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Autore: Adeia Di Elferas    10/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Non vedo che altro ti trattenga qui, allora.” aveva detto Caterina, con astio, dopo l'ennesima stoccata gratuita di Chiara: “Se tu e tuo marito avete davvero sistemato tutto, tornatene da lui e dai tuoi figli. Avrai i soldi di nostro zio e ci scommetto che avrai presto anche i soldi del papa.”

L'altra Sforza aveva abbandonato il libro che stava leggiucchiando e, fissando la sorella con aria scandalizzata, aveva ribattuto: “Non mi starai accusando di fare il doppio gioco!”

“Io so solo – aveva tagliato corto la Tigre, alzandosi dalla poltrona e stringendo al petto Giovannino con maggior forza, più per bloccare sul nascere le lacrime di agitazione che gli stavano bagnando gli occhi che non per altro – che tuo marito ha chiesto una condotta al papa e che il papa vuole le mie terre. So solo che in queste settimane hai imparato a conoscere questa rocca e hai visto e sentito anche troppo. So solo che mi sono tirata in casa una potenziale spia!”

“Sono tua sorella!” aveva cercato di recuperare Chiara.

“Ti prego, vattene appena ti sarà possibile.” era stata l'ultima richiesta della Leonessa, mentre raggiungeva la porta.

Rabbiosa, aveva riportato il figlio più piccolo alle balie e poi, passando dalle cucine per prendere qualcosa da mangiare e da bere da portarsi in camera, aveva deciso di ritirarsi già per la notte.

Ciò che l'aveva adirata di più di quel breve colloquio era stata la certezza – le spie dell'Oliva che aveva infiltrato a Roma ne erano sicurissime – che Fregosino Fregoso avesse già accettato la condotta di Alessandro VI e fosse pronto per correre in aiuto dei francesi. Sapere quello che stava accadendo nell'Urbe le aveva permesso di smascherare Chiara, che, invece, aveva passato tutto il tempo a dire che non sapeva che cosa stesse facendo il marito, ma che, con buona probabilità, ricevendo i soldi del Moro, non avrebbe nemmeno provato ad avvicinarsi al pontefice.

E pensare che giusto il giorno prima si era prodigata per scrivere proprio a Ludovico una lettera accorata in cui prendeva le difese di Chiara, descrivendola come bisognosa di tutto quanto, anzi proprio 'deperata per mancarli il modo del vivere'. L'aveva fatto sperando di indurre lo zio ad accordarle un beneficio di una certa importanza, ma adesso ne era pentita.

Nel tragitto che la portò dalle cucine alla propria stanza, rimuginò su come muoversi e, arrivata alla porta, la voglia di ritrattare tutto con il Duca era svanita e il suo astio si era spostato su un altro fronte.

Aprendo, trovò Giovanni da Casale seduto alla sua scrivania, intento a vergare una lettera. L'uomo la salutò con un cenno del capo, ma andò avanti a scrivere come nulla fosse.

Caterina, allora, posò vino e cibo sul mobile e poi, senza pensarci troppo, gli disse: “Alzati, fammi spazio.”

“Un attimo, sto scrivendo a...” prese a dire lui, ma la donna incombeva alle sue spalle, minacciosa.

“Ti ho detto di levarti di mezzo. Mi serve la scrivania.” insistette lei.

“Ma...” provò in extremis Pirovano, ben sapendo che non l'avrebbe comunque avuta vinta.

“Questa è casa mia. È già tanto se ti lascio dormire nel mio letto.” gli ricordò la Tigre, troppo nervosa e troppo stanca per perdere tempo a cercare di essere gentile: “Alzati e lasciami la scrivania.”

“È un ordine?” domandò a quel punto il milanese, piccato.

“Sì, è un ordine.” annuì la Contessa.

Con uno sbuffo, Giovanni prese i suoi fogli e, borbottando qualcosa tra sé, non solo lasciò la scrivania, ma addirittura la stanza.

“Non disturbarti a tornare, stanotte, se ti dà così fastidio ubbidire a chi ti paga il salario!” gli gridò dietro Caterina, pur sperando che quella frecciata, che proprio non era riuscita a trattenere, cadesse inascoltata.

Non perdendo altro tempo, la donna si mise al suo posto e, prendo il primo foglio, decise di cominciare dalla lettera più difficile: quella diretta alla Signoria.

Usando toni abbastanza pacati, scrisse una missiva molto formale e precisa in cui spiegava che Milano le aveva chiesto con urgenza un buon numero di soldati, nonché suo figlio Ottaviano in qualità di comandante. Per questo motivo si permetteva di chiedere direttamente alla Signoria se intendesse trattenere il suo primogenito e la sua compagnia per un altro anno.

Con quella lettera, sperava, avrebbe messo fretta al governo fiorentino e avrebbe lasciato intendere due cose importanti. La prima: che lei e suo zio erano ancora in ottimi rapporti, tanto da essere costantemente in contatto e pronti ad aiutarsi all'istante in caso di bisogno. La seconda: che la sua fedeltà verso Firenze era tanto profonda da essere disposta a cedere Ottaviano alla Signoria, anche se per un prezzo e un prestigio inferiore rispetto a quelli garantiti da Milano, se solo la Signoria avesse voluto.

Erano entrambe due grosse fandonie, ma la politica – Cicco Simonetta su questo era stato un maestro insostituibile – era fatta anche e soprattutto di inganni e storpiature della realtà.

Terminato il messaggio, la donna si alzò un momento. Camminò per qualche istante per la camera, gli occhi costantemente attratti dal letto sfatto e da alcuni vestiti di Pirovano che ingombravano l'inginocchiatoio e la superficie della cassapanca. Argentina non era passata a riordinare, quel pomeriggio e così i segni del fugace incontro tra i due amanti erano rimasti lì in bella mostra.

Caterina sospirò, l'immagine vivida del milanese davanti a sé. Non voleva pensare al modo in cui l'aveva praticamente cacciato da lì. Avrebbe dovuto ricordarsi che l'uomo che aveva davanti non era paziente e conciliante quanto lo era stato il Medici, né dipendente da lei quanto lo era stato Giacomo. Se i due uomini che aveva amato più di se stessa erano legati a lei tanto strettamente da permetterle di indulgere nelle sue intemperanze e nelle sue puntate di aggressività, Giovanni da Casale no, non le era così vicino e lo poteva perdere, anche per molto poco.

Prese il vino e bevve un po', mandando giù un paio di pezzi di formaggio. Solo quando la sua mente riuscì a ricacciare in un angolo il pensiero di Pirovano, tornò alla scrivania.

Intinse la punta della penna nell'inchiostro nero e, con un'espirazione molto fonda, cominciò a scrivere una missiva diretta a suo cognato Lorenzo.

Il tono era molto più diretto, rispetto a quello usato con la Signoria, ma il contenuto era analogo.

Lo mise a parte della richiesta del Moro, che voleva da lei almeno cinquanta armigeri e cinquanta balestrieri a cavallo 'accadendo che per queste cose de' Francesi ne havessi biosgno', ma sottolineò come fosse parimenti obbligata moralmente a fornire uomini e armi a Firenze. Chiedeva quindi direttamente al Popolano di farle sapere come dovesse gestire quella situazione, fermo restando che uno Stato piccolo come il suo non poteva permettersi di fornire mercenari per mezza Italia.

Chiuse la dissertazione augurandosi una sua 'pronta et determinata resposta' e cominciò subito a raccogliere le idee per l'ultimo messaggio, quello che andava scritto in modo più criptico e allo stesso tempo più chiaro possibile.

Indirizzando il suo scritto a Francesco Fortunati, gli fece sapere che aveva scritto a Lorenzo e, in poche, precise frasi, cercò di fargli capire il motivo della sua decisione di fargli pressione a quel modo.

Gli chiese, poi, di sollecitarlo: 'onde essa habia quanto più presto se può resoluta resposta'.

Avrebbe voluto approfittare di quella pagina per ringraziare il fiorentino di quello che stava facendo per lei presso suor Elena, la badessa delle monache Murate, ma non era dell'umore giusto per perdersi in parole di riconoscenza.

Anche se riconosceva il buon cuore di Fortunati e la sua disinteressata amicizia, non poteva smettere di ricordarsi che lui c'era, quando Manfredi era morto. Confidava che con il tempo quella sensazione le passasse, ma per il momento ogni qual volta Francesco le tornava in mente, lo immaginava immobile e inutile davanti al cadavere di Ottaviano, incapace perfino di seguire le spoglie fino a Forlì, troppo spaventato per affrontare l'eventuale ira di una donna che lui stesso diceva sua amica.

Forse, pensava a volte Caterina, in un lampo di amarezza, si stava prodigando tanto a lavorarsi a quel modo la badessa solo per lenire il senso di colpa che di certo provava.

Chiudendo anche la terza lettera, la Contessa sospirò e guardò verso la finestra. C'era già buio, ma non era tardi. I campanili non avevano ancora suonato le dieci di sera.

Tornò ai viveri e al vino che si era presa nelle cucine e in meno di un quarto d'ora non lasciò che qualche briciola e una caraffa vuota.

Si coricò, convinta che ormai Giovanni da Casale non sarebbe tornato più, almeno per quella sera.

Si addormentò abbastanza in fretta, stremata da una giornata che era iniziata prima dell'alba e che non le aveva dato un attimo di tregua fino al tramonto. Si risvegliò nel cuore della notte, per colpa di un vivido incubo che l'aveva riportata al ponte dei Moratini, spettatrice impotente del massacro del suo Giacomo.

Con il fiato mozzo e la camicia da notte madida di sudore, si mise a sedere sul letto e proprio in quel mentre sentì dei rumori alla porta. L'aveva lasciata aperta, in uno slancio di ottimismo, ma in quel momento si trovò a pensare che quella fosse stata solo una pericolosa leggerezza.

Afferrò subito il pugnale lasciato accanto al letto, sopra ai suoi abiti e si avvicinò all'uscio. Quando la porta si aprì di scatto, seppur sempre abbastanza silenziosamente, trattenne il braccio appena in tempo.

“Non sono un pericolo, io.” disse Pirovano, sollevando le braccia, sorpreso nel trovarla sveglia e armata.

Felice di vederselo davanti, per quanto fosse chiaro che non fosse di buon umore, la Tigre gli saltò al collo, il coltello ancora in mano, e lo baciò.

Giovanni la indusse a lasciare in terra il pugnale e poi, come se nemmeno lui potesse far nulla per vincere quell'attrazione fatale che provava per lei, le tolse la camicia da notte umida e lasciò che lei facesse altrettanto con i suoi abiti che puzzavano di osteria.

“Ho fatto bene a tornare?” le chiese, mentre la faceva indietreggiare verso il letto.

“Sì, hai fatto bene.” confermò lei, consolata dall'averlo visto tornare di sua spontanea volontà, malgrado tutto.

 

Giova Francesco da Sanserverino allungò i piedi sotto al tavolo e, allungando una mano verso il pezzo di pane nero che aveva avanzato, si lasciò andare a uno sbadiglio.

Era quasi l'alba, e non aveva chiuso occhio. Stava studiando la mappa che aveva davanti fin dalla sera prima. Non si era nemmeno concesso di mangiare assieme ai suoi soldati.

Passò la punta dell'indice sulla scritta che indicava la città Piacenza e si chiese come avrebbe fatto a proteggere un territorio che andava dalla città emiliana fino a Robecco d'Oglio. Aveva fatto riempire le fortezze di scorte di cibo, ma a ragionare così, avrebbero finito tutti a fare la fine del topo in trappola.

Deglutì l'ultimo boccone di pane e poi sui alzò dalla scrivania, ben conscio che sarebbe stato inutile rimuginare ancora.

Andò alla finestra, piccola e stretta, e guardò fuori. Soncino si stagliava alla sua vista come un vecchio addormentato alla luce della luna. Quel giorno aveva passato in rassegna i milleduecento provvigionati che gli erano stati e, per quanto fosse stato di manica larga, ne aveva selezionati appena settecento.

“Ho dovuto scegliere quelli che almeno riescono a correre e a tenere in mano una spada..!” aveva detto, quando il messo milanese gli aveva chiesto come mai ne avesse presi così pochi.

Passandosi una mano sul volto, domandandosi come avrebbero potuto affrontare i francesi in quel modo, il Sanseverino si mise a ragionare su suo fratello.

Aveva cercato in tutti i modi di dissuadere Galeazzo dall'accettare la carica di Capitano Generale, ma egli non aveva voluto sentire ragioni. A renderlo ancora più ostinato era stato il consiglio di Francesco Gonzaga, che l'ultima volta che l'aveva visto gli aveva detto di non accettare nessuna proposta dal Moro. Il tradimento del Marchese di Mantova aveva fatto sì che l'ambizioso Sanseverino leggesse quelle parole come un tentativo di farlo sbagliare e così aveva fatto esattamente il contrario di quanto suggerito dal mantovano.

Da un lato era vero che lo Sforza si stava dimostrando benevolo, con tutti loro, però Giovan Francesco trovava quanto meno azzardato accettare una carica tanto importante. In caso di – quasi sicura – disfatta, sarebbe stato certo il Capitano Generale, quello che l'avrebbe pagata di più.

Ludovico si era dimostrato magnanimo perfino con Gaspare, ridandogli il castello di Piadena in pianta stabile e concedendogli una condotta abbastanza vantaggiosa, soprattutto calcolando quanto poco potesse offrire il povero Fracassa, non ancora del tutto rimesso dal suo assurdo incidente occorso a Ferrara, mentre presenziava a un torneo.

Malgrado tutto, però, era come se tutte quelle concessioni, tutti quei falsi sorrisi fatti a tutti loro Sanseverino non fossero altro che un estremo tentativo del Duca di non affondare, come se, in tutta Italia, fossero rimasti solo loro e pochissimi altri disposti a tendergli una cima per trascinarlo a riva e salvarlo dalla tempesta.

La loro era una cima abbastanza robusta, ma se si fossero trovati con le mani legate alla corda in modo troppo stretto, quando la burrasca avesse trascinato Ludovico a fondo, loro si sarebbero inabissati con lui, senza avere il tempo e il modo di mollare la presa e salvarsi.

Giovan Francesco si mise a fare due conti, conti che aveva già fatto e rifatto centinaia di volte e non vi trovò nulla di nuovo.

“Millecinquecento lance, millecinquecento cavalleggeri, cinquemila fanti, di cui ben cinquecento tedeschi – cominciò a elencare tra sé, a voce bassa e cadenzata – ma si troverà contro milleseicento lance, cinquemila svizzeri, quattromila guasconi, quattromila fanti, centotrenta cannoni e i veneziani tengono pronti duemila cavalleggeri, milleduecento lance e ottomila fanti.”

Nel petto del Sanseverino si agitava un'ansia profonda e incontrollabile. La cosa che più lo faceva arrabbiare era la precisione di calcolo permessa dai sopralluoghi sul confine. Il Moro sapeva quanti fossero i loro nemici e quanto bene fossero armati, eppure che cosa faceva? Mandava avanti dei mezzi pezzenti, sperando che qualche centinaio di tedeschi potesse bilanciare una fiumana di contadini che impugnavano per la prima volta una picca.

“E a me rifilano questi settecento impediti...” scosse il capo tra sé Giovan Francesco.

“Mio signore – il suo attendente era entrato senza annunciarsi, ma il Sanseverino non se la prese per quella libertà – gli uomini chiedono tra quanto partiremo.”

Il comandante alzò gli occhi a scrutare il cielo. Stava schiarendo. D'estate il mattino arrivava presto e la sera si presentava tardi. Le guerre si facevano in luglio anche per quello.

“Partiamo tra un'ora.” decise alla fine, sicuro che, comunque, non sarebbe riuscito a riposare: “E fate in modo che i settecento provvigionati che ci hanno affidato siano pronti prima degli altri, voglio fare loro un discorso, prima di metterci in strada.”

 

Caterina annuì e poi, dando uno sguardo un po' distratto alle bocche da fuoco delle quali, alla fine, aveva deciso di non separarsi, disse: “Se partirete subito, arriverete a destinazione in tempo utile.”

Naldi annuì appena e poi, ripensando un attimo al lungo dialogo avuto con la Tigre quella mattina, le chiese, schietto: “Dobbiamo fare il minimo indispensabile, vero? Senza metterci in mezzo, a meno che non sia strettamente necessario.”

“Esattamente.” convenne la donna: “Non dovete fare gli eroi per mio zio. Né sprecare uomini. Vi mando solo per dimostrare la nostra buona volontà.”

Giovanni da Casale, alle spalle di Dionigi e della Sforza, ascoltava in silenzio, le braccia incrociate sul petto e un'espressione difficile da decifrare in volto.

“Vado a preparare le ultime cose e saremo pronti per partire prima di mezzogiorno.” si congedò Naldi, non trovando altre cose da domandare alla Tigre.

Rimasta sola con Pirovano, la Contessa si voltò verso di lui e gli chiese: “A cosa pensi?”

L'uomo scosse un po' il capo, appoggiandosi al muro. Erano nel mastio, dove, per l'ultima volta, la Leonessa aveva portato il comandante per chiedergli se davvero non volesse nessun pezzo di artiglieria. Ovviamente Dionigi si sarebbe sentito molto più tranquillo con qualche bombarda al seguito, ma aveva valutato in fretta due fattori: il primo stava nella palese ritrosia della sua signora a lasciargli una delle sue armi più amate e il secondo stava nel fatto che, dovendo fare in fretta, avere dell'artiglieria da trasportare sarebbe stato prima di tutto un grosso intralcio.

“Credevo che di Milano ti importasse di più.” disse alla fine Pirovano, con un'alzata di spalle: “E che avresti fatto qualcosa di meglio, per tentare di proteggerla.”

“Se anche mandassi a Milano tutti i soldati e l'artiglieria che ho...” cominciò a dire la Sforza, volendogli far capire quanto sarebbe stato inutile per Ludovico, quello sforzo, oltre che dannoso per lei, ma poi lasciò perdere e, avvicinandosi un po' a lui, gli posò una mano sul ventre piatto e gli disse, a voce bassa: “L'ambasciatore di Firenze arriverà a giorni. Dicono che stia viaggiando lentamente, ma sono pronta a scommettere che sarà qui prima della metà della settimana prossima.”

L'uomo fece un cenno, come a dirsi d'accordo e poi puntò gli occhi scuri in quelli dell'amante, chiedendosi il perché di quella costatazione.

“Quando questo Machiavelli che Fortunati dice che mi stanno mandando finalmente arriverà, non dovremo fargli capire che cosa c'è tra noi.” proseguì, la mano che dall'addome risaliva al petto del milanese: “Non voglio che usino questa cosa per farmi del male.”

Giovanni da Casale sospirò e sollevò le sopracciglia. Il tocco della donna lo stava risvegliando e la solitudine del mastio gli stava mettendo in testa una strana idea. Ricordava ancora molto bene la prima volta in cui la Tigre l'aveva preso, nella sala delle armi. Gli aveva ordinato di far finta che non fosse successo nulla, ma lui non aveva mai scordato quei momenti.

Si stava chiedendo se quel modo un po' possessivo di toccarlo fosse un tacito invito a farsi avanti, ma prima che potesse anche solo provare a ricambiare in qualche modo, la Contessa lasciò la presa e, voltandogli le spalle, disse: “Quando quel fiorentino sarà qui, non voglio che pensi che tu sia importante, per me. Non in quel senso. Sarai al mio fianco in qualità di mio consigliere e di portavoce di Milano. Nulla di più.”

Pirovano avrebbe tanto voluto ribattere e dire cosa gli passava per la mente, ma Caterina stava già scendendo le scale e così poté solo seguirla, rimuginando in silenzio e rimettendo a tacere i suoi istinti.

“Dove stiamo andando?” le chiese, in un attimo di smarrimento, quando arrivarono di sotto.

“Io sto andando da mio figlio Giovannino – fece la donna, senza smettere di camminare – tu vai dove ti pare.”

L'uomo restò tanto scottato dalla fredda indifferenza con cui la sua amante gli aveva parlato da giurare tra sé di non assecondarla mai più in nulla.

Anche se gli era superiore in rango e in grado, non poteva permettersi di trattarlo a quel modo.

Dividevano il letto, la loro non era una semplice relazione tra un comandante e un soldato e tra una Contessa e un suddito.

Pirovano aveva un amor proprio da difendere. Era sempre stato un armigero fedele e che sapeva stare al suo posto, ma questa volta la situazione era diversa. Lui l'aveva vista nuda, l'aveva avuta, l'aveva consolata, stretta a sé, rassicurata quando si svegliava nel cuore della notte disperata per colpa di qualche incubo. Non era solo un suo sottoposto, non meritava quel trattamento.

Tuttavia, mentre raggiungeva la sala delle armi e prendeva una spada per far un po' di esercizio, si trovò già a darsi dell'illuso, nel poter sperare di resistere senza di lei. Sapeva già com'era, quando l'aveva accettata la prima volta, quando l'aveva assecondata nella sala delle armi, amandola come se fosse la prima donna della sua vita. Era stato disposto anche ad accontentarsi delle briciole, quando Ottaviano Manfredi era vivo e la Leonessa era l'oggetto della loro contesa. Aveva accettato di farsi da parte, quando lei aveva deciso di preferire il faentino, ma era tornato subito, appena gli era stato concesso di farlo.

Ci voleva pazienza, a convivere con una Tigre, una pazienza da santi e che lui forse non aveva, ma ormai aveva capito che quello era il posto per lui e aveva giurato a se stesso e a Caterina che sarebbe rimasto fino alla fine. E così avrebbe fatto.

 

“Certo, certo, prima dobbiamo vedere come andrà quest'ambasceria.” convenne Lorenzo, annuendo a uno dei suoi legali, che gli stava esponendo il piano d'attacco che l'uomo contava di poter sferrare a breve.

La battaglia legale che aveva in progetto era stata congegnata fin nei minimi particolari, almeno secondo il Popolano. Quando uno degli uomini di legge che lo stavano consigliando aveva provato a fargli notare come tutto si basasse sull'idea che la Tigre e Giovanni Medici non fossero mai stati davvero marito e moglie, dando all'intero impianto accusatorio una base poco stabile, Lorenzo si era molto indispettito.

“So che mio fratello non avrebbe mai fatto una follia come sposare davvero quella donnaccia!” si era messo a gridare: “E, se per caso l'avesse fatto, quella meretrice ha troppa paura di vedersi strappare le sue terre, per produrre dei documenti che dimostrino che ha ripreso marito senza chiederne il permesso al papa e all'Imperatore.”

I suoi legali, a quel punto non avevano più cercato di farlo ragionare su quel punto, preferendo concentrarsi su altri aspetti della loro invettiva.

“Quando pensate che avremo le prime notizie dall'ambasciatore?” chiese l'avvocato Giacomo Aldrovandini, accigliandosi un po'.

Il Medici lo fissò un istante. Quello era uno dei più abili e scaltri uomini di legge di Firenze. Lo stava pagando uno sproposito, per avere i suoi servigi. Tuttavia aveva sempre quel modo di rivolgerglisi... Come se stesse parlando a un illuso, anzi, a un imbecille.

“Non lo so.” gli rispose, sforzandosi di restare calmo: “Ma comunque sia, quella donna è tanto cocciuta che immagino che l'ambasciata sarà presto dichiarata un fallimento. Nel giro di meno di un mese, ve lo garantisco, sarà completamente sola e abbandonata da tutti e per allora chiederemo il contenzioso per la custodia di quel bambino.”

“Vostro nipote...” cominciò a dire uno degli altri legali, ma il Popolano lo freddò all'istante.

“Quello non è mio nipote.” disse, granitico.

“Vi consiglio – provò a dire Aldrovandini – di apparire molto più attaccato a quel bambino, quando incontreremo i legali della Contessa Riario. Dovrete apparire desideroso di averlo con voi per prendervene cura.”

“Lo so, lo so... Adesso lasciatemi in pace. Per oggi abbiamo discusso anche troppo.” concluse frettolosamente il Medici, che aveva sentito in corridoio dei passi che scommetteva essere quelli della moglie.

Mentre i suoi legali raccoglievano le carte e lasciavano lo studio con inchini e saluti formali, l'uomo si massaggiò la fronte e andò alla finestra, occhieggiando verso la Via Larga immersa nel sole cocente di quel 13 luglio. Era un sabato agitato e anche se la sera si stava avvicinando, Firenze brulicava ancora di vita.

“Com'è andata?” chiese Semiramide, entrando nello studio con circospezione.

Il Popolano diede le spalle alla finestra e poi, cercando di non lasciar trasparire nulla di quello che gli si agitava nell'anima, disse solo: “Bene.”

Siccome l'Appiani restava immobile sulla porta, senza dire nulla, Lorenzo ebbe il sospetto che fosse lì per fargli ancora qualche ramanzina su quanto fosse sbagliato far guerra a Caterina Sforza, su quanto fosse riprovevole, da parte sua, non credere a ciò che lo stesso Giovanni gli aveva detto.

E così, per attaccare prima di doversi difendere, l'uomo sbottò: “Sto facendo la cosa giusta! L'unica cosa che farebbe un uomo sensato! Vuoi che tutte le sostanze che erano di mio fratello vadano a una pazza che li userebbe per comprarsi cannoni e mantenere i suoi amanti?! Saresti davvero così stupida da non fare nulla per evitarlo?!”

“Ero venuta qui solo per chiederti se ti andava di accompagnarmi in San Lorenzo per la Messa vespertina.” sussurrò Semiramide, abbassando lo sguardo e stringendo poi le labbra con forza, come se le parole del marito l'avessero ferita nel profondo.

Un po' interdetto da quell'inattesa dichiarazione il Medici si fece scuro in volto e poi scosse il capo, negandosi: “No, no... Vai pure da sola.”

Mentre il silenzio tra loro veniva rotto solo dai rumori della strada che passavano dalla finestra socchiusa, qualche grido di più e il fragore di quella che sembrava una processione improvvisa e festosa fece girare di scatto il Popolano.

“Ma che diamine succede...” borbottò, sporgendosi un po', per riuscire a vedere oltre il davanzale, quasi nella speranza di poter occhieggiare il profilo del Duomo.

“Ah...” fece piano la moglie, che si era affacciata alla finestra vicina: “Deve essere il Cardinale Ascanio Sforza. Avevano detto che sarebbe passato oggi da Firenze, ma vista l'ora, credevo che ormai lo si aspettasse domani.”

Lorenzo non disse nulla, restando fermo finché non vide passare proprio lo Sforza, la mano benedicente, in sella a un grande cavallo chiaro, seguito da una scorta armata che un po' ledeva la sua immagine di pacifico religioso.

“Sta andando a Milano. Spera di poter dare il suo appoggio al Duca, in opposizione a quei francesi che ti piacciono tanto...” spiegò Semiramide, togliendosi dalla finestra non appena la processione ebbe sorpassato il palazzo: “Lo avresti saputo, se non fossi completamente concentrato solo a distruggere nostra cognata.”

Lorenzo aveva schiuso un po' le labbra, restando di sasso, in effetti, nel trovarsi così poco informato su un fatto così importante per la sua città. Non volendo dare ragione alla donna, però, scosse il capo e sporse in fuori le labbra, gli occhi tondi e a mezz'asta che indugiavano su di lei.

“Ma infatti lo sapevo benissimo – mentì spudoratamente – solo che non mi interessava.”

“Come dici tu...” sussurrò l'Appiani, tentata allo stesso tempo di dargli uno schiaffo e di abbracciarlo: “Allora vado a Messa senza di te.”

“Sì.” confermò lui.

“Ah, hai presente tua cugina Lucrezia?” fece Semiramide, muovendosi appena di un passo e fermandosi subito: “Dicono che ormai manchino pochissimi giorni al parto.”

“E perché dovrebbe interessarmi?” domandò lui di rimando, le mani dalle dita tozze che si stringevano un po' a pugno, segno dell'irritazione che covava.

“Niente... Volevo solo farti avere qualche notizie dal mondo reale, mentre resti sepolto nei tuoi progetti di vendetta.” lanciò la stoccata la moglie.

Per una frazione di secondo, l'uomo parve ammorbidirsi. Le spalle si erano curvate un po', la sua espressione era tornata imbronciata come un tempo, priva di quella patina di rabbia che la contraddistingueva da mesi.

Semiramide si permise di essere ottimista. Si mosse di nuovo verso di lui e, con lentezza e dolcezza, gli prese una mano e cercò di aprirgli il pugno. Ci riuscì, ma appena provò a intrecciare le dita con quelle del marito, egli ritrasse il braccio con rabbia.

“Non ho tempo, per queste cose!” fece lui, voltandosi e allontanandosi, quasi correndo alla scrivania, come se avesse cose urgentissime e importantissime da fare: “Ho uno Stato a cui pensare, io!”

L'Appiani si morse il labbro, per non scoppiare a piangere davanti a quel rifiuto che bruciava esattamente come tutti gli altri che aveva dovuto accettare negli ultimi tempi. Mentre lasciava lo studiolo e andava un momento in camera per finire di prepararsi per la Messa, si trovò a invidiare Lucrezia Medici e Jacopo Salviati, che sarebbero diventati di nuovo genitori a giorni e che, a detta di tutti, erano un corpo e un'anima, così come un tempo anche lei era stata con il suo Lorenzo.

Quando arrivò in chiesa, prima di mettersi a seguire al funzione, andò un momento sulla tomba di Giovanni. Sfiorò il nome del cognato e si asciugò una lacrima in silenzio.

'Farò quello che posso – gli promise, senza dar fiato alla bocca – tutto quello che posso per tuo figlio'.

Quando si rimise in mezzo agli altri fedeli, lo sguardo rivolto al prete, si trovò a invocare Dio e la Madonna affinché sostenessero non solo lei nella sua difficile battaglia per riavere l'uomo che amava, ma anche, anzi, in quel momento soprattutto, per fermare Lorenzo.

Stava già intaccando i soldi di Giovanni, Semiramide lo sapeva, aveva visto i conti. Però, prima che si mettesse a vendere le proprietà del fratello morto, sperava la donna, sarebbe arrivata la sentenza di affidamento.

'E che il figlio resti alla madre – pregò in silenzio, il capo chino e le mani giunte sul petto – come avrebbe voluto Giovanni e com'è giusto che sia'.

 
 
   
 
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