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Autore: Adeia Di Elferas    07/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina e Galeazzo uscirono da Ravaldino a galoppo sostenuto. Filando dietro alla madre, senza fare domande, il ragazzo si trovò a spingere il proprio cavallo da guerra in una sorta di inseguimento nei boschi della riserva di caccia privata della Tigre.

Non fu facile, per lui, tenere a freno la propria bestia, mentre lo stallone cavalcato dalla Contessa si inerpicava agilmente sul terreno un po' scosceso o sgusciava tra le piante senza alcun problema.

Quando finalmente arrivarono alla radura protetta che la Leonessa stava cercando, fermarono i cavalli quasi all'improvviso, tanto che, per non far imbizzarrire il suo, il Riario fu costretto a tirare le redini con tanta forza da farsi quasi male alle mani.

Caterina scese di sella in fretta e andò a legare lo stallone a una pianta, aspettando che il figlio facesse altrettanto.

“Prendi le armi e gli scudi.” gli ordinò, cominciando a arrotolarsi le maniche dell'abito – il suo solito vestito da lavoro un po' rovinato – e schiacciando gli occhi contro il sole di luglio che illuminava il piccolo spiazzo erboso.

Galeazzo fece quel che gli era stato detto e poi, un po' titubante, porse una spada e uno scudo alla madre.

Questa ringraziò con un cenno del capo e poi, squadrandolo un istante, gli disse: “Levati il giubbone. Fa troppo caldo. Ti basta la camicia.”

Il ragazzino, che in effetti aveva già sudato parecchio durante la cavalcata, eseguì ancora una volta l'ordine, senza discutere e senza provare a opporsi. Era ubbidiente e molto solerte nell'eseguire gli ordini. Almeno da quel lato, stava pensando la Sforza, aveva il tratto giusto.

“Avanti. Fammi vedere cosa sai fare.” lo invitò, dopo essersi assicurata lo scudo, un grande pavese rettangolare, al braccio.

Il figlio, che invece si era tenuto uno scapezzato un po' rovinato su una delle punte, benché un po' sorpreso da quella proposta, si affrettò a prepararsi. Fu veloce, ma, malgrado ciò, fece appena in tempo a imbracciare lo scudo, prima di sentirlo vibrare per un fortissimo colpo inferto dalla spada da una mano e mezzo della Tigre.

Vacillò, riuscendo a non cadere per un soffio, ma ancor prima di recuperare del tutto l'equilibrio, si era abbatto su di lui un altro fendente e poi un altro ancora.

Non faceva nemmeno in tempo a sollevare la sua spada da lato, benché fosse più maneggevole e leggera di quella della madre, che subito la donna lo incalzava, cercando di farlo cadere e di fiaccarlo in ogni modo.

Ciò che lo stava mettendo più in difficoltà, spaventandolo tanto da togliergli il fiato in più occasioni, non era tanto la forza – notevole – e la rapidità – invidiabile – della Contessa, quanto il fatto che le armi che stavano usando fossero da battaglia e non da allenamento.

Avevano un filo pressoché perfetto. E loro erano senza armatura, e senza elmo. Solo lo scudo poteva proteggerli da un colpo troppo forte o troppo preciso. A ben pensarci, a Galeazzo parve un'autentica follia.

Con un ringhio, Caterina riuscì a gettare in terra il figlio che, nell'urto con il suolo, perse la presa sullo scudo, restando con solo la spada a fargli da difesa.

Rotolò per qualche metro, allontanandosi un po' da lei, per riprendere fiato. Mentre entrambi respiravano con forza, inalando l'odore forte e pieno della terra calda e dell'erba fresca, il Riario si chiese che cosa avesse davvero in mente sua madre.

Di contro, Caterina, si poteva dire abbastanza soddisfatta della prontezza del figlio, e, ancora di più, del fatto che non si fosse lamentato e non avesse provato nemmeno una volta a chiederle di smetterla o a domandarle spiegazioni per quell'aggressione improvvisa.

La donna non gettò il pavese, perché voleva provare la capacità del ragazzo dinnanzi a un nemico più equipaggiato di lui. Colmano la distanza tra loro con una brevissima corsa, la donna caricò il braccio e colpì.

Galeazzo sollevò la spada da lato all'ultimo, riuscendo a bloccare il fendente appena prima di vederselo calare in testa. Se non fosse riuscito a coordinarsi per tempo, sarebbe morto.

Sconvolto da quella consapevolezza, si mise a colpire a sua volta, mettendo, per qualche istante, in seria difficoltà la madre.

Durante un breve momento di stallo, la Contessa buttò finalmente lo scudo, ma solo per poter maneggiare meglio la sua spada da una mano e mezzo.

Combatterono per quasi un'ora, tra alti e bassi, e alla fine Caterina decise di non fargli più sconti.

Doveva ammettere con se stessa di essere orgogliosa dell'abilità dimostrata dal figlio. Non era elegantissimo nelle movenze, ma era astuto e intuitivo. Riusciva ad anticiparla spesso e stava dimostrando un'ottima tenuta sia fisica, sia mentale. Malgrado tutto, la Leonessa aveva anche cercato di non esagerare troppo. Quando l'aveva visto più in affanno, gli aveva dato il tempo di riprendersi e, a parte un paio di azzardi, non aveva mai cercato di fargli davvero del male. Però, per far sì che la sua iniziativa avesse l'esito sperato, doveva arrivare al punto di rottura.

Bloccando un suo calante alto, lo spinse indietro e, mentre il giovane tentava di restare in piedi, gli fece uno sgambetto, usando una tecnica poco nobile, ma che le aveva salvato la vita più di una volta, quando era scesa in battagli al fianco di Virginio Orsini.

Impattando violentemente con il suolo, Galeazzo sentì i polmoni svuotarsi di netto e la mano, aprirsi senza che lui potesse evitarlo. Cercò furiosamente la spada, a tentoni, gli occhi fissi sulla madre, ma il panico gli rese impossibile trovarla.

Prima che se ne rendesse conto, la lama della spada da una mano e mezza della Tigre si stava sollevando, stagliandosi contro il sole accecante. Fu certo, per un attimo fugace, che la sua vita stesse finendo. E invece, con una padronanza sconvolgente, la donna caricò il colpo, tagliò l'aria, ma frenò la lama in modo preciso non appena sfiorò la pelle chiara e imberbe della gola del figlio.

Chiudendo gli occhi e respirando affannosamente, un po' per la fatica e un po' per il terrore provato, il Riario si rilassò, le braccia allargate, l'erba sotto la schiena e il cielo azzurro sopra di sé.

La Sforza si asciugò il sudore dalla fronte, lanciò la sua spada lontana, come a indicare che la battaglia poteva dirsi davvero conclusa e poi, allungando un braccio e chinandosi un po', aiutò il figlio a rialzarsi.

“Perdonami se ti ho spaventato.” gli disse, posandogli le mani sulle spalle e notando, con fierezza, che non tremava: “So che ti sei spaventato tanto, ma dovevo fartela capire.”

“Perché non mi avete fatto indossare l'elmo o la corazza?” chiese il ragazzo, la voce ancora un po' spezzata, gli occhi verdi che cercavano quelli della madre.

“Perché in guerra capita di restare senza elmo e senza corazza. E così sguarnito, potresti trovarti dinnanzi uomini che pesano quattro volte te e alti il doppio di te.” rispose la donna, seria: “Io, in confronto, non sono nulla rispetto ai nemici che potresti dover affrontare.”

Il Riario chinò il capo, un po' mortificato, mentre cominciava a capire il senso più profondo di quell'uscita nei boschi.

“Sei bravo, molto più di tanti, decisamente molto più di quanto non fossi io alla tua età, ma sei ancora troppo giovane – riprese Caterina, sempre tenendo le mani sulle spalle larghe, ma ancora inesperte, del figlio – hai bisogno di addestrarti ancora, di crescere, di vivere. Di farti le braccia più forti e le gambe più svelte. Se ti mandassi a difendere Milano adesso, non sarebbe una condotta tranquilla, ma un autentico disastro.”

Galeazzo aveva stretto le labbra, ferito nell'orgoglio, malgrado gli iniziali complimenti della Tigre.

Si sentiva piccolo e insignificante. Avrebbe voluto essere già un uomo adulto, forte e capace, per difendere sua madre, i suoi fratelli e il suo Stato. E invece si trovava a essere solo un ragazzino incapace di valutare oggettivamente le proprie forze.

Ricordava ancora, come un monito, la promessa che aveva fatto a Giovanni Medici, l'ultima volta che l'aveva visto. Ricordava di come gli avesse promesso di difendere sua madre, di proteggerla, di combattere per lei e di non abbassare mai la guardia. Di esserle utile. Non sentirsi all'altezza di quella promessa, lo faceva vergognare.

“Farai quattordici anni a dicembre.” sospirò la Sforza: “Anche se sei bravo, quattordici anni sono ancora troppo pochi, per andare in guerra. Ti ucciderebbero subito, e io non voglio. Ti voglio troppo bene, per rischiare così tanto.”

Quella dichiarazione ebbe un effetto strano su Galeazzo. Fu come se tutta la stanchezza e la tensione accumulate si frantumassero in un soffio. Vedendo gli occhi del figlio inumidirsi di lacrime, la Contessa lo strinse a sé in un abbraccio protettivo e materno.

“Ti voglio bene, Galeazzo – ribadì, premendo la testa del ragazzino contro la propria spalla – sei il mio orgoglio e non voglio che ti ammazzino solo perché non sono stata capace di aspettare il momento giusto per mandarti in battaglia.”

Il Riario tirò su con il naso, e poi, irrigidendosi un po' nella stretta della madre, disse, piano: “Io voglio solo esservi d'aiuto.”

Caterina lo scostò un po' da sé e, sistemandogli un po' i capelli castani che si erano arruffati nella furia dello scontro prima e nell'intensità dell'abbraccio poi, gli assicurò: “Tu mi sei molto d'aiuto e so che lo sarai sempre.”

Arrivando finalmente a liberarlo dalla sua stretta, la donna si mise a raccogliere le armi e gli scudi e gli fece segno di seguirla verso i cavalli.

“E poi – fece, quasi con tono casuale – a Milano non ci mando nemmeno Ottaviano. Ma non dirlo, a tuo fratello. Lascialo crogiolarsi un po' nella paura...”

Galeazzo si accigliò, e poi annuì, intimamente felice di saper sfumato il rischio di vedersi adombrare dal fratello maggiore, per quanto sapesse che durante la campagna contro Venezia, non avesse fatto molto, per farsi apprezzare come soldato.

“Che dici, ci troviamo qualcosa da mangiare? Combattere mette fame...” sospirò la Leonessa, abbozzando un sorriso.

“Sì, combattere mette fame...” convenne il ragazzino.

La madre fu tentata di fare una battutaccia, dicendo che usare le armi metteva tanti tipi di fame, non solo quella dello stomaco, ma preferì lasciar perdere. In fondo Galeazzo era ancora un tredicenne timido, almeno dal punto di vista sentimentale, e non voleva certo metterlo in imbarazzo senza motivo.

“Alla Casina dovrebbero esserci dei salamini...” pensò ad alta voce la donna: “E del vino. Almeno, lo spero. Avevo dato ordine di rifornirla, in caso ne avessi avuto bisogno...”

“Altrimenti cacceremo qualcosa.” propose il figlio, rimontando in sella a tempo con la madre.

Con un sorriso compiaciuto, la Sforza esclamò: “Si vede proprio che sei mio figlio!”

 

“Insomma, almeno questa volta mi darai ragione anche tu, voglio sperare...” disse piano Francesco Gonzaga: “Hanno un bel da fare a dirmi che io sono un traditore... Sono loro, quelli che non mi pagavano! Non mi sarei mai messo in contatto con Venezia, se no...”

“Sono vere le voci su Gian Giacomo da Trivulzio?” chiese Isabella, senza guardarlo.

Il Marchese annuì, passandosi nervosamente una mano sul labbro superiore umido di sudore: “Sì, sì che sono vere... Ha convinto il re a schierarsi con Venezia! Dio solo sa cosa continua a sussurrare nelle orecchie di Luigi! Dicono che l'abbia anche convinto a tenersi stretto quel... Come si chiama...”

“Troilo dei Rossi, quello di San Secondo? Il Diseredato?” gli giunse in aiuto la moglie, che, in effetti, aveva sentito parlare di quel dettaglio perfino da una delle sue dame di compagnia.

Si trattava di una cosa abbastanza strana, calcolando che il Rossi non aveva terre, non aveva fondi, né uomini e per quanto riguardava le sue capacità, si potevano solo fare supposizioni, dato che a quasi quarant'anni non si era ancora fatto un nome degno di fama.

“Sì, proprio lui. E Luigi sta dando loro in mano il grosso dell'esercito!” esclamò il Gonzaga, trovando quella decisione assurda, ma potenzialmente geniale.

“Gian Giacomo ha promesso al re di conquistare l'intera Lombardia in tre mesi.” fece notare l'Este, dimostrandosi, come sempre, informata almeno quanto il marito, se non un filino di più: “Anche io, al suo posto, gli avrei affidato l'esercito.”

“L'Aubigny e Ligny sono i suoi secondi, comunque.” soggiunse Francesco: “Milleseicento lance, cinquemila svizzeri, quattromila guasconi e quattromila fanti francesi. Non so se mi spiego...”

“Sono stati questi numeri a farti venire voglia di contattare i francesi?” chiese Isabella, quasi con distacco.

Trovava riprovevole la facilità con cui suo marito voltava faccia a chi fino al giorno prima gli aveva teso una mano e riempito il piatto. Tuttavia, malgrado quella virata significasse abbandonare il Moro, non se la sentiva di dargli tutti i torti.

Nel frattempo, Francesco era passato senza soluzione di continuità dal parlare di politica e guerra al chiederle la possibilità di riavvicinarsi a lei. Non stava trattando alcun argomento nuovo, anzi, non faceva che ripeterle quanto sarebbe stato importante un erede, anche in vista di quel nuovo conflitto e ogni frase che esponeva aveva il sapore di una minestra riscaldata.

L'Este restava con la penna a mezz'aria, la lettera che stava scrivendo ormai abbandonata da un po', e fingeva di non voler dare peso alle parole del marito, quando, invece le sue orecchie erano completamente tese per carpire ogni minima sfumatura della sua voce.

“Lo so che ho fatto molti sbagli.” fece lui a un certo punto, senza osare sollevare lo sguardo verso di lei: “E so che anche tu ne hai fatti.”

Gli occhi vivi di Isabella, nel sentire quella chiara accusa, saettarono verso il brutto viso del marito e, con un gesto stizzito, lasciò finalmente la penna sulla scrivania, alzandosi per fronteggiarlo meglio.

“Ma come io non ti chiederò mai più, mai più, dei tuoi sbagli – andò avanti il Gonzaga, trovando un coraggio che negli ultimi mesi aveva spesso vacillato tanto da renderlo muto dinnanzi alla Marchesa – così io spero che tu farai con i miei.”

L'uomo mosse un paio di passi verso Isabella, con la cautela di chi si avvicina a una belva feroce, e poi, allungando una mano callosa verso il suo viso pieno e roseo, sospirò.

“Il momento non è facile. E un erede ci serve. Questa volta davvero, o a guerra finita, vincitori o vinti, il nostro Stato verrà mangiato dal re di Francia, questo lo capisci molto meglio di me.” fu l'ultima arringa di Francesco.

Contrariamente a come aveva sempre fatto negli ultimi mesi, l'Este tenne per sé l'acida risposta che aveva elaborato – ovvero che se il momento non era facile, la colpa era quasi per intero sua e della sua incapacità politica – lasciò che le dita disarmoniche del marito le sfiorassero la guancia e poi le labbra. Sapeva che lui aveva ragione e, per di più, ormai nemmeno lei sapeva più resistere alla forza che la spingeva verso di lui.

Aveva fatto la sostenuta, aveva cercato di punirlo, l'aveva tenuto a distanza, ma di fatto, quando scendeva la sera, era solo lui che desiderava. Anche se si era circondata di letterati di bell'aspetto, come Pietro Bembo, era il suo Francesco, l'unico uomo che aveva sempre in mente.

Il Marchese si chinò un po' su di lei e, quasi con timidezza, le diede un bacio. Quel gesto le ricordò il goffo bacio che l'uomo le aveva dato l'ultima volta che si erano incontrati, prima della separazione che aveva preceduto il loro matrimonio.

Vinta su ogni fronte, l'Este lo strinse a sé e, capendo che ormai non sarebbe più riuscita a dirgli di no, gli sussurrò: “Non parleremo più del passato, sono d'accordo anche io, ma sappi che questa volta non ti perdonerò altri errori.”

 

Caterina aveva riattizzato il fuoco un paio di volte, ma, per fortuna, alla Casina non faceva caldo.

Le pareti abbastanza spesse sembravano in grado di lasciare fuori l'afa di quella giornata, permettendo a madre e figlio di godersi un momento di ristoro al fresco.

“Hai già scuoiato i conigli?” chiese la donna, voltandosi per controllare l'operato di Galeazzo.

Questi, con il pugnale che gli era stato regalato una volta da Giovanni Medici, stava finendo di ripulire uno dei due conigli che avevano cacciato poco prima. Se li erano trovati davanti quando ormai si erano convinti di non riuscire più a trovare nemmeno mezza preda e così, giocando d'astuzia, erano riusciti a catturarli con una trappola ideata proprio dal Riario.

La Sforza, che a caccia era stata sempre molto più tradizionale, era rimasta stupita dalla prontezza del figlio nel congegnare un simile marchingegno usando solo qualche ramo e il suo giubbone. Il risultato, poi, era stato fantastico: due conigli da fare arrosto per accompagnare il salame e il vino nero.

Messa sul fuoco la carne, la Tigre versò da bere per entrambi e poi porse un calice bello pieno al suo erede.

Questi l'accettò, ma poi, dopo aver brindato con lui, sorbì appena un sorso, bagnandosi a stento le labbra. La Contessa sapeva che quel figlio – a differenza di Ottaviano – non sembrava avere il palato molto avvezzo al vino. Da un lato era un bene, però quella volta voleva festeggiare con lui.

“Avanti... Avrai una vita intera per bere acqua. Voglio bere assieme a te, oggi, per congratularmi della tua bravura con le armi e con le trappole.” fece la donna, indicando con un cenno del capo i conigli che si abbrustolivano.

Incoraggiato da quell'affermazione, il ragazzino bevve un sorso un po' più consistente, sentendo la gola bruciare e lo stomaco scaldarsi.

Quando ebbero finito quella sorte di merenda che, per orario, assomigliava più a una piccola cena, entrambi i calici erano stati vuotati tre volte per parte.

Erano seduti sul bordo del lettuccio che campeggiava in mezzo all'ambiente unico della Casina, e, forse un po' per colpa del vino, Galeazzo si trovò a ragionare parecchio su cosa fosse quel posto per la madre.

“Con messer Giovanni venivate qui.” era una semplice affermazione.

La Leonessa annuì appena e, versandosi ancora un goccio, si voltò un istante verso la testata del letto, come a controllare che fosse ancora lì. Aveva alcuni dei suoi ricordi più belli, legati a quella casetta. Era stato come ritrovare il Paradiso, dopo averlo perso senza preavviso.

“E ci passavate anche la notte, a volte.” proseguì il ragazzino, asciugandosi il lato della bocca con il dorso della mano.

Il sapore forte del vino nero gli impastava un po' i sensi, facendolo incespicare con le parole, ma, paradossalmente, la sua mente era lucidissima.

“Sì, ci passavamo anche la notte.” confermò Caterina, con la voce un po' arrochita.

“Ci avete mai portato altri uomini?” chiese il Riario, sperando di non aver osato troppo.

“No.” fu la risposta pronta e sincera della madre: “Non potrei mai.”

“Mi manca, messer Giovanni.” sussurrò Galeazzo tenendo il calice vuoto tra le mani come se potesse trovarvi conforto.

“Manca anche a me.” fece eco la Sforza.

Passarono minuti infiniti durante i quali entrambi si persero a ripensare al Medici, l'una rivedendo il Giovanni marito e l'altro rivedendo il Giovanni padre, perché tale era stato, per Galeazzo.

Alla fine, per non cedere troppo alla malinconia, la Contessa diede un colpetto sulla spalla al figlio e, alzandosi per spegnere il fuoco, disse: “Avanti... Sta facendo buio. Andiamo a prendere i cavalli e torniamo alla rocca. Non voglio che si preoccupino per noi. Scommetto che tua sorella sarà già preda dell'ansia, nel non vederci tornare...”

 

Bianca si stava preoccupando un po', per l'assenza della madre e di Galeazzo. Erano partiti dalla rocca all'improvviso, lasciando detto solo che sarebbero stati nei boschi a cacciare, ma di fatto stava già scendendo la sera e di loro non c'era alcuna traccia.

Per ingannare un po' l'ansia – che sperava essere immotivata – la giovane Riario si era messa a ricamare seduta su una della panche di pietra del corridoio. Da qual punto, avrebbe subito visto la madre arrivare al piano superiore.

Distratta da un punto abbastanza difficile, reso ancora più ostico dalla luce fluttuante delle torce, la ragazza non si accorse che dalle scale stava arrivando qualcuno.

“Madonna Bianca...” la salutò la voce di Dionigi Naldi, mentre le si avvicinava, probabilmente diretto verso le stanze della Tigre: “Vostra madre è rientrata? Ho urgenza di parlarle...”

La Riario scosse il capo e, lasciando un momento il suo lavoro di ricamo sulla panca, si alzò e chiese: “Cosa vi serve? Magari posso aiutarvi.”

Il condottiero parve pensarci un istante e poi scosse il capo, spiegando: “Sapete, vostra madre vuole farmi partire per Milano. Non me l'ha detto apertamente, ma so che al massimo nel giro di un paio di giorni mi dirà che è tempo di partire. Volevo farle alcune domande circa l'artiglieria che mi sarà concesso di portare.”

Nel sentire ciò, la figlia della Contessa deglutì e poi, facendosi più seria, chiese: “Vi manderà a Milano a difendere il Duca dai francesi o dai veneziani?”

Naldi sapeva che Bianca era una giovane donna molto sveglia. Non era sfacciata come sua madre, né altrettanto imponente – né come avvenenza, né come personalità – e non aveva nemmeno la sua propensione ad alzare la voce e farsi ubbidire. Tuttavia aveva un'intelligenza viva e non trascurabile e bastava poco per rendersi conto di quanto fosse coinvolta negli affari che riguardavano la sua famiglia e il suo Stato.

“Temo i francesi, madonna.” rispose lui, giungendo le mani dietro la schiena.

La Riario annuì appena e poi sospirò: “Mia madre è uscita a caccia assieme a mio fratello Galeazzo. Non so dire quando tornerà.”

“Non importa.” fece Dionigi, con un cenno del capo, quasi a scusarsi per quel disturbo.

“Naldi...” lo richiamò Bianca, mentre l'uomo già voltava i tacchi: “Posso farvi una domanda?”

Il soldato rimase a distanza, interrogativo. Non sapeva dire cosa potesse chiedergli una diciottenne com'era la Riario. Anche se era addentro alle questioni di Stato, dubitava che volesse approfondire il discorso bellico o, ancor meno, quello militare.

E, infatti, l'argomento sollevato dalla ragazza c'entrava solo in parte con il difficile quadro politico e guerresco dell'Italia di quell'infuocato luglio.

“La mano che è stata appesa alla porta cittadina – chiese Bianca, dopo una breve esitazione – di chi è?”

Dionigi si schiarì la voce, guardando in terra e poi rispose, sperando che la figlia della Tigre almeno sapesse di chi stava parlando, senza doverle raccontare l'intera faccenda: “Di Galeotto Bosi.”

“Ah.” fu il solo commento della Riario, ma, da come lo disse, a Naldi fu chiaro che la giovane sapesse esattamente a chi appartenesse quel nome.

“Abbiamo ucciso anche Carlo Bosi, ma il suo corpo non era trasportabile.” proseguì il condottiero, ben deciso a non dare spiegazioni in merito al modo orrendo in cui quell'altro congiurato aveva trovato la morte.

“E quindi la vendetta di mia madre si chiude così?” quella domanda uscì dalle labbra di Bianca con un'aggressività che spiazzò Dionigi.

Gli occhi blu della ragazza si erano improvvisamente accesi, come illuminati da uno strano risentimento. Il condottiero non poteva immaginare che ceneri stessero covando nel cuore della sua interlocutrice.

La Riario aveva confidato per tutto quel tempo di vedere la madre vendicare in modo completo e feroce la morte di Manfredi. Se non nel modo cruento e disumano con cui aveva punito gli assassini di Giacomo Feo, almeno con la giusta e fredda scure che aveva calato sui colpevoli della morte del suo primo marito.

E invece sembrava aver perso ogni interesse nel cercare giustizia. Morti Galeotto e Carlo Bosi, inchiodata una mano a una porta, aveva deciso che non ci fosse altro sangue da versare per quell'uomo che – inutile negarlo – avevano amato entrambe.

“E che altro dovrebbe fare, vostra madre, secondo voi?” chiese Naldi, il viso così scuro da farle quasi paura: “Andare a Bologna e ammazzare con le sue mani Giovanni e Annibale Bentivoglio? O presentarsi a Faenza per sgozzare Astorre e tutti i Manfredi rimasti? O, ancora meglio, correre a Firenze a tagliare la gola a Lorenzo Medici?”

Quell'elenco, quasi sputatole addosso dal condottiero, la fece riflettere più di qualsiasi altra cosa.

Era vero: non potevano avere una vendetta piena. Cercarla, sarebbe equivalso a fare guerra a mezza Italia.

“Il vostro Ottaviano è stato vendicato, per quello che abbiamo potuto.” riprese Dionigi, a voce molto più bassa, convinto, a quel punto, che la donna che avesse di fronte fosse solo una ragazzina addolorata per la morte di un promesso sposo che, probabilmente, non sarebbe mai stato suo comunque: “Pregate per lui. È l'unica cosa che possa servirgli, ormai.”

Mentre gli occhi blu scuri di Bianca si riempivano di riottose lacrime, il soldato si voltò di scatto nel sentire dei passi e, quando riconobbe la Tigre, seguita a stretta distanza dal figlio Galeazzo, le disse: “Vi stavo cercando...”

Caterina, un'occhiata di sfuggita alla figlia, che se ne stava immobile vicino a una delle panche di pietra, congedò Galeazzo e poi seguì Naldi si nuovo al piano di sotto: “Ditemi tutto...”

“Dove siete stati?” chiese Bianca, con un filo di voce, rivolgendosi al fratello, che, vedendola affranta, le si era avvicinata.

“A caccia...” rispose lui, vago.

Senza dargli spiegazioni, per cercare di lenire il vuoto che sentiva dentro di sé, la Riario abbracciò con forza il fratello e, non badando alla sua reazione un po' fredda, gli disse: “Ti prego, Galeazzo, promettimi che saremo sempre uniti, che ci difenderemo sempre l'un l'altro.”

“Sì, lo prometto.” fece subito lui, rinverdendo, in fondo, la medesima promessa fatta anche a sua madre, mentre erano nei boschi a tirare di spada.

 

 
 
   
 
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