sì, è vero, Milano non mi ha promesso proprio nulla.” confermò lei, con un brevissimo cenno del capo: “Ma Firenze questo non lo sa.”

Solo in quel momento Pirovano seguì lo sguardo della sua amante e si rese conto del perché fosse diventato così di ghiaccio: stava puntando Ottaviano.

Giovanni non aveva mai avuto il coraggio di chiederle di preciso cosa fosse successo tra loro, alla morte di Giacomo, ma non gli era certo sfuggito l'astio che li corrodeva ogni qual volta si incontravano nei corridoi spogli di Ravaldino.

“Pensa che mio figlio è stato chiuso in una stanza di questa rocca per quasi un anno.” cominciò a dire lei, la durezza impressa nei tratti del suo viso che si allentava appena: “Non poteva vedere nessuno e il cibo gli veniva consegnato in modo saltuario. Non è morto solo perché è troppo spaventato dalla morte, come lo era suo padre. Avesse avuto un minimo di dignità, si sarebbe fatto trovare impiccato a una trave, o con i polsi tagliati.”

Nel sentire il tono colmo d'ira far tremare il filo di voce che usciva dalle labbra della Tigre, Giovanni da Casale ebbe un brivido lungo la schiena, ma non la volle interrompere.

Come se avesse detto troppo, però, Caterina si morse l'interno della guancia e cercò di smorzare un po' il discorso: “Se alla fine l'ho liberato è solo perché avevo perso in poco tempo mia sorella Bianca, mia madre e un figlio. Non volevo perderne un altro.”

Pirovano, colto da uno slancio di compassione, provò a prenderle una mano nelle sue, ma la donna tolse la sua prima che potesse farlo.

Indicò Ottaviano con un cenno del capo e disse, con una specie di sbuffo: “Adesso che Manfredi è morto, sta sempre da solo... Un uomo della sua età che non sa far altro che piangersi addosso, scansare gli impegni e sfogarsi alzando le mani su delle povere ragazze di strada... Avrebbe fatto meglio a piantarsi un coltello in pancia quando ne ha avuto l'occasione.”

C'erano state delle parole, nell'ultima esternazione della Contessa, che avevano fatto uno strano effetto su Giovanni. Era stato il modo in cui aveva detto 'un uomo della sua età' ad averlo colpito. Si era convinto, chissà in virtù di che cosa, che Ottaviano Riario altro non fosse se non un ragazzino, ma di fatto sapeva benissimo che il primogenito della Sforza era davvero già un uomo fatto.

Osservando il giovane che se ne stava ancora in disparte in cortile, Pirovano, tormentato da un pungolo improvviso che, fino a quel momento, l'aveva sfiorato solo da molto lontano, chiese: “Ma quanti anni ha, esattamente, tuo figlio?”

La donna si accigliò, non capendo il senso di quella domanda tanto improvvisa, ma rispose ugualmente: “Venti, compiuti ad aprile.”

Il milanese sentì la bocca seccarsi e, ritirandosi dalla finestra, arrivando addirittura a darvi le spalle, soffiò: “Che diamine, Caterina...”

“Cosa?” fece lei, accigliandosi e scostandosi a sua volta dal davanzale.

“Ma lo sai quanti anni ho io?” l'uomo di era accorto di come quella domanda gli fosse uscita stentata e quasi spezzata, come se gli mancasse il fiato.

La Leonessa, capendo quale fosse il legittimo turbamento che aveva colpito – un po' in ritardo, secondo lei – il suo amante, si tranquillizzò e, rimettendosi a osservare i soldati, sollevò le spalle e ammise: “Più o meno sì.”

Giovanni restava in disparte, sulla difensiva, e anche quando chiese: “E non ti disturba, pensare che ho così poca differenza d'età da tuo figlio?” lo fece come se la stesse accusando di qualcosa.

“No, non mi disturba.” rispose lei, cercando di non arrabbiarsi: “E mi pare che non disturbi nemmeno te. Devo ricordarti cos'abbiamo fatto stanotte? E la notte prima, e quella prima ancora?”

Siccome dal soldato non arrivava una risposta, la Contessa si voltò a guardarlo e lo trovò corrucciato, pensoso.

Decisa ad appianare qualsiasi motivo di screzio potesse esserci tra loro, allungò una mano e gli accarezzò la guancia, trovandola un po' ispida. Poi, con studiata lentezza, scese fino sul collo, trovando quello che cercava.

Disegnando con decisione e quasi con dolcezza il graffio che gli aveva lasciato addosso quella notte, gli sussurrò: “Guarda... Hai ancora i segni sul collo, di quello che abbiamo fatto...”

Gli occhi scuri di Pirovano corsero a cercare quelli di lei e quando li trovarono, di colpo tutte le sue perplessità parvero spegnersi. Era una decisione semplice, in fondo.

Caterina aspettava, sperando di averlo convinto a placare l'agitazione che aveva nel petto. Lo capiva, in fondo. Era confuso, lo si vedeva benissimo. Troppi cambiamenti, troppe cose a cui pensare e troppe decisioni irrevocabili da prendere... E probabilmente aveva anche una paura folla di quello che aveva deciso di fare. Era normale, che avesse qualche momento di cedimento. In fondo era ancora giovane, non aveva ancora la corazza di un uomo maturo, per quanto fosse muscoloso e caparbio.

Desiderosa di trovare un modo per rinfrancarlo, si schiarì la voce e propose: “Perché non vieni a caccia con me, domani mattina?”

Giovanni da Casale stava per rispondere, ma la voce di Ottaviano – che aveva notato subito l'improvvisa assenza della madre alla finestra – lo zittì all'istante.

“Se messer Pirovano è impegnato, posso venirci io, a caccia con voi, madre.” fece il Riario, assecondando un istinto improvviso.

Voleva essere superiore, quella volta, voleva evitare di sentirsi male come gli era successo sapendo la madre in coppia con qualcuno. Aveva capito che gli dava quasi meno fastidio saperla di tutti, perché in quel caso non era di nessuno. Ma vederla sempre e ovunque affiancata da quel milanese, lo stava facendo tornare il figlio sospettoso e possessivo che era stato ai tempi di Giacomo e lui non voleva più sentirsi così.

“Non è il caso.” ribatté fredda la Sforza, dedicandogli un'occhiata severa: “L'ultima volta che sei uscito a caccia con me, l'uomo che amavo è tornato a casa fatto a pezzi, in una bara.”

Ottaviano non si era aspettato una simile risposta da parte della madre, perciò rimase con la bocca mezza aperta mentre la donna, stanca di lui e già pentita anche della proposta fatta a Giovanni, gli passava accanto dicendo: “Lasciate perdere, tutti e due. E tu – soggiunse, rivolgendosi al figlio – io credo che faresti meglio a prendere un'arma e unirti a tuo fratello Galeazzo. Quando ti manderò a Milano, sotto la condotta di mio zio, sarà meglio per te essere in grado di tenere in mano una spada senza fartela cadere sui piedi.”

Pirovano, che pur sapeva benissimo che non era arrivata nessuna proposta di condotta da Milano, restò impassibile, acuendo nel Riario il panico, al pensiero che davvero il Moro avesse deciso di chiamarlo a difendere il Ducato.

Con la Tigre ormai lontana, Giovanni da Casale si prese una mezza rivincita sul giovane uomo che gli stava davanti e che si era permesso di intromettersi tra lui e la Contessa: “Ha ragione vostra madre – gli disse, piccato – a Milano non sono indulgenti come a Firenze, quando si tratta di fare la guerra.”

 

“Scrivetelo pure, alla vostra cara Tigre – aveva detto Lorenzo il Popolano, quando Fortunati aveva finalmente saputo il nome del nuovo ambasciatore che sarebbe partito, verosimilmente quel lunedì, alla volta di Forlì – e ditele quanto Firenze sia ben disposta nei suoi confronti e voglia solo il suo bene e il bene di questa alleanza.”

Jacopo Salviati non riusciva a smettere di pensare a quella scena. L'aveva ancora davanti agli occhi, anche se era tornato a casa da circa due ore.

Fuori l'aria era leggera, sottile, con il tipico aroma delle notti estive. Il caldo aveva lasciato il posto a una piacevole frescura, ma, anche con la finestra aperta, Salviati non riusciva quasi a sentirla.

Sudava e respirava veloce, indeciso e combattuto. Confidava nella validità di Niccolò Machiavelli, sia come diplomatico, sia come uomo d'affari, ma il fatto che fosse stato Lorenzo Medici a insistere per mandare proprio lui, lo lasciava con un dubbio atroce.

Anche se il Popolano stava cercando sempre di più di mostrarsi benevolo nei confronti della cognata – perché la Sforza era sua cognata, benché lui paresse voler deliberatamente negare quel fatto – in realtà stava facendo di tutto per appoggiare le richieste francesi, che volevano Firenze neutrale, in tacito appoggio dell'esercito di re Luigi XII.

Quella posizione, così netta e così irrevocabile era in aperta opposizione alla Tigre, dato che tra gli intenti non dichiarati, ma ben evidenti, dei francesi c'era appoggiare i Borja nella riconquista della Romagna, Imola e Forlì comprese.

“Sei qui...” Lucrezia era entrata nel salottino con una mano sul pancione e l'altra sulla schiena: “Ti stavo cercando... Non vieni a mangiare con me?”

Jacopo sospirò, mordendosi il labbro. Era mezzo sdraiato su un divanetto imbottito, le gambe sollevate e appoggiate al tavolinetto vicino, in una posa molto poco conveniente, per un uomo del suo rango.

“Tutto bene?” domandò la moglie, andandosi a mettere accanto a lui.

L'uomo la guardò per qualche istante senza dire nulla. Non voleva scaricarle addosso il peso che portava sulle spalle, men che meno in quel momento. Mancava una settimana circa al momento del parto, almeno così sosteneva la levatrice, e la Medici era più stremata del solito, forse anche a causa di quel luglio infuocato.

“Non lo so.” rispose alla fine il Salviati, non riuscendo nemmeno lui a capire come si sentisse davvero.

Lucrezia lo invitò a spiegarsi e così, dopo averle riferito tutto quello che era successo quell'11 luglio, Jacopo si sentì subito un po' più leggero.

“Machiavelli è un uomo assennato – fece presente lei, che, tuttavia, non era rimasta indifferente alla portata di quella notizia – e dubito che Lorenzo si sia fidato a dargli dei compiti che esulino dal ruolo di un ambasciatore. Che danni può fare, in fondo?”

“Non lo so... Ma non mi piace il modo in cui tuo cugino continua a nascondersi dietro frasi che non hanno senso...” scosse la testa l'uomo: “Un giorno sembra deciso a scatenare l'inferno contro sua cognata, il giorno dopo è come se la volesse salvare perfino dalle grinfie del papa, e poi manda Machiavelli alla sua corte... Capire cos'ha in mente è quasi impossibile.”

“Parli tu – lo rimbrottò bonariamente la moglie – che sei il re degli incomprensibili.”

“Io sono cauto, è diverso.” si schermì Jacopo, mentre il suo viso si distendeva un po', lasciando trasparire l'ombra di un sorriso.

Lucrezia fece una breve smorfia e poi, prendendo con fare quasi perentorio una mano del marito, gliela posò sul suo pancione: “Senti... Si muove anche adesso che non ha più spazio...”

“Non vedo l'ora che nasca...” sussurrò il Salviati, chinandosi in avanti e dando un bacio al ventro rigonfio della moglie: “E spero davvero che questa sia femmina.”

La Medici avrebbe voluto parlare ancora di politica, fargli altre domande e confrontarsi con lui su alcune valutazioni che stava facendo tra sé, ma la dolcezza con lui lui si era messo ad accarezzarle il pancione e a baciarla, risalendo dal ventre, al seno, al collo e alle labbra, le tolse ogni voglia di angustiarlo con gli affari di Stato, dandole invece lo sprone per assecondarlo nel suo slancio e farlo sciogliere tra le sue braccia come quando erano ancora due mezzi sconosciuti che, perdendosi l'uno tra le braccia dell'altra, imparavano a conoscersi, a cercarsi e ad amarsi.

 

Caterina, lasciandosi alle spalle Pirovano e Ottaviano, aveva camminato veloce fin quasi alla sala dei banchetti. Anche se gli ultimi discorsi fatti con il milanese le avevano tolto un po' la fame, sapeva che ad attenderla c'era un ottimo stufato di cervo e così sperava di poter trovare un po' di consolazione nel cibo.

Tuttavia, appena prima che riuscisse a raggiungere l'agognato pasto, Cesare Feo la raggiunse e le disse, in fretta: “Dionigi Naldi è appena arrivato alla rocca e chiede di incontrarvi.”

La Sforza fece un sospiro. Sapeva che se si era permesso di presentarsi a Ravaldino e chiedere subito di lei, doveva essere successo qualcosa di importante. Nella fattispecie, o lui aveva finalmente catturato Galeotto Bosi oppure ne aveva perse definitivamente le tracce.

“Dov'è adesso?” chiese la donna, massaggiandosi la fronte.

“Vi sta aspettando nel cortiletto d'ingresso.” fece il castellano: “Volevo farlo accomodare nel mio studiolo, ma ha preferito di no.”

La Tigre trovò un po' strana quella decisione, ma, senza perdere tempo, chiese, già incamminandosi: “Porta con sé un prigioniero?”

“No, era solo, mia signora.” rispose Cesare, senza seguirla.

Arrivata al cortiletto, la Contessa scorse subito il Capitano e, congedati un paio di soldati che erano lì con lui, gli chiese: “Che c'è? Perché siete qui?”

L'uomo, che portava con sé un sacco, lo porse alla sua signora e disse, con voce ferma: “Per portarvi questo.”

La Sforza sospirò e prese il sacco. Lo aprì e il tanfo della morte la colpì in pieno. Alla luce calda del sole di mezzogiorno di quel luglio infuocato, il sangue raggrumato che copriva la testa mozzata e la mano destra contenute nel sacco pareva ceralacca scarlatta.

Senza darsi pensiero di sporcarsi, la Leonessa afferrò per i capelli il macabro reperto e chiese: “È di Galeotto Bosi?”

“Sì.” annuì Dionigi, gonfiando un po' il petto.

“Sinceramente, speravo me lo portaste vivo...” soppesò la Tigre, ributtando la testa nel sacco dopo averla osservata con attenzione: “Avrei voluto poterlo interrogare di persona.”

Naldi non tradì l'irrequietezza che lo agitò nel momento in cui le sentì dire così. Anzi, riuscì a mascherare tanto bene la sua paura, da suonare totalmente credibile.

“Anche io avrei voluto consegnarvelo vivo, ma quando ha capito che l'avevamo riconosciuto, ha reagito ed è morto mentre lottavamo.” spiegò Dionigi.

Caterina lo guardò in tralice, indecisa se fidarsi o meno di quel resoconto. Alla fine, però, il risultato non sarebbe cambiato. Così diede voce a una delle guardie che facevano la ronda sui camminamenti, facendola scendere in cortile.

“Voglio che la mano che troverete qui dentro venga inchiodata a Porta Ravaldino. E delle testa... Di quella fate ciò che vi pare.” ordinò, consegnando il sacco al soldato.

Questi assunse una sfumatura grigiastra, nel sentirsi imporre quella disposizione, ma, si disse, prima di fare una fine analoga all'uomo a cui erano appartenute la testa e la mano, si sbrigò ad annuire e a chiamare un paio di commilitoni per farsi aiutare.

“Chiamate anche il Capitano Mongardini...” suggerì la donna, prima che i suoi uomini lasciassero la rocca: “Almeno lui non darà di stomaco...”

Anche Dionigi pareva concorde con lei e fece un cenno di incoraggiamento ai soldati che avevano ricevuto quell'ingrato ordine da parte della loro signora.

“Avete preferito aspettare qui per non sporcare il pavimento dello studiolo, vero?” chiese la Leonessa, guardando distrattamente una scura macchia di sangue che imbrattava il suolo, laddove Naldi aveva appoggiato il sacco, mentre l'aspettava.

“Sì.” confermò lui: “Non credo che il vostro castellano avrebbe apprezzato una simile miglioria...”

La Sforza e Dionigi si scambiarono uno sguardo molto significativo e poi, senza riuscire a trattenersi, scoppiarono entrambi a ridere. Era una risata paradossale, quasi dolorosa per entrambi.

Quella risata stava dando loro l'esatta cifra di quella che era la loro vita. Riuscire a parlare in modo tanto distaccato di una testa mozzata, trovarsi a fare battute di spirito sulle eventuali chiazze di sangue lasciate dai resti di un moto, erano cose che facevano rabbrividire tanto Caterina quanto Naldi.

“Adesso voglio che vi riposiate per qualche giorno.” fece la Tigre, quando la risata finalmente le si spense in gola, lasciandola spossata come se avesse fatto uno sforzo immane: “Poi vedrò che fare di voi.”

“Non mi attende la rocca di Imola?” chiese l'uomo, perplesso.

“Non subito.” fece la Tigre: “Prima voglio vedere cosa succederà a Milano. Solo quando sarò sicura di non dovervi destinare a qualcosa di più importante, allora vi manderò a Imola a sostituire Gian Piero Landriani.”

“Tutto quello che la mia signora comanda.” assicurò Dionigi, abbozzando un inchino.

 
 
   
 
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