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Autore: Adeia Di Elferas    13/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Sancha e Alfonso stavano parlando sottovoce, troppo spaventati per poter alzare i toni, anche se la discussione si stava facendo molto accesa.

Se la prima stava chiedendo al fratello di seguirla e di tornare subito a Napoli, l'altro si opponeva, tacciandola di essere troppo impulsiva e codarda. La verità, però, era che nel suo profondo Alfonso le dava ragione e sapeva che presto il loro odiato cognato, Cesare, sarebbe tornato a Roma, o, se non altro, in Italia.

Il papa gongolava di continuo, facendo finta di sapere poco o nulla, ma di fatto in tutto il Vaticano si sapeva che l'invasione del Ducato di Milano da parte dei francesi era alle porte e che, di conseguenza, anche il ritorno del figlio del pontefice che, una volta vista aperta la strada, avrebbe galoppato per tornare nell'Urbe.

'E da sua sorella Lucrecia' era stato il finale di pensiero, rimasto tale, del giovane Aragona.

Era chiaro, ormai, ai napoletani che dopo Milano, dopo la Romagna, i Borja sarebbero scesi verso Napoli, cercando di aver ragione degli Aragona che, ancora disuniti e non del tutto ripresisi dalle guerre degli ultimi anni, sarebbero crollati nel giro di una stagione. L'unica cosa che potevano fare loro due era tornare in patria, secondo la giovane donna, e riorganizzare la difesa prima che fosse troppo tardi, prima che il pontefice approfittasse della loro presenza a Roma per decapitare il loro Stato uccidendoli con qualche sotterfugio.

Sancha stava ancora cercando di convincerlo, dicendogli che se non fossero scappati subito, Cesare avrebbe fatto di loro carne da macello, perché se si mette una corona in testa a un cane rabbioso, per prima cosa quello sbranerà tutti coloro che l'hanno bastonato.

Alfonso fingeva di non ascoltarla, scuotendo il capo, incapace anche solo di pensare una vita lontano da Lucrecia. E, dopo tutto, se lui e la sorella fossero scappati, non avrebbero certo potuto portarsi appresso la Borja. Rodrigo avrebbe messo a ferro e fuoco il mondo, pur di riaverla per sé.

La moglie di Jofré tentò un'ultima volta di far breccia nell'ottuso rifiuto del ragazzo, ricordandogli di come lei avesse messo in ridicolo i Borja con la sua condotta deplorevole, mentre lui, per quato meno colpevole, fosse comunque un mostro da sconfiggere, agli occhi di Cesare – anzi, del Duca di Valentinois – solo perché aveva osato mettere incinta Lucrecia, sua legittima moglie, ma proprietà figurativa del Borja.

Quando Lucrecia entrò nel salottino, trovò Alfonso che ancora scuoteva il capo e Sancha con il viso arrossato, gli occhi quasi umidi di lacrime di rabbia. Per un istante non capì cosa stesse succedendo tra loro ed ebbe paura che fosse capitato qualcosa di grave.

Quando, però, il marito le andò incontro, abbracciandola in silenzio, si tranquillizzò. L'Aragona fece cenno alla sorella di andarsene e così rimase solo con la figlia del papa che, cullata dalla sua stretta, si lasciò andare a un breve sospiro.

“Stavate litigando?” chiese la giovane Borja.

Alfonso fu tentato di spiegarle tutto subito, ma poi, capendo che la moglie aveva qualcosa di urgente da dirgli, lasciò perdere e domandò di rimando: “Come mai questo sorriso? Buone notizie?”

“Mio padre vuole farmi Governatrice di Nocera, Assisi, Visso, Trevi, Montefalco, Spoleto e anche altri posti che adesso non ridcordo nemmeno più...” spiegò Lucrecia, con il tono vivace di una ragazzina che si vanta delle proprie conquiste: “Dice che probabilmente fino al mese prossimo non avrà pronti i documenti per rendere la mia carica ufficiale, ma...”

“E come mai questa decisione?” domandò l'Aragona, facendosi improvvisamente serio.

Non gli piaceva, quella cosa, tanto meno collegandola alla guerra che stava per scoppiare. Sua moglie era gravida, e di circa sei mesi. Se fosse partita in agosto, sarebbe arrivata ad Assisi o dove il papa avesse deciso, grossa di sette mesi, mettendo a rischio il loro preziosissimo figlio.

Lucrecia, un po' stranita dalla freddezza con cui il marito le aveva posto quella domanda, si accigliò e poi rispose: “Dice che come Governatrice di Spoleto potrò aiutare Bartolomeo d'Alviano, il condottiero, a riappacificare Todi. È una cosa importante.”

Alfonso non commentò e poi, passandosi una mano tra i capelli biondi, si sforzò di sorriderle e, schiarendosi la voce, assicurò: “Sì, è una cosa buona.”

Tuttavia, mentre la Borja si sporgeva verso di lui per scoccargli un bacio, il giovane sentì un brivido lungo la schiena, chiedendosi se per caso sua sorella Sancha non avesse davvero ragione.

“Lucrecia...” sussurrò, appena le labbra della moglie si allontanarono dalle sue: “Se ti chiedessi di scappare da Roma assieme a me, per una buona ragione, tu lo faresti? Rinunciando anche a Spoleto, Assisi e tutti i posti che hai nominato?”

La giovane puntò gli occhi penetranti – in momenti come quello così simili a quelli del padre – e poi, senza indugio, precisò: “Solo se fosse necessario per salvarti la vita.”

L'Aragona annuì e assicurò: “Temo sia proprio così.”

 

“Ma è ovvio che non le voglio far sposare a Guglielmo Paleologo...” fece Caterina, restando in piedi accanto alla scrivania, in attesa che Pirovano cominciasse a scrivere.

“E allora perché devo scrivere al Moro che vuoi che interceda per te presso di lui per farlo maritare con Bianca?” chiese l'uomo, senza riuscire a capire.

“Voglio sapere se è vero che mio zio ha perso i contatti anche con il Marchese di Monferrato. E voglio che si senta in debito con me, dicendogli che mando Spinuccio a parlamentare con Gian Giacomo da Trivulzio.” spiegò la donna, con tono sbrigativo, sentendosi come ai tempi in cui doveva spiegare ogni sua mossa a Giacomo.

Con Giovanni Medici, continuava a ripetersi, non avrebbe avuto bisogno di tante parole. Lui avrebbe avuto i suoi stessi pensieri, le medesime intuizioni, e l'avrebbe assecondata senza romperle l'anima a quel modo.

“Sì, ma...” provò a dire Giovanni da Casale, cominciando comunque a prendere in mano la penna e intingerla nell'inchiostro.

“Ma cosa?” chiese la Sforza, spazientendosi.

“Ma perché devo scriverglielo io? Non puoi farlo tu? In fondo io non...” la voce di Pirovano venne coperta all'istante da quella della sua amante che, desiderosa di chiudere in fretta la questione, decise di essere il più chiara possibile.

“Perché così sembrerà una cosa ufficiale. Tu, per lui, sei ancora il suo ambasciatore, il suo uomo di fiducia. Se glielo chiedi tu, penserà che faccio sul serio. E ora muoviti.” e gli indicò il foglio con l'indice.

A quel punto a Giovanni non rimase che scrivere esattamente ciò che gli veniva dettato e poi rilesse, così come la sua donna aveva chiesto di fare: “Apresso sua Signoria desideraria sopra quanto la po sperare dela Execellenza Vostra che quella operasse che la figliola fusse maridata nel Marchezo de Monferato, pregando quella con ogni bon studio et mezo voglia adoperare per far sortire lo effecto...”

“Basta così.” lo interruppe la Tigre, agitando in aria una mano: “Avanti, firmala e poi falla spedire.”

“Ma se tuo zio avesse davvero ancora rapporti buoni con il Marchese? Che farai?” chiese Pirovano, chiudendo il messaggio e guardandola un momento.

La loro stanza era tranquilla, quasi fresca, in quella giornata di caldo torrido. La luce del mezzogiorno batteva contro la finestra, ma i tendaggi messi da Argentina – che si stava dimostrando una cameriera personale ben sopra la media – riparavano a dovere la camera, lasciando trasparire la luce, ma non il calore.

“Be', mia figlia in fondo è ancora la moglie di Astorre Manfredi. Finché quello non muore, nessuno la può pretendere realmente per sé.” spiegò la Contessa, con un'alzata di spalle.

Giovanni prese per buona quella spiegazione, tornando a pensare, come aveva fatto già molte volte, da che era arrivato a Forlì, che il suo ruolo naturale fosse quello del soldato. Ubbidire, senza farsi domande. Era molto più facile che cercare di entrare nella testa di una donna labirintica come Caterina.

In molti dicevano – Pirovano l'aveva sentito con le sue orecchie sia a Milano per bocca di diplomatici e intellettuali, sia in giro per l'Italia dalle labbra di condottieri e armigeri di vario rango e fama – che la Tigre avesse una mente veloce e diretta, capace di anticipare molto spesso gli uomini con cui aveva a che fare. Si doveva credere che fosse vero, pensava lui, perché più si avvicinava alle questioni di Stato di Imola e Forlì, più si sorprendeva di come la Sforza fosse riuscita a sopravvivere e, anzi, a guadagnarsi anche il rispetto di molti, con quello che aveva a disposizione.

In mano a qualcuno che non fosse quanto meno sopra la media, come cervello e come istinto, quelle terre sarebbero finite in pasto al primo contendente già alla morte del Conte Girolamo Riario, se non prima.

“Vado a farla spedire, allora...” fece l'uomo, alzandosi e andando subito alla porta.

“Va bene.” accordò lei, e poi soggiunse: “Ti aspetto qui, poi. Prima di andare al Quartiere Militare voglio parlarti di una cosa.”

Giovanni da Casale annuì, e la lasciò sola. La Leonessa attese con pazienza, sdraiandosi sul letto.

Aveva dormito pochissimo e male, quella notte. Era agitata e più si avvicinava il giorno dell'arrivo dell'ambasciatore di Firenze, più il suo umore peggiorava. Non avere notizie certe da Milano la stava tormentando e cominciava a chiedersi se davvero le convenisse, cercare di tenersi buono suo zio Ludovico.

Fino a pochi anni addietro avrebbe ritenuto inconcepibile l'idea di lasciare la sua terra natia in mano agli stranieri, ma ormai, come le aveva fatto notare più di una volta sua figlia Bianca, aveva vissuto più tempo lontano palazzo di Porta Giova che nella sua Milano. Sapeva che della terra che aveva adorato molte cose non c'erano più e che la sua città le sarebbe parsa completamente differente, ma non per questo smetteva di amarla.

Immersa ancora nella confusione della sua anima, la donna sobbalzò quando sentì bussare alla porta. Pensando che non potesse essere Pirovano – che non si annunciava praticamente mai – si alzò e chiese chi fosse.

“Ho una lettera per voi.” disse piano Cesare Feo, allungandole un messaggio, mentre lei schiudeva la porta.

La Contessa lo ringraziò e poi, prima di lasciarlo andare, gli disse: “Per favore, cercate mio figlio Galeazzo. Ditegli che tra un'ora sarò al Quartiere Militare e che desidero che ci sia anche lui.”

Il castellano annuì e poi, permettendosi quella proposta solo in virtù della richiesta fattagli proprio dalla sua signora di dare un occhio paterno al figlio di suo nipote Giacomo, le chiese: “Intendete per caso portare anche Bernardino?”

Caterina scosse il capo, senza nemmeno pensarci, mentre apriva la lettera, liquidando quella richiesta con un vago: “No, no... Ditelo solo a Galeazzo.”

Cesare, un po' abbattuto, chinò il capo, ma la Contessa non lo vide, dato che già stava chiudendosi la porta alle spalle, immersa nella lettura.

Era una lettera dell'11 luglio. Ci aveva messo un po' ad arrivare. Era scritta da fortunati e copriva ben più righe delle sue consuete missive.

Le parlava di Machiavelli, chiamandolo 'docto giovane fiorentino' e le diceva che la Signoria aveva chiesto a lui, Francesco, di seguire suddetto ambasciatore, ma che lui non si era mosso da Cascina, giacché non si sentiva libero di partire, se non su ordine preciso di 'Vostra Excellentia'.

Caterina sentì subito rimontare la rabbia. Avrebbe preferito di gran lunga che Fortunati si presentasse assieme a Machiavelli, che ne studiasse il carattere e le intenzioni durante il viaggio. E invece il piovano aveva colto una scusa per ritardare ancora un po' il loro incontro. Era chiaro, da quelle parole più che da ogni altra cosa, che ancora temesse un suo eccesso d'ira nei suoi confronti per quello che era successo a Manfredi sotto il suo sguardo impotente. E, a ben vedere, pensò la Tigre, forse aveva anche ragione.

Il testo continuava spiegando che Firenze aveva tutta l'intenzione di rimanerle amica e che la Signoria aveva tutte le intenzioni di soddisfarla nelle sue richieste. Poi, però, il discorso virava, quasi in difesa della Repubblica, facendole presente che lo Stato verteva in una condizione di tale bisogno – proprio di inedia – che per restare a galla si erano dovuti fare tagli alle cose superflue, tra cui le 'spese con Vostra Excellentia'. Recuperava un po' aggiungendo che, non appena riconquistata Pisa, i conti sarebbero stati rimessi a posto.

Seguivano ancora un po' di frasi con cui, fondamentalmente, Fortunati la pregava di non chiudere a priori il dialogo con Firenze e tanto le bastò per perdere definitivamente la pazienza.

Anche se tutto, compreso l'ultimo inciso, che recitava: 'confermandole che io l'ho servita bene in ogni parte', le lasciava intendere che quella missiva fosse stata scritta nel terrore di essere intercettato, il tono paternalistico con cui Francesco la esortava a credere alle manfrine di Firenze era insopportabile.

Con un verso di irritazione e frustrazione – perché, di fatto, non poteva fare altro – gettò il messaggio sul letto e poi iniziò a cambiarsi, furiosa.

Si stava mettendo il secondo stivale, quando Pirovano tornò in camera. La guardò un momento, trovandola scapigliata e rossa in viso, l'espressione tipica di quando qualcosa o qualcuno la faceva infuriare.

“Di cosa volevi parlarmi?” le chiese, chinandosi per aiutarla a infilarsi la calzatura di cuoio spesso.

La donna, fino a poco prima, aveva intenzione di discutere con lui di alcuni accorgimenti da prendere quando fosse arrivato quel 'giovane docto fiorentino' di Machiavelli, ma dopo aver letto le parole di Fortunati, improvvisamente, tutte quelle attenzioni le parevano superflue.

“Non era nulla di importante.” disse, veloce, mettendosi in piedi non appena l'uomo ebbe finito di sistemarle lo stivale.

Lasciando che lui, come un abile attendente, le stringesse un po' meglio i nodi delle maniche del suo abito da lavoro – così consumati da essere a rischio rottura da un momento all'altro – la Leonessa riprese: “Sto andando al Quartiere Militare. Dovrebbe venire anche Galeazzo.”

L'uomo annuì, non sapendo come prendere quell'affermazione. Era un invito a seguirla o una semplice costatazione?

Per non illudersi troppo, Pirovano rimase sulle sue, puntellandosi contro il bordo del letto. In un momento del genere avrebbe voluto che la nella rocca della sua amante ci fossero letti a baldacchino come in tutte le corti rispettabili e non quei lettucci da soldato. Avrebbe potuto appoggiarsi a una delle colonne, acquisendo una postura meno imbarazzante e più naturale.

Passandosi una mano sui capelli bianchi, cercando di domarli, la Sforza andò verso l'uscita e poi, quasi con esasperazione, gli disse: “Allora ti muovi?”

Quasi saltando sul posto, l'uomo annuì subito e la seguì fuori dalla stanza, standola al fianco finché non arrivarono al Quartiere Militare. Solo lì lasciò la destra della Tigre a chi ne aveva più diritto: Galeazzo Riario, erede designato di una donna che da sola sapeva tenere testa a un esercito di uomini.

 

Il palazzo di Pandolfo Malatesta sembrava deserto, quel giorno. Bartolomeo aveva sentito molto parlare delle feste – licenziose e che spesso si protraevano dall'alba al tramonto – che il signore di Rimini teneva alla sua corte, a beneficio dei suoi amici. Forse era per quello che si era atteso un po' più di vita.

E invece si era trovato dinnanzi interi saloni vuoti, solo qualche servo che correva di qua o di là, e un silenzio quasi tombale. L'unica cosa che non mancava erano le guardie alla porta d'ingresso. Solo quel dettaglio lasciava intendere quando poco il Pandolfaccio si fidasse dei suoi sudditi.

Anche il padrone di casa aveva deluso molto le sue aspettative, sempre che si potesse parlare di aspettative. Era stato, più che altro, curioso di vedere quel giovane Malatesta di cui aveva sentito tanto parlare. Malgrado i suoi vizi, era sempre descritto come un soldato tutt'altro che scadente e un uomo dalle mille risorse, ma, forse, quei ritratti mirabolanti risalivano al periodo in cui Pandolfo era un ragazzo e sua madre era ancora in vita, a proteggerlo e muoverlo come una pedina nelle sue mani.

Quello che Bartolomeo aveva dinnanzi era solo un ventiquattrenne dai capelli lunghi, neri e unticci, che si guardava continuamente le spalle, come avesse paura di vedersi arrivare un pugnale tra le scapole da un momento all'altro. Era magro, quasi ossuto, si muoveva a scatti e parlava alternando una serietà funerea a risate improvvise e sguaiate, spesso immotivate.

“Quindi siete diretto a Este?” chiese il Malatesta, prendendo un pezzo di pesce dal vassoio e guardando Bartolomeo con i suoi occhi neri e sfuggenti.

La tavola che aveva fatto preparare, al fine di consumare assieme al suo ospite quel pranzo senza avere nessun orecchio indiscreto a sentirli, era colma di pescato e verdure. Entrambe cose che all'Alviano non piacevano, ma che, almeno riusciva a mangiare con una certa facilità, malgrado la sua lingua anarchica.

“Sì.” annuì: “Lì piazzerò i miei alloggiamenti.” confermò il condottiero.

Era passato da Rimini solo ed esclusivamente perché il papa gli aveva chiesto di fare così. Per controllare in che stato fosse Pandolfo e la sua città. Il padrone di casa, invece, sembrava convinto che Bartolomeo fosse lì al solo scopo di offrirgli il suo aiuto.

“Bravo, bravo... Este è un buon posto.” fece il Malatesta, masticando per un istante a bocca aperta e deglutendo poi il tutto assieme a una lunga sorsata di vermentino: “Io invece... Io sto ancora aspettando... Devo fare la rassegna delle truppe, ma Venezia non mi dà l'ordine... Voi... Ecco, voi con la vostra condotta potete avere una voce con il Doge... Magari, se gliene parlaste...”

L'Alviano fece un cenno con il capo che poteva significare tutto e il contrario di tutto e poi, con gli occhietti incavati che valutavano attentamente cosa offrisse la tavola, si chiuse nel suo proverbiale mutismo.

Pandolfo, però, non taceva: “Centocinquanta uomini, avete detto... E quaranta cavalleggeri... Sì, avete avuto una buona condotta. Venezia di rado concede tanto a chi non... Insomma, voi non siete mai stato molto facile da comandare. Ma di due anni secchi?”

Bartolomeo, che voleva chiudere il discorso e concentrarsi sul cibo – faceva troppa fatica a mangiare e parlare continuamente per colpa della sua ferita – buttò giù un po' di vino per schiarirsi la gola e poi rispose: “Un anno di ferma e uno di rispetto.”

Il signore di Rimini parve capire, finalmente, che l'altro non avesse alcuna voglia di perdersi in chiacchiere. Faceva caldo, era arrivato da una lunga cavalcata e non era più un ragazzo. Aveva bisogno di pranzare in tranquillità, senza qualcuno che lo pungolasse di continuo spendendosi in chiacchiere inutili.

Più tardi, nel pomeriggio, quando l'Alviano lasciò la camera che gli era stata concessa per riposarsi un po', delle voci attrassero la sua attenzione. Muovendosi silenzioso come un fantasma, in quel palazzo che gli pareva sempre di più un sepolcro, arrivò abbastanza vicino alla fonte di quello che sembrava un litigio.

Trovò un punto protetto da cui osservare senza farsi notare e vide quella che doveva essere la moglie di Pandolfo parlare con lui animatamente. L'uomo non teneva lo sguardo sulla donna, e pareva molto infastidito per le sue parole. Violante – perché doveva essere per forza lei – si posava di quando in quando una mano sul ventre e questo lasciò intendere a Bartolomeo che potesse essere incinta.

A maggior ragione, dunque, sobbalzò quando vide il Malatesta sollevare una mano e colpirla con tanta forza da mandarla a terra.

Il viso coperto dai capelli e le spalle un po' scossa da un silenzioso pianto, la Bentivoglio restò accovacciata al suolo, mentre il marito, con l'indice puntato contro di lei, sibilava a voce bassa qualcosa.

Quando l'Alviano si rese conto che il riminese stava lasciando la donna e stava camminando proprio verso di lui, si sbrigò a dileguarsi. Mentre tornava verso la camera che gli era stata data, deciso come non mai a ripartire all'istante, malgrado l'ospitalità offertagli anche per la notte, l'uomo non poté evitare di fare un tristo collegamento tra Violante e Pantasilea.

Recuperando i pochi effetti personali che aveva fatto in tempo a spargere per la stanza, Bartolomeo ripensò al modo in cui sua moglie guardava Giampaolo. Era abbastanza sicuro che il Baglioni non avesse mai alzato le mani sulla sorella, ma quello che le aveva fatto per anni e che, di certo, continuava a farle, era forse anche peggio.

Richiamati all'ordine i suoi, cercò Pandolfo e gli disse, secco: “Sto ripartendo. Vi ringrazio per avermi ospitato.”

“Di già?” chiese il signore di Rimini, allerta, gli occhi scuri che indagavano il viso asimmetrico dell'Alviano come se volesse leggervi qualche inganno: “Ma tra poco sarà sera, è molto pericoloso mettersi in strada con il buio.”

“Non per me.” tagliò corto Bartolomeo e, con fare quasi affettato, si esibì in un mezzo inchino e si lasciò in fretta alle spalle Rimini, pronto a raggiungere Este.

Là avrebbe vissuto in un campo militare, ma per lui sarebbe stata di certo una sistemazione molto più confortevole rispetto al palazzo del Pandolfaccio.

 

Caterina stava passando lentamente una mano sulla schiena nuda di Giovanni da Casale, disegnando con attenzione la forma dei suoi muscoli che, anche se rilassati, risaltavano ben definiti sotto la pelle.

“Sei stato bravo, oggi, al Quartiere Militare.” gli sussurrò.

L'uomo sollevò appena l'angolo della bocca e chiese: “Credi che sia servito a qualcosa?”

La Sforza smise di accarezzarlo e, mettendosi supina, sospirò. La stanza profumava d'estate. Gli aromi che riempivano la notte erano l'unico vantaggio di quei giorni di afa.

Quel giorno, al Quartiere Militare, Pirovano aveva dato prova della sua capacità di farsi obbedire dai soldati. La Tigre l'aveva invitato con un cenno a mettersi all'opera e il suo amante non si era tirato indietro.

Con Galeazzo al suo fianco, la Contessa aveva potuto rimirare con un certo compiacimento la facilità con cui Giovanni dava ordini e li vedeva eseguiti. Era il primo a dare l'esempio e tutti lo rispettavano. Anche se si trattava solo di esercitazioni, era qualcosa che la faceva ben sperare.

Aveva già avuto prova del carisma del milanese quando era stato presente a Forlì durante il rischioso passaggio dei veneziani appena fuori le mura. Adesso aveva la conferma di aver puntato sul cavallo giusto.

Suo figlio non mollava mai un attimo gli occhi da Pirovano, come se volesse imparare da lui ogni movenza e ogni trucco. Quello era stato il dettaglio che aveva incoraggiato maggiormente la donna.

Galeazzo era giovane e aveva bisogno di un esempio. Non solo come uomo, ma anche come armigero. Il maestro d'armi era bravo, altrettanto i Capitani che militavano alla rocca, ma per diventare un grande guerriero, il Riario aveva bisogno di vedersene uno davanti agli occhi tutti i giorni.

“Sì, è servito.” annuì piano Caterina, guardando di sguincio il suo amante: “A me, ai nostri soldati e anche a mio figlio.”

Affondando il viso nel guanciale, Giovanni si chiese per un attimo se la sua donna stesse parlando a ragion veduta o solo per compiacerlo, ma alla fine decise di non pensarci più e godersi quello che suonava tanto come un complimento.

“Se non mi fossi utile, non ti terrei qui.” soggiunse la Leonessa, dandogli un breve bacio sulla spalla e poi cercando di farsi abbracciare.

L'uomo non si tirò indietro, ma l'ultimo inciso, a suo modo di vedere del tutto gratuito e quasi crudele, l'aveva un po' raffreddato.

“Adesso sarebbe meglio dormire.” le bisbigliò, tenendola stretta a sé, ma non alimentando la sua iniziativa: “Ci aspettano giorni difficili e non puoi continuare a dormire solo due o tre ore a notte, o alla fine crollerai e non servirai a nessuno, a quel punto.”

Rendendosi conto che quella stoccata altro non era se non la ripicca per quello che lei stessa aveva detto poco prima, la Sforza non perse tempo a cercare di ribattere.

Restandogli aggrappata, come se in quel modo volesse fargli capire che, comunque, lo reclamava per sé, convenne, con un tono un po' indispettito: “E va bene, dormiamo.”

   
 
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