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Autore: Adeia Di Elferas    05/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ludovico batteva le grosse dita della mano destra sull'elmo che teneva sul ginocchio. Era sciocco, forse, da parte sua, girare con la piastra pettorale dell'armatura e tutta quella ferraglia inutile addosso. Perfino la spada al fianco gli pareva una forzatura e temeva che portasse molti dei suoi cortigiani a ridergli dietro.

Perfino il domine magister Leonardo, nel vederlo uscire dalle sue stanze, quella mattina, bardato a quel modo aveva trattenuto a stento una risata.

Però il Moro non poteva evitarlo. Voleva che quando il momento fosse giunto, le sue ginocchia stanche e le sue spalle indolenzite sapessero sopportare adeguatamente il peso dell'armatura. Non ci sarebbe più stato tempo, una volta iniziata la guerra, per riabituare il suo fisico a tutti quegli inconvenienti.

Era pur sempre uno Sforza, figlio di suo padre e di sua madre, e non sarebbe certo scappato davanti al pericolo. Voleva se non altro provare a difendersi. Mostrarsi in armi. Far capire al mondo che a Milano c'erano ancora uomini degni del cognome che portava.

Però aveva paura. Una paura folle.

“E quindi... E quindi...” disse, i pensieri che scappavano da tutte le parti, nella sua mente confusa, impossibili da trattenere e da riordinare: “Quindi Lucio Malvezzi ha portato a termine quei lavori..?”

Bartolomeo Calco annuì, ricontrollando la lettera che gli era arrivata da poco: “Ha rafforzato le difese di Bergoglio costruendo casematte e facendo approfondire il fossato. L'hanno aiutato i guastatori di Stradella, quindi direi che possiamo stare tranquilli, riguardo la qualità del lavoro...”

“E quegli uomini che ha mandato al confino..?” domandò il Duca, smettendo di battere i polpastrelli sul ferro e guardando Ermes che, al suo fianco, era impassibile come una statua di sale.

Anche lui, malgrado tutto, aveva ripreso in mano la spada dopo anni. Si era detto che, se proprio era suo destino morire combattendo, era meglio farlo senza farsi prendere per i fondelli da dei maledetti francesi. Ufficialmente, però, aveva solo detto di voler riprendere dimestichezza con le armi al solo fine di poter proteggere lo zio, in caso di necessità.

“Li ha mandati nell'alessandrino. Erano tutti uomini influenti, a Castello di Annone e si erano dettui ostili a noi Sforza – spiegò Ermes, con un piccolo sospiro – li ha divisi, mandandone un po' al Bosco e un po' a Tortona.”

“C'è un uomo di mia nipote, al Bosco, non è così?” si informò Ludovico, accigliandosi, ricordando qualcosa circa un fratello dello stalliere che aveva fatto perdere la testa a sua nipote Caterina.

“Sì...” fece il giovane, cauto: “Ma ha lasciato che di questa cosa se ne occupassero i nostri soldati, perché dice di essere solo il proprietario di una tenuta e di non avere più nulla che fare con l'esercito e gli affari di Stato.”

Il Moro strinse i denti e, asciugandosi qualche goccia di sudore che scendeva lenta dalla fronte fino alle sopracciglia, borbottò: “Caterina si dimostra inutile anche stavolta...”

Nel sentir nominare a quel modo la sorella, Ermes strinse le labbra, ma proseguì imperterrito: “I prigionieri, secondo Malvezzi, erano in contatto con Gian Giacomo da Trivulzio. Quindi proporrei a Galeazzo Sanseverino di controllare soprattutto i movimenti di quest'ultimo...”

Il Duca agitò un po' la mano in aria, come dire che quello non era affar suo. Aveva dato apposta al Sanseverino il compito di controllare strettamente l'alessandrino e passare in rassegna tutti i castelli e le rocche possibili, proprio per evitare che vi fossero delle spie nemiche.

“Dunque posso far entrare Marco da Martinengo?” chiese alla fine Calco, credendo che il suo signore non avesse altro da dire: “Sta aspettando qui fuori da tutta mattina...”

Ludovico sbuffò. Aveva caldo, era stanco e aveva fame. Avrebbe voluto cavarsi di dosso quella tragica armatura – che gli stava anche stretta sui fianchi – e andare a Vigevano a ripararsi all'ombra dei suoi gelsi, bevendo vino e mangiando qualche salamino. Quando aveva venduto l'anima al diavolo per diventare Duca, non aveva pensato a quanti inconvenienti sarebbero arrivati, assieme al potere.

“Fatelo entrare, ma che si sbrighi.” concesse alla fine.

Mentre Calco arrancava verso la porta per chiamare Marco da Martinengo, il Duca chiese, in un soffio, al nipote: “Ma è vero che ha venduto tutti i beni che aveva nel bresciano?”

Ermes annuì, ma non poté aggiungere altro, perché l'uomo era arrivato al loro cospetto e si stava già inginocchiando, chiedendo formalmente il beneficio di un'udienza.

“Parlate.” fece lo Sforza, con tono quasi annoiato.

“Sono arrivato oggi da Soncino. Vi ho scritto, per chiedervi una condotta e ora sono qui per dichiararvi la mia fedeltà.” disse, tutto d'un fiato, il bresciano.

Il Moro allungò una mano verso il suo cancelliere, che già gli stava porgendo il documento redatto il giorno prima proprio per quell'occasione: “Tenete – esclamò, girando il foglio a Marco – con questo vi concedo una condotta da cento uomini d'armi e una provvigione annua di mille ducati! Il vostro compito sarà fronteggiare i veneziani a est.”

Marco rese il suo inchino ancora più profondo e, benché risentisse nelle orecchie gli avvertimenti del suo storico amico Niccolò Orsini, che aveva cercato in tutti i modi di dissuaderlo da quella che gli pareva una follia, tentando di convincerlo a passare dalla parte dei veneziani o, al massimo, del papa, ringraziò il Duca e aggiunse: “Servo vostro.”

Appena il nuovo condottiero di Milano lasciò il salone, Ludovico fece un respiro profondo e, sentendo un fastidiosissimo cerchio alla testa stringergli il capo, annunciò: “Mi ritiro per un paio d'ore. Se dovesse venire qualche altro baldo soldato desideroso di immolarsi alla mia causa, ditegli che lo incontrerò nel tardo pomeriggio.”

 

“Madre...” il tono di Ottaviano era molto diverso dal solito, modulato, come se sperasse di poter convincere davvero la Tigre a dargli retta, malgrado tutto: “Ho pensato a quel che mi avete detto e non credo di essere adatto ad andare in difesa di Milano...”

Il salone dei banchetti era molto tranquillo, quella sera. E proprio quella quiete era stata la molla che aveva convinto il Riario a iniziare quel discorso.

Caterina stava mangiando in silenzio da un po', tuffando il cucchiaio nel brodo di gallina e accompagnandolo, ogni due o tre sorsi, a un pezzo di carne di manzo. Sentendo il suo primogenito parlarle a quel modo, aveva smesso di mangiare e, quasi in una reazione automatica, aveva preso tra le dita il calice di vino, sorbendolo poco per volta.

Un po' incoraggiato da quel silenzio, Ottaviano si schiarì la voce, e, sperando di giocare al meglio le proprie carte, proseguì: “Sono convinto che il mio aiuto sia molto più necessario qui, a Forlì, che non a Milano...”

Se per un attimo aveva creduto in una dichiarazione di incapacità da parte del figlio, ormai la Contessa aveva la certezza che quel ventenne gonfio di vino e rammollito dalla nullafacenza avesse dato aria alla bocca ancora una volta solo per mostrarsi l'arrogante che era sempre stato.

Accanto alla Sforza stava Giovanni da Casale, che, però, non volendo immischiarsi di affari che riteneva questioni familiari, andò avanti a cenare come nulla fosse. Poco oltre, a distanza di un paio di sedie, c'erano Bianca e Galeazzo. Se la prima si era messa a fissare il fratello maggiore e la madre, intenta a vedere chi dei due avrebbe fatto la prima mossa falsa – e ormai le era chiaro che la risposta fosse Ottaviano – Galeazzo si era invece irrigidito, rallentando anche la velocità con cui si portava i pezzi di carne alla bocca.

“Tu farai quello che ti ordinerò io.” tagliò corto la Leonessa, solo per tenere a freno il figlio, per fargli paura, che non perché pensasse davvero di mandarlo a Milano.

Anche se il Moro avesse davvero avanzato una proposta per Ottaviano, era probabile che Caterina non glielo avrebbe comunque mandato, per evitare figuracce. Ricordava in modo ancora troppo scottante quello che era successo quando l'aveva mandato alla condotta di Firenze. Se non fosse stato per Giovanni Medici, che aveva sacrificato quel poco che gli il fato gli aveva concesso per godersi un po' il suo bambino appena nato, pur di mascherare l'incapacità del Riario, standogli accanto, proteggendolo dalle prese in giro degli altri comandanti e spronandolo a essere uomo in battaglia, probabilmente Ottaviano non sarebbe tornato vivo dall'ultima guerra.

E forse, pensò con un velo di rabbia la donna, mentre il ragazzo sbiancava e balbettava qualcosa nella speranza di ammorbidirla, sarebbe stato meglio per tutti, se fosse tornato dal fronte avvolto in un sudario.

“Hai altro da dire?” gli chiese, aggressiva, mentre il suo primogenito cercava – invano – di incrociare lo sguardo di Galeazzo o di Bianca.

Alla fine, sconfitto e pentito di aver tentato quell'avvicinamento, Ottaviano tornò chino sul suo piatto e non parlò più finché non ebbe finito di cenare.

Arrivati nella loro stanza, con la pancia piena, ma le mente altrove, Caterina e Pirovano ci misero un po', prima di cercarsi l'un l'altra.

Se la donna, però, un po' smossa dal vino con cui aveva ecceduto, pareva ben decisa a far terminare quella giornata come di consueto, spegnendosi tra le braccia del suo amante, Giovanni non pareva altrettanto sicuro.

“Perché hai detto così a tuo figlio Ottaviano?” le chiese, cercando di fermarla, mentre le mani di lei correvano al suo camicione per levarglielo.

Vedendo frustrato il suo tentativo di sedurre il milanese, almeno per il momento, la Contessa lasciò la presa sui suoi abiti e, sollevando un po' le spalle si scostò da lui spiegando: “Perché dobbiamo ingannare anche Firenze. Se gli avessi detto che quello che ho in mente è tutto un raggiro ai danni dell'ambasciatore che mi manderanno, lui finirebbe per tradirsi. E poi, almeno, così ha qualcosa a cui pensare.”

Pirovano si accigliò. Non approvava quel metodo, non gli piacevano i sotterfugi e la politica in generale gli aveva sempre dato il voltastomaco. Aveva sempre preferito la schiettezza delle armi, alla malizia della retorica. Tuttavia sapeva che Caterina viveva anche di quello. Senza una discreta capacità nel tenere l'equilibrio diplomatico, non sarebbe sopravvissuta fino a trentasei anni, tanto meno conservandosi tanto bella e forte.

Nonostante tutto, però, i pensieri che affollavano la mente del giovane gli rendevano difficile concederlesi. Grattandosi il collo, sperando di non urtarla con quel tacito rifiuto, senza svestirsi del tutto, andò a coricarsi.

Non sapendo come gestire quell'improvviso mutismo del suo amante, la Sforza decise di far finta di nulla. Si cambiò per la notte e poi, prima di raggiungerlo a letto, cercò tra le cose che erano state del suo terzo marito e ne estrasse alcuni dei fogli manoscritti del Popolano.

Voleva trovare un modo per alleggerire l'atmosfera, perché il viso corrucciato di Giovanni non faceva altro che ricordarle le sue stesse preoccupazioni, e non era quello che cercava, nella sua compagnia. Se aveva deciso di richiamarlo a se e di cercare di tenerselo stretto, era stato solo perché cercava un sollievo, qualcosa che la strappasse alla crudeltà della sua vita. Non poteva sopportare di portarsi gli affari di Stato a letto.

Così, sistemandosi accanto a lui, gli disse di leggere ad alta voce il canto che era stato scritto sulla prima pagina. Le diede uno strano brivido vedere le mani di Pirovano, grandi e segnate dall'uso delle armi, prendere i fogli che anche le mani eleganti e bellissime del Medici avevano afferrato allo stesso modo.

All'inizio soprappensiero, il milanese iniziò a leggere, ma la sua voce si fece man mano più lenta e incredula, più si avvicinava agli ultimi versi: “Sente il pan drento quel calduccio e cresce, rigonfia, e l'acqua a poco a poco n'esce; entravi greve e soffice riesci; d'un pane allor quasi un boccon farai. Per cuocere un arrosto ed un pastello...” non riuscendo ad andare oltre, abbassò le pagine e mettendosi a fissare la donna che gli stava accanto chiese, attonito: “Ma che roba mi hai fatto leggere? Chi ha scritto queste cose? Sono... Sono tra i versi più volgari che abbia mai sentito. Non saranno scritti in modo esplicito, ma potrebbero essere la trascrizione di una notte nei baraccamenti dei soldati.”

Caterina, che aveva scelto apposta la 'canzona de' fornai', così come il titolo riportato dal Medici ricordava, smise di sorridere e guardò il suo amante per un lungo istante: “Immaginavo che non ti sarebbe piaciuta, ma valeva la pena di fare una prova.”

“Chi l'ha scritta?” insistette Pirovano, mentre la donna gli prendeva i fogli di mano e li andava a riporre, con cura estrema, in mezzo agli altri.

“Qualcuno che non conosci.” tagliò corto, pensando che forse sarebbe stato troppo complicato fa capire a un uomo poco più che ventenne chi era stato Lorenzo il Magnifico, morto ormai da oltre sette anni.

“Comunque non ti facevo così bigotto.” concluse, tornando a coricarsi accanto a lui: “Rigido sì, ma pensavo che due risate te le saresti fatte, anche se magari a mezza bocca.”

Pirovano preferì non commentare. Era stato accusato spesso, dai soldati che avevano militato con lui, di essere un tipo troppo serio, ma non poteva essere diverso da com'era.

Malgrado tutto, però, quando sentì il corpo caldo e soffice della donna che amava premere contro di lui, si trovò molto malleabile a quel silenzioso invito e, al contrario di quel che aveva fatto poco prima, preferì lasciare che fosse la passione a parlare per lui, evitando categoricamente di tentare altre vie di approccio con la Tigre. Anche se si trovavano indubbiamente bene, l'uno accanto all'altra, non potevano sperare di trovare un'intesa che fosse completa. A Giovanni, però, almeno per il momento, andava bene anche così.

 

Firenze stava ribollendo come una pentola, quel giorno. La notizia della liberazione di Rinieri della Sassetta e Cristoforo Albanese per volere di Paolo Vitelli aveva riacceso i sospetti nei confronti del comandante generale delle truppe fiorentine.

Alla vigilia dell'imminente marcia su Pisa, le ombre che si stagliavano su Vitelli si erano fatte molto scure e minacciose e, addirittura, anche la Signoria stava vacillando, nel dare l'ordine definitivo dell'attacco, come se si temesse di vedere Paolo rivoltarsi all'improvviso e fare rotta su Firenze.

Aveva chiesto tutti i pezzi di artiglieria disponibili, e Firenze glieli aveva fatti avere tutti, nessuno escluso, nemmeno la più piccola bombarda. Se avesse voluto, avrebbe potuto usare tutto quel ferro e tutto quel fuoco per guidare un attacco su Firenze che, di tutti i suoi grandiosi palazzi e le immense chiese, non avrebbe lasciato nemmeno la polvere.

A Machiavelli, però, quel fatto non impensieriva. Sapeva quanto le chiacchiere potessero essere cattive e infondate e conosceva abbastanza bene l'animo umano da capire che cosa avesse spinto Vitelli e rilasciare due simili ostaggi: l'orgoglio.

Stava tornando a passo svelto verso casa, in mano il documento che lo indicava come nuovo ambasciatore alla corte della Sforza. Sarebbe partito nel giro di un paio d'ore, ma aveva dovuto fare quell'ultima capatina alla Signoria per sistemare qualche minuzia. E poi, non meno importante, aveva fatto in modo di ritagliarsi almeno un'ora da passare con la sua amata vicina.

Entrato nel suo palazzo, aveva messo al sicuro gli incartamenti e poi, agile e veloce come un ragazzino – trent'anni, quel giorno, non se li sentiva proprio – si era presentato al portone della sua amante e, con un sorriso irriducibile, l'aveva seguita fin nelle sue stanze.

Quando si trovò per strada, appena due ore dopo, si sentiva stanco e desideroso di riposarsi un po'.

Sapeva che non avrebbero fatto tappa fino a quella sera, però, e così si crogiolò per un po' nel ricordo dell'ora d'amore che aveva strappato alla sua vicina di casa. Era stata una vera fortuna che il marito non fosse ancora rientrato dai suoi traffici, o avrebbe dovuto lasciare Firenze senza la consolazione di quel caldo saluto.

Con un sospiro pesante, Niccolò assecondò l'andatura tranquilla del suo cavallo e, tentando di tornare concentrato su se stesso e sulla sua missione, si ritrovò a ripetere nella sua mente, a memoria, l'incipit del documento ricevuto quel giorno.

L'aveva riletto così tante volte, da finire a saperlo a menadito, come le composizioni che il suo odiatissimo precettore lo obbligava a imparare da ragazzino, sotto la minaccia costante di allungare le mani su di lui.

'Andrai a Forlì – si disse, compiaciuto sempre di più, man mano che rivedeva davanti a sé le parole vergate in spesso inchiostro nero – o dove intendessi trovarsi quella illustrissima Madonna e la Eccellenza del Signor Ottaviano suo Primogenito, e poiché arai fatto reverenza alle Loro Eccellenze, e presentato le nostre Lettere di Credenza quale arai da noi, e in comune all'uno e all'altro, e di per se a ciascuno di essi, esporrai la causa dell'andata tua, mostrando essere stata perché più tempo fa gli agenti suoi hanno ricerco da noi il beneplacito di questo anno la condotta del Signor Ottaviano...'

 

Caterina aveva seguito Dionigi Naldi che, quella mattina, stava facendo la rassegna degli uomini che gli erano stati affidati.

Se fosse davvero arrivata una qualche proposta seria da Milano, la Tigre intendeva mandare lui, e non certo suo figlio Ottaviano, in difesa del Moro. Per quanto volesse sostenere il contrario, non sopportava di pensare il Ducato che era stato di suo padre in pericolo e, se le fosse stato concesso di fare qualcosa per difenderlo, l'avrebbe fatto.

Erano al quartiere militare e il sole di luglio le stava quasi togliendo la ragione. Fosse dipeso da lei, avrebbe chiuso all'istante la pratica, chiedendo a Naldi di fidarsi della sua parola e prendere a scatola chiusa i soldati che aveva deciso di affidargli, ma non voleva mortificarlo.

Giovanni da Casale era sulle mura della città a controllare, assieme a Simone Ridolfi, se vi fossero punti da ristrutturare o rafforzare. Era stata la Sforza a chiedergli di dividersi, quella mattina, perché non aveva voglia di passare tutto il giorno con lui. Era tesa e non voleva che il suo nervosismo li portasse a scontrarsi per qualche motivo sciocco.

“Bianca, cosa ci fai qui?” chiese alla figlia, quando se la vide arrivare accanto.

La ragazza, saputo che la madre era al Quartiere Militare, finite le compere in paese aveva deciso di raggiungerla. Con gli occhi fissi sui soldati che stavano marciando davanti a un compiaciuto Dionigi, la Riario scosse la testa, come a dirle che un motivo preciso non c'era.

La donna vide che la ragazza portava con sé un pacco, probabilmente stoffe prese al mercato, e la invitò a restare con lei fino alla fine della rassegna, se non aveva di meglio da fare.

In piedi l'una accanto all'altra, madre e figlia si persero per un po' a guardare gli armigeri eseguire gli ordini del loro nuovo comandante e si scambiarono dei brevissimi e sporadici commenti che, la Tigre non poté evitare di notare, spesso esulavano dalla fredda esibizione militare, andando a toccare la prestanza, piuttosto che il mero aspetto fisico di questo o quell'altro soldato.

“Non volevo dirvelo, ma...” cominciò Bianca, dopo un po', mentre agli uomini veniva concesso il permesso di rompere i ranghi: “Ieri sera, a cena, Galeazzo c'è rimasto molto male.”

“Per che cosa?” chiese Caterina, cercando di ricordare cosa potesse aver detto o fatto per urtarlo.

“Perché si era convinto che, in caso di bisogno, avreste mandato lui, a Milano e non Ottaviano.” le rispose la ragazza, mordendosi il labbro: “So che non ne avete colpa, ma credo che dovreste provare a parlargli.”

La Contessa puntò gli occhi verdi su Naldi, che si stava avvicinando a loro e, per chiudere in fretta la questione, le disse: “Vedrò. Se ne trovo il tempo...”

Ritirandosi in buon ordine, lasciando la madre libera di discutere con Dionigi di quel che doveva, la Riario fece una mezza riverenza e si allontanò.

Finito di discutere con il condottiero, la Leonessa lasciò il quartiere militare. Le parole di Bianca l'avevano colpita molto più di quanto non avesse creduto lei stessa.

Aveva il terrore, letteralmente il terrore, che si creasse una distanza incolmabile anche con Galeazzo. Aveva perso Ottaviano, molti anni prima, e subito dopo aveva perso anche Cesare.

Rischiava costantemente di perdere Bianca, e non aveva mai trovato un punto reale di contatto con Sforzino.

Bernardino era per lei un enigma, tanto complicato e doloroso da trovare sempre una scusa per non provare nemmeno a risolverlo.

Giovannino era ancora così piccolo e innocente, così puro, da spaventarla, a volte. E a spaventarla ancora di più, c'era la consapevolezza, sempre più concreta, di non avere il tempo di vederlo crescere.

Ma Galeazzo, lui non poteva perderlo. Era il figlio con cui aveva più cose in comune, l'unico che la capisse con un solo sguardo. Non poteva lasciare che una simile incomprensione facesse da leva, allontanandoli.

Così lo cercò, trovandolo sul mastio, intento a controllare le bocche da fuoco assieme al maestro d'armi: “Vieni con me. Usciamo a caccia.” gli disse.

“A quest'ora?” chiese il maestro d'armi che, come in altre occasioni, non era riuscito a zittirsi per tempo.

“È sempre l'ora giusta, per andare a caccia assieme a mio figlio.” lo liquidò la Sforza, posando una mano sulla spalla di Galeazzo che, ancora un po' risentito per la sera prima, sentiva comunque che da quella decisione della madre sarebbe arrivato qualcosa di buono.

“Fai sellare il mio stallone e prenditi un cavallo da guerra.” gli ordinò, mentre scendevano le scale a passo di marcia: “E prendi due spade e due scudi.”

“Anche la lancia per cinghiali e l'arco?” domandò il Riario, credendo in una dimenticanza della madre.

Caterina scosse piano il capo e rispose: “No. Per quello che ho in mente, non ci servono.”

 
 
   
 
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