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Autore: Ryo13    04/03/2019    7 recensioni
La vita di Kaylee Turner subisce un brusco cambiamento: costretta a contare sulle sue sole forze per tirarsi fuori dai guai in cui si ritrova a causa dell'ignobile patrigno, forgia il proprio carattere per diventare una regina oscura, ed ottenere una posizione dalla quale può auspicare di gestire la propria esistenza. Ma quando si stringe un patto con le forze del male non tutto va come si desidera: ci potranno essere cose che non valgono il prezzo di un'anima.
❈❈❈Seconda classificata e vincitrice del premio speciale "Miglior dialogo" al Contest "Patti oscuri, alleanze di ferro e promesse vincolanti" indetto da Shilyss sul forum di EFP❈❈❈
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La regina nera'
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Capitolo III

♛♚♛  

 

Evelyn Kennedy guidava il suo pick-up Ford lungo la US-6, fuori da Kane, Pennsylvania. Aveva appena finito il suo turno alla Penn Oak Energy Services e non vedeva l’ora di tornare a casa da suo figlio.

Jacob era un bambino molto vivace. Aveva sei anni ma un’intelligenza che lo faceva sembrare molto più maturo. Quando lei era a lavoro, stava dai vicini: i signori Reed erano due tranquilli pensionati che dirigevano una fattoria. Prendersi cura del ragazzino era un piacere per loro, che non avevano avuto figli.

Inoltre, in una casa rurale come quella che avevano, c’era sempre qualcosa da fare: non mancava né il lavoro né l’avventura in quelle terre, e tanto bastava a tenere impegnato un bambino sulla soglia dell’età scolare. Non era, questo, un risultato indifferente, dal momento che la popolazione di Kane non contava neanche quattromila individui: il rischio di annoiarsi era piuttosto alto.

Evelyn aveva avuto la sua dose di guai nella vita, quindi la tranquillità le andava bene. Era manna dal cielo, per dirla tutta.

Quando la sera rientrava e cenava con Jacob quasi non poteva credere alla fortuna che aveva. A volte, doveva darsi dei pizzicotti sul braccio per capire che non si trattava di un sogno, dopotutto. Altre volte, invece, la realtà le appariva in una luce freddamente chiara nel volto affilato del bambino, nei capelli scuri e negli occhi dalla felina arguzia che erano il ritratto di quelli di suo padre.

La donna mise da parte il pensiero dell’uomo che si era lasciata alle spalle, assieme alla sua vecchia vita. Richiamarla alla mente, seppure fuggevolmente, la faceva sentire fragile e insicura.

In modo un po’ scaramantico, non desiderava soffermarsi sul passato, per paura che questo sbucasse dal nulla all’improvviso, trascinandola in uno stato di paura.

In verità, Evelyn non aveva mai smesso di avere terrore: lo indossava come un abito logoro, dopo tutti quegli anni, ma non poteva farne a meno. 

La Belaya Smert non perdonava.

Le ruote dell’auto graffiarono il selciato, fermandosi davanti al cancello della fattoria.

Non aveva fatto in tempo a spegnere i fari che udì la voce del suo bambino chiamarla e, dopo pochi secondi, si ritrovò in un abbraccio pieno di calore.

«Mamma! Finalmente sei tornata!», esclamò Jacob, con un sospiro.

«Non credo di aver fatto molto tardi, Jake, non più del solito, almeno», commentò, sorridendo di quell’impazienza infantile. Lo scostò appena da sé per guardarlo in viso. Gli passò una mano tra le ciocche ricciute dei capelli. «Ma guarda! Sei tutto sudato… avrai fatto penare la povera signora Reed con tutta questa agitazione. Che hai combinato?»

Jacob, per nulla scoraggiato dagli amorevoli rimproveri, cominciò a raccontarle delle sue conquiste. Aveva seguito il signor Reed nella riparazione di un mulino, ma non era questa la fonte della sua gioia.

Evelyn si compiacque del suo viso acceso, delle guance rubizze: gli davano un’aria davvero felice.

«Su, forza… dimmi che cosa hai trovato», lo punzecchiò, intuendo nel suo atteggiamento il proposito di fare una rivelazione.

«Un cucciolo!», gridò estatico. «Il signor Reed dice che è un American Wolfdog! Ti rendi conto, mamma?! Un mezzo lupo! »

Cominciò a saltellare sui piedi, battendo le mani, mentre la investiva di dettagli sulle circostanze del ritrovamento, sul colore, l’odore, la forma del povero animale…

Evelyn non si trattenne più davanti a tanta estatica beatitudine, e scoppiò a ridere.

«Credo che tu muoia dalla voglia di farmelo conoscere», disse.

Jacob non perse altro tempo, afferrandola per una mano e trascinandola a casa degli anziani padroni.

Sulla soglia furono accolti dalla signora Reed, che esibiva un piccolo sorriso condiscendente. 

«Mary, ti ha fatto stancare molto, oggi?», chiese Evelyn.

«Niente affatto, cara. È un ragazzo giudizioso e oggi ha dato una mano a John. Da quando ha trovato il cane, poi, si è tutto dedicato a lui.»

«Sono contenta. Coma va il dolore alla schiena?»

«Eh… potrebbe andare meglio, ma non mi lamento. Il Signore voglia che tiri avanti quanto basta!», esclamò, lasciando intendere il resto alla sua giovane amica.

Evelyn conosceva la situazione dei suoi vicini di casa: non avendo eredi, né parenti prossimi, erano esposti ai pericoli della vecchiaia, il più grande dei quali era l’eventualità che uno dei due sposi morisse, lasciando l’altro da solo. Mary diceva sempre di pregare che Dio sistemasse le cose per loro, curandone gli interessi, in modo da non soccombere alle preoccupazioni. 

Evelyn, dal canto suo, invidiava quella fede semplice e schietta della coppia: vivevano ogni giorno come un dono prezioso, non scevro da affanni e apprensioni, eppure ricco di amore, forte del reciproco legame.

Jacob, il quale dal portico si era fiondato dentro, ritornò nella veranda portando tra le braccia un animale dalle proporzioni enormi.

«Sei sicuro che sia un cucciolo?», commentò tra il serio e il faceto sua madre. «Non credi piuttosto che sia un cavallo in miniatura?»

«No, mamma! È un mezzo lupo, ti dico!»

«Se lo dici tu...»

Scherzarono per qualche minuto. Mary offrì a Evelyn una tazza di thè caldo e parlarono del più e del meno, nell’attesa che suo marito John tornasse.

«Volete rimanere per cena?», invitò l’anziana donna.

«Ti ringrazio, ma ho lasciato un pasto pronto in casa e sono così stanca che vorrei andare subito a rilassarmi.»

«Mamma!», intervenne Jacob, aggrappandosi alla sua maglia. «Ti prego...»

«Sai che non possiamo tenerlo, Jake. A casa non ci siamo quasi mai...», replicò subito Evelyn, consapevole di cosa voleva chiederle.

«Ti prego!», gemette, imperterrito.

«Ma pensa a come sarebbe complicato fare avanti e indietro e...»

«Ti prego, ti prego, ti prego!», diceva, le mani giunte e il miglior faccino triste. «La signora Reed mi ha dato il permesso di tenerlo qua quando vengo a farle visita! Possiamo portarlo con noi… starà qui quando sono a scuola… ti prego!»

La donna si rivolse a Mary: a quanto pare, ne avevano già discusso. «Va tutto bene, Evelyn, cara. Ho già detto a tuo figlio che può tenerlo qui, sempre che tu sia d’accordo. È una grande fattoria, questa, un animale in più o in meno non fa differenza.»

Sospirò, ormai rassegnata. Del resto, farlo così contento era una tentazione troppo grande.

Quando finalmente diede il suo consenso, Jacob si esibì in un balletto, pieno di entusiasmo. Scoppiarono tutti a ridere, compreso John, il quale era sbucato dalla porta sul resto in tempo per assistere allo spettacolo.

«Trattalo bene, ragazzo», raccomandò il vecchio, prima di congedarlo.

Lasciarono la fattoria in un’atmosfera di festa. Jacob si sistemò il nuovo cucciolo sulle gambe. Per tutto il tragitto verso casa, tenne le braccia avvolte al suo collo: lui, di contro, sembrava disposto a farsi fare qualunque cosa, la lingua penzoloni fuori dal finestrino.

Giunsero a casa. L’architettura in legno era semplice e sorgeva in un luogo piuttosto isolato. Forse non era adatta a una donna sola con figlio, ma la solitudine che la circondava era di conforto a Evelyn.

Salirono le scale e si apprestarono ad accendere il camino: anche se era ancora autunno, la sera cominciava a fare piuttosto freddo.

Dopo cena, come di consueto, si sedettero sul tappeto, davanti al fuoco, a leggere in tranquillità un libro. In quel momento, erano alle prese con Moby Dick che aveva spinto la fantasia del bambino a sondare le profondità oscure del mare.

Il nuovo membro della famiglia sembrava essersi adattato perfettamente all’ambiente. Stava comodamente sdraiato di schiena, offrendo la pancia ai massaggi del suo padroncino.

«Un giorno andrò anche io in mare!», sognava Jacob, immaginando le navi. «Ovviamente verrà con me anche Wolf!»

«Quindi hai scelto il nome?», chiese sua madre, elargendo una carezza sul pelo arruffato.

«Sì! È un bel nome! Vedrai come lo guarderanno i miei compagni quando gli avrò detto che ho un lupo

«Un mezzo-lupo», precisò ironicamente Evelyn, per il gusto di riportarlo alla realtà.

«Non importa che sia un lupo a metà! Ce l’ha pur sempre nel sangue!», esclamò, difendendo la sua romantica idea.

«Come vuoi», cedette lei. «Ma adesso è tardi, devi andare a letto.»

A nulla valse protestare: Evelyn sapeva imporsi quando necessario. Bastò l’accenno al fatto che gli avesse permesso di portare a casa Wolf per ottenere una grata obbedienza. 

Lo seguì nella sua camera, dove gli rimboccò le coperte e gli diede il bacio della buonanotte.

♛♚♛

Evelyn stava lasciando asciugare i capelli bagnati al calore della fiamma, mentre sorseggiava del vino. Il gusto corposo le scivolava nella gola, riscaldandole lo stomaco e sciogliendo la tensione della giornata.

Indossava dei pantaloncini sotto la leggera vestaglia, la cicatrice sulla gamba visibile. Ne sfegò i contorni col dito, seguendone i margini fino alla prossimità dell’inguine. Quel segno se l’era procurato fuggendo. Aveva rischiato di morire.

Il ricordo della coltellata le diede un brivido. Cercò di cancellare quel pensiero ingollando un altro sorso.

Chissà dov’era finito quel mostro

Scolò l’ultima goccia dal bicchiere e ne picchiò il fondo sul pavimento di legno. 

«Basta!»

Era il momento, quello, di notte, in cui le facevano visita i fantasmi. Fantasmi che facevano troppa paura.

Non sapeva se si sarebbe mai liberata di loro. Ne dubitava. Eppure, non voleva che perseguitassero anche Jacob. Purtroppo non aveva potere in questo. Tutto ciò che riusciva a fare era nascondersi, e lo faceva ormai da quasi sette anni.

Certe sere era maledettamente stanca di scappare, ma non sapeva vivere altrimenti.

D’improvviso, un rumore fuori posto la riscosse. Raddrizzò la schiena e tese l’orecchio, in cerca di una minaccia. Trascorsero minuti di immobilità, poi si mise in piedi per sorvegliare il bosco dalla finestra.

Appariva tutto normale, eppure forse complici i macabri pensieri non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che qualcosa non andasse.

Arrivò all’armadio dei fucili e ne estrasse uno, armandolo prontamente. Uscì nel patio imbracciandolo, scrutando l’oscurità notturna.

L’aria fredda le penetrò il petto, cancellando le tracce residue del calore alcolico. Stette ferma, assorbendo ogni suono familiare, cercando di affinare l’udito.

Quando si sentì un po’ più sicura, rientrò, chiudendo la porta con più mandate. Tenne però il fucile a portata di mano.

Raccolse il bicchiere per portarlo in cucina. Tuttavia, voltandosi, se lo lasciò sfuggire di mano: il vetro si infranse con un tintinnio acuto.

«Rafail!», esclamò, piena di angoscia.

Desiderò che fosse solo uno spettro evocato dal vino unito all’ansia, ma il perfido sorriso e i passi che fece così fluidi, così sicuri non le lasciarono dubbi sull’identità della persona che era penetrata in casa. I suoi incubi non l’avevano mai evocato con tanta chiarezza.

«Kaylee...», la salutò con un sussurro. «O forse dovrei dire Evelyn, come ti fai chiamare ora?»

La donna era paralizzata, impossibilitata ad allungarsi verso il fucile. Del resto, Rafail non si era preoccupato nemmeno di disarmarla. 

Cosa avrebbe mai potuto fare? Era ben consapevole di essere sempre stata impotente davanti a lui: poteva avere imparato a uccidere, a far perdere le proprie tracce, a giocare partite mentali con uomini della malavita, riscuotendo un leggendario successo, diventare la regina del mondo delle ombre... ma non aveva mai potuto opporsi al suo padrone, a colui che possedeva la sua anima.

«Mi hai reso davvero difficile trovarti, devushka », continuò, amabile. «Marc ti ha davvero istruito per bene.»

Kaylee era molto pallida, non riusciva a parlare.

«Ti vedo sconvolta, Koroleva», le disse, prendendole il mento tra le dita. «Pensavi forse di non rivedermi mai più?» 

Rise, ma c’era in quel suono qualcosa di tagliente.

Indicò con una mano il divano: «Forse sarà meglio sederci, prima di vederti svenire», disse, e la fece accomodare.

«Ti prego...», tentò flebilmente la donna.

«Non pregare», l’interruppe brusco. «Non mi è mai piaciuto e non ti riesce bene!»

Vederlo irritato, scatenò il panico dentro di lei. Si sarebbe volentieri abbandonata all’isterismo, ma si ricordò di Jacob, che dormiva nel suo letto, e si ricompose. Inspirò alcune volte, poi raccolse il coraggio di parlare.

«Come mi hai trovato?», gli chiese, tagliente.

«Si potrebbe dire per puro caso, mia cara», rispose, un luccichio nello sguardo. La trovava combattiva come un tempo e ne era compiaciuto. Sarebbe stato davvero piacevole distruggerla.

«Non ti sono mancato? Sono quasi sei anni che non ci vediamo.»

Kaylee era scappata da Mosca circa sette anni prima, quando aveva scoperto di essere incinta. Gabriel era stato ucciso solo da pochi mesi e, spaventata da quel ricordo, era stata certa che Rafail gli avrebbe fatto del male, quando avesse scoperto che il padre era suo cugino.

Si era maledetta per la propria sbadataggine, ma, del resto, con Rafail non aveva mai concepito, pur non usando alcun contraccettivo. Aveva capito, col tempo, che lui era sterile.

La notte trascorsa con Sergej era stata del tutto inaspettata: entrambi non erano stati abbastanza lucidi da considerare tutte le conseguenze.

Dunque era scappata, raccogliendo i soldi dal suo conto privato e portando con sé poco o niente.

Rafail, inizialmente, aveva creduto che qualcuno l’avesse presa e aveva comandato ai suoi uomini migliori di ritrovarla. Rastrellare il terreno della malavita, però, non aveva portato a nulla. Aveva cominciato così a interrogare tutti coloro che le si erano trovati accanto, fino a risalire al medico che le aveva diagnosticato la gravidanza: solo allora aveva compreso come stavano le cose.

Seguendo quella pista, l’aveva rintracciata un anno più tardi. Era riuscito a coglierla di sorpresa, ma non abbastanza da impedirle una nuova fuga. Si era aspettato di trovare la ragazza orgogliosamente sottomessa di un tempo, invece ormai era una mamma, disposta a tutto per la sopravvivenza del proprio figlio.

L’unica soddisfazione che si prese, quella volta, fu di lasciarle un ulteriore ricordo: l’aveva ferita alla coscia, in prossimità dell’arteria femorale. Non era riuscito a reciderla, e per questo era sopravvissuta.

Si era nascosta meglio cambiando persino il proprio nome in un paese sperduto, un territorio miseramente desolato dove nessuno la conosceva.

Ora che l’aveva ritrovata, dopo tutto quel tempo, aveva intenzione di prendersi la sua rivincita. L’anima di lei gli apparteneva: era venuta meno al loro accordo, per questo avrebbe meritato la morte. Tuttavia, il raffinato intelletto di Rafail aveva studiato una speciale vendetta, fatta apposta per la sua regina nera.

«Dimmi che cos’hai in mente, Rafail», sussurrò pressante Kaylee.

«Tesoro, hai perso qualsiasi diritto tu abbia mai avuto di farmi una simile domanda. Ma in memoria dei bei vecchi tempi, ti risponderò», ghignò, accondiscendente.

Con un cenno del suo dito, venne fuori dall’ombra un uomo completamente vestito di nero. Le puntava addosso un’arma, in attesa di ordini.

«Mi ucciderai?»

«Non credo possa servire allo scopo,  no», rispose.

Al successivo segnale, l’uomo armato si diresse verso le scale.

Kaylee saltò su dal divano in un impeto di rabbia e timore: non gli avrebbe permesso di raggiungere Jacob.

Rafail agilmente la trattenne e lei, sbilanciata, precipitò ai piedi del divano.

Prese a dimenarsi come una furia, nel tentativo di liberarsi e salvare il suo bambino. Rafail usò il proprio peso per schiacciarla a terra, bloccandole le mani.

Kaylee scoppiò allora a piangere, disperata.

«Non lo toccare! Non lo toccare», gemeva. «Non hai diritto di uccidere il mio bambino! Mostro!»

Rafail, imperturbato, le sorrise, nonostante lo sforzo di contenerla.

«Oh, ma io non ho intenzione di ammazzarlo, devushka.»

«Non ti credo! Lo ucciderai davanti ai miei occhi!», sgridava, sconvolta. «È così che fai!»

«Non questa volta, davvero.»

Kaylee sentì la verità nelle sue parole e rimase sorpresa. Poi, una paura ancora più grande la colse e disse: «Non vorrai uccidere me davanti a lui?! Non puoi farlo!»

«Anche se volessi, mia cara, non sta a te decidere ciò che posso o non posso fare!»

Le avvolse una mano alla gola, stringendo quanto bastava per mozzarle il fiato.

«Ricordi la notte in cui abbiamo stretto il nostro patto?»

Kaylee lo fissava vacuamente.

«Sì, avevi proprio questa espressione… eri così decisa nel darti a me per salvare la tua vita. E io ho accettato, ricordi? La tua anima e la tua fedeltà mi appartenevano, tu hai avuto in cambio comfort, ricchezza, sicurezza e… rispetto!»

Quando allentò un po’ la presa, Kaylee boccheggiò, respirando rumorosamente.

«I-io sono stata fedele al nostro accordo s-sempre», sussurrò, tra gli ansiti. «Ma non potevo più rimanere a... ah… a causa di Jacob, lo sai.»

«Oh? Perché il tuo bastardo è figlio di mio cugino? È questo che ti ha spinto a fuggire?»

«Sì!», rispose. «Dimmi: che cosa avresti fatto scoprendo che io e lui eravamo stati assieme?»

Rafail corrugò la fronte, infastidito. «Ve l’avrei fatta pagare, naturalmente.»

«Esatto!», disse Kaylee, guardandolo con rabbia. «Non sarei mai rimasta con te, sapendo che potevi fargli del male! Ti avevo dato potere su me stessa, ma lui non ti appartiene! Jacob è libero! Non ha mai fatto nessun patto, mai nulla di male! E tu non hai diritti su di lui.»

«Davvero credi, dopo tutti questi anni, che mi serva un diritto per prendermi quello che voglio?», la derise.

«Sono qui per prendermi il diritto della vendetta, Kaylee, e nessuno me ne priverà!»

Con uno strattone, la rimise in piedi, avvolgendole le braccia attorno al corpo, petto contro schiena, per tenerla ferma. «Ti prenderei qua, su questo pavimento, per ricordarti chi è che comanda. Ma ho cose più importanti da fare.»

Tirò fuori una siringa dalla tasca e le iniettò un farmaco dal collo.

Kaylee si afflosciò, perdendo le forze, ma rimanendo perfettamente lucida.

Rafail l’adagiò sul divano logoro, mettendola seduta. Ripose il paralizzante nella giacca, prima di piegarsi sulle ginocchia, per portarsi alla sua altezza.

«Ora che ti sei calmata», cominciò ironico, «potrò spiegarti che cosa succederà a questo punto.»

Dei pesanti passi sulle scale annunciarono il ritorno della guardia. Jacob era in braccio, legato e imbavagliato a dovere.

Il bambino si agitava, cercando di scalciare senza riuscirci.

L’uomo attraversò il salottino, consegnandolo a Rafail.

«Sta’ buono, piccoletto», gli ingiunse, strattonandolo per la nuca e costringendolo a piegare la testa di lato. Poi lo girò verso di sé, scrutandolo in faccia.

«È il ritratto di Sergej», commentò cupo. Una tetra risata raschiò fuori dai suoi polmoni.

«Chissà come dev’essere stato crescerlo, mentre ti ricordava costantemente da dove venivi.»

Perso interesse per il bambino, riportò l’attenzione sulla donna. Godeva del terrore della sua regina, costretta dall’immobilità a subire la sorte che aveva deciso di infliggerle.

Le afferrò il viso, passandole il pollice sulla bocca. Una fame che conosceva molto bene gli agitò le viscere, e si leccò le labbra.

«Ricordi quando ti spiegai il significato di Balaya Smert?», domandò suadente.

«“La morte bianca”», sussurrò Kaylee, le pupille dilatate. 

«Mi dicesti che era il soprannome di un tiratore scelto finlandese Simo Häyhä che nella guerra d’Inverno contro il tuo paese aveva fatto fuori circa ottocento soldati, guadagnandosi l’appellativo.» 

«Esatto. Non ti sei chiesta perché un’organizzazione criminale russa abbia scelto questo nome per il proprio gruppo?»

Kaylee annuì. «L’ho fatto, infatti… e credo di avere capito.»

«Capito cosa?», l’incoraggiò.

«Non era per il significato del nome: “la morte”; o almeno, non solo… il punto stava proprio nel nemico, la persona che vi aveva inflitto una simile perdita, seminando terrore.»

«Continua», mormorò, compiaciuto. Aveva sempre apprezzato l’acume della ragazza, così diversa dalla gente insulsa che lo circondava. Non l’avrebbe mai ammesso, ma perderla gli era costato qualcosa, non solo in termini di orgoglio. Eppure adesso, poteva giocare con lei in un altro modo.

«Avete assunto l’identità del vostro avversario per esorcizzarne la potenza, per renderla vostra. Ci sono culture in cui si crede che bere il sangue dei nemici rubi la loro forza: credo che per voi sia una forma di cannibalismo ideologico.»

«Mi complimento per la tua perspicacia», disse Rafail, lo sguardo bramoso. «Dunque potrai comprendere quello che sto per dirti.»

«Io prenderò tuo figlio», annunciò, spietatamente. «Mi apparterrà perché tu hai rotto il nostro patto:  lo esigo come risarcimento.»

Trascinò Jacob vicino alla madre, ma non abbastanza per poterlo toccare. Il ragazzino si agitava freneticamente, con le lacrime agli occhi. Era confuso, non capiva che razza di incubo stesse vivendo. Fissava sua madre angosciato, l’uomo che lo tratteneva con odio profondo.

«Guardalo per l’ultima volta, Kaylee», le ingiunse. «Non lo rivedrai.»

«Non ti toglierò la vita, prenderò la sua, e tu vivrai per sempre nel rimorso di avermi tradito.»

Rafail sapeva che ucciderla non sarebbe servito a placare la sua ira. Invece, desiderava vivesse per soffrire ogni giorno, rimpiangendo la sua disobbedienza. 

Avrebbe preso il figlio di colei che l’aveva tradito, per farne il suo punto di forza; il figlio di suo cugino per tormentarlo: solo in questo modo la vendetta sarebbe stata completa e totale.

Infine si alzò. Spinse il figlio di Sergej verso la guardia, la quale prontamente lo trascinò fuori, sparendo nell’oscurità della notte autunnale. 

Kaylee non riuscì a piegare la testa per seguire quel movimento, mentre inesorabilmente si allontanava. Gridava il nome del suo bambino, le lacrime che le appannavano la vista, fino a quando la voce non le si spezzò in un rantolo affannoso.

Rafail si piegò sulla donna e rimase a fissarla per un lungo momento. Le percorse il profilo del collo, lentamente, fin quando toccò il filo di una collana. La sfilò dall’indumento, trovandosi a stringere in mano il proprio anello, quello con le corone di scacchi. Se lo rigirò tra le dita, pensieroso. 

«Sai? Credo che questo possa chiamarsi ‘scacco alla regina’», disse, con un ghigno storto sul volto. Poi le diede un ultimo, amaro bacio che per Kaylee ebbe il gusto della morte. 

«Questo lo puoi tenere», disse, lasciando cadere il monile tra i suoi seni. «Avrai modo di non dimenticarti di noi.»

Andò via come era venuto, in silenzio.

Sola e paralizzata, Kaylee si sentiva tramortita da un’angoscia mortale.

Aveva perso tutto, qualcosa di più prezioso della sua stessa anima. Non c’era più possibilità di riscatto: anche la vita di suo figlio sarebbe stata consumata da quella ruota di distruzione eterna.

Pianse fino a quando anche l’ultima fiamma della brace si spense, e rimase al buio.

 

 

- FINE -




 

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GLOSSARIO (In ordine di comparsa):
девушка, devushka = Ragazza;
королева, Koroleva = Regina;
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NOTE FINALI:
Volevo ringraziare tutti coloro che hanno letto e seguito con gusto questa storia, soprattutto coloro che hanno commentato, lasciando il proprio parere.
Sono contenta di aver partecipato a questo contest che è risultato molto suggestivo, per questo ringrazio con calore il giudice che l'ha organizzato così bene, Shilyss. Era da tempo che non scrivevo, e le tracce del pacchetto mi hanno permesso di immaginare una storia molto complessa che qui, per esigenze tecniche, ho dovuto limitare, scegliendo di narrare spaccati significativi del racconto, funzionali a tracciare i contorni della trappola di un patto che, lungi dall'essere di salvezza, si è rivelato oscuro e dannoso per il benessere dell'anima della protagonista.
Kaylee ha sempre perso tutto — un pezzo di se stessa alla volta — nel tentativo di scendere a compromessi, dicendosi che la sua vita valeva ogni prezzo. Questo fino a quando non ha avuto qualcosa di più prezioso persino di sè: un figlio, per il quale ha scelto di ribellarsi agli accordi presi in giovane età.
In questi capitoli ho voluto mantenere vivo un contatto con i bambini, simbolo di innocenza ma anche di vulnerabilità: per questo Kaylee nel primo capitolo appare ad una prima occhiata, più piccola della sua età, ed è ancora effettivamente giovane e relativamente innocente; Gabriel nel secondo capitolo riesce a creare con lei un legame molto forte perché la protagonista si rivede in lui; ma è solo nel terzo capitolo, con il figlio avuto da Sergej, che Kaylee trova un legame che non può tollerare la morte recida. I figli, dopotutto, rappresentano la speranza che vive al di là degli uomini stessi... e Jacob non è più solo una proiezione dell'innocenza uccisa della protagonista, ma un essere umano prezioso e insostituibile, con diritti alla libertà che nessuno può e deve ignorare.
Mi è stato fatto notare che la sorte di Jacob appare molto incerta, si potrebbe pensare che venga trascinato via a morire da qualche parte, ma il discorso finale di Rafail, riguardo la storia della "morte bianca" è dirimente a tal proposito: non serve uccidere un nemico per distruggerlo, quando questo ha inferto una tale ferita da vivere nel ricordo del terrore suscitato: a volte una forza intelligente può scegliere strategie sottili per prevalere, come è nel caso di assimilare a sè ciò che del nemico ha costituito la sua forza e la sua leggenza perché non sia più un elemento ti danno ma di vittoria.
A Rafail non serve dunque uccidere il figlio del cugino perché può usarlo per vincere tre volte: contro Kaylee alla quale viene strappato, contro il cugino che lo ha tradito, prendendogli quel figlio che non ha neppure potuto crescere, e contro la natura stessa, ottenendo un erede che da sé non può generare.
Gli sbalzi temporali potrebbero aver disorientato i lettori (tra il primo e il secondo capitolo trascorrono sei anni, mentre tra il secondo e il terzo ben sette), però spero che, oltre la confusione iniziale, possano anche avere incuriosito riguardo alle parti non narrate.... perché prossimamente ho intenzione di colmarle con una nuova storia. Questa verterà sugli eventi nascosti e sulle trasformazioni che sono avvenute in questi archi di tempo, di cui, qui, si legge solo il risultato finale.
Non mi dilungo oltre... spero solamente che la narrazione sia risultata avvincente!
Grazie a tutti! 
Ryo13

   
 
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