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Autore: Adeia Di Elferas    13/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Gian Giacomo da Trivulzio stringeva gli occhi verso il sole che stava nascendo. Quel 15 luglio si preannunciava per lui come il giorno fatale. Si decideva la sua fortuna o la sua disgrazia.

Forse era solo una superstizione da soldataglia, ma l'esito del primo attacco era fondamentale per capire come sarebbe andata l'intera campagna.

Con un sospiro tremulo, nell'aria immobile di quell'estate feroce, il comandante supremo – così lo chiamavano – dell'esercito francese si infilò l'elmo. I suoi quasi quindicimila uomini aspettavano solo un suo cenno.

Chiuse un istante gli occhi, cercando di non pensare a Solero e Quargnento, i due paesi che si stagliavano all'orizzonte, placidi, come prede consenzienti e consapevoli.

Ripensò alle giornate confuse che avevano portato a quel momento. Ripensò a quanto aveva dovuto essere duro e inflessibile con i soldati francesi che comandava e che sembravano estranei alle leggi non scritte dell'onore e dell'ordine.

Ripensò anche ai litigi con Don Giuliano di Ligny, che, invece, sembrava divertirsi nel vedere i suoi uomini così selvaggi e brutali con gli abitanti dei posti in cui avevano stazionato lungo la loro avanzata. Quel francese, in fondo, ancora si vantava dello scempio fatto qualche anno prima in Romagna, in un paesino chiamato Mordano, di cui, a sua detta, aveva lasciato poco più che le ceneri delle case e le ossa spezzate della gente. Era una cosa di cui poteva vantarsi solo un mostro. A volte era necessario, lasciare che la truppa si sfogasse, ma quella volta era stata una bruttura del tutto fine a se stessa e il Trivulzio non poteva condividerla.

Con un respiro fondo, guardò un momento verso Troilo, che stava al suo fianco e fece un breve cenno con il capo. Si abbassò la celata, così come fece anche il Rossi, e poi alzando la mano, diede silenziosamente ordine di mettersi in marcia.

Passarono il confine del Ducato di Milano quasi senza accorgersene e, non appena impattarono con Solero, e poi con Quargnento, videro le difese – scarse e apparentemente improvvisate – dei milanese cadere senza sforzo. Nel giro di una manciata d'ore, i due paesi furono dichiarati francesi e, per una volta, Gian Giacomo da Trivulzio preferì non mettersi contro i suoi uomini che, esaltati da quella vittoria rapida e facile, si erano messi a infierire sui pochi superstiti, straziando gli uomini e usando violenza alle donne.

“Perché permetti questo schifo?” chiese Troilo, avvicinandosi all'amico, mentre davanti ai loro occhi un paio di francesi portavano a braccia una ragazza urlante e disperata verso un granaio.

“Perché voglio vincerla, questa guerra.” rispose Gian Giacomo, mostrando il volto duro che riservava solo alle questioni talmente serie da non permettere nemmeno l'ombra di un sorriso: “E seminare il panico nella popolazione è il primo passo.”

Il Rossi deglutì un paio di volte. Era sporco di sangue e aveva ammaccato la sua armatura. Era stanco e aveva sete, ma tutto perdeva importanza, davanti a quello che i suoi occhi continuavano a vedere.

“Non erano questi, i patti.” sussurrò, rivolgendosi al Trivulzio con un tono quasi minaccioso.

“Non c'erano patti, tra noi. Ti ho dato la possibilità di seguirmi in questa guerra e tu hai accettato e lo hai fatto perché sai che puoi guadagnarci.” lo riprese il più vecchio, dandogli un colpo sulla spalla con la mano guantata di ferro: “O stai alle mie regole e rispetti le mie decisioni, o puoi anche andartene e chiedere a qualcuno di darti un esercito da guidare a modo tuo.”

Troilo lanciò un'ultima occhiata ai francesi che continuavano, come un brulicare di formiche, a spartirsi le loro vittime e a ridere e gridare come fossero all'osteria e concluse: “Va bene, ma sappi che tutto questo mi dà il voltastomaco.”

“Se vuoi andare a vomitare, lì c'è uno scudiero che lo sta già facendo...” disse Gian Giacomo, tornando a lasciar trasparire una certa ilarità: “Sempre che un uomo di quasi quarant'anni non si faccia problemi a farsi vedere vomitare accanto a un ragazzo di dieci.”

 

Caterina appoggiò sulla tavola il pezzo di pane che stava per mangiare e fissò accigliata Simone Ridolfi: “Ma è ovvio che non li ho mandati io.”

Il fiorentino si guardò in giro, controllando che nessuno li stesse ascoltando. A parte Bianca, seduta accanto alla madre, e Ottaviano, che invece si era tenuto a una certa distanza, non c'era nessuno nella sala dei banchetti. Era un po' presto, infatti, per mangiare, e quello, pensò il Governatore, era un bene.

“Portavano le vostre insegne.” insistette Simone, chinandosi un po' verso di lei, in una posa che la Tigre lesse come minacciosa.

Asciugandosi la bocca con il dorso della mano, la donna si alzò e gli fece segno di seguirla. Non voleva che i suoi figli – Bianca, sopratutto – assistessero a quel genere di scene. Ridolfi aveva dimostrato ben più di una volta di saper essere irrispettoso, verso di lei, ma non doveva permettersi di accusarla a quel modo davanti ai ragazzi.

“Che motivo avrei avuto, secondo voi – gli chiese, appena furono fuori dalla sala, in un punto tranquillo vicino alle scale – di mandare venti balestrieri a Salutare per saccheggiare una casa, aggredire tre uomini e rapirne un quarto?”

“Infatti non lo so, per questo lo chiedo a voi.” rispose l'uomo, svettando in tutta la sua altezza e mettendosi in posizione d'attesa: “E vi ricordo che questi sono quattro cittadini di Firenze. Salutare è ancora nel territorio fiorentino. Vi rendete conto che questa potrebbe essere letta come un'aggressione a Firenze?”

Quella situazione, alla Tigre, pareva paradossale. Quella notizia, rimbalzata di bocca in bocca era arrivata a Forlì nel giro di un giorno. Risaliva tutto alla mattina precedente, e i dettagli erano ancora un po' sfumati.

“Credete che sia tanto folle da pregiudicare la mia alleanza con Firenze per una cosa simile?” fu la ribattuta della Contessa: “Non avevo la minima idea che fosse successo qualcosa del genere a Salutare. Manderò subito qualcuno a indagare. Voglio trovare questi venti balestrieri che hanno osato fare una simile scorreria portando le mie insegne.”

“Mi auguro che stiate dicendo il vero, quando affermate di non saperne nulla.” la redarguì Simone, sistemandosi il giubbetto estivo e scurendosi ancora di più in viso: “Perché se no..!”

“Se no, cosa?” controbatté lei, arrabbiandosi davvero, questa volta: “Devo ricordarvi che siete il Governatore di Forlì e non un uomo della Signoria? Posso destituirvi anche subito, se non siete in grado di essere fedele solo ed esclusivamente al mio Stato.”

Ridolfi non commentò, guardandola con attenzione, come un cane che valuta tra l'ipotesi di attaccare e rischiare di prendersi una bastonata, e quella di restare al proprio posto e non buscarsi una legnata.

“Non li ho mandati io, quei balestrieri – ribadì la donna – tuttavia, in ogni caso, dal mio Governatore mi sarei aspettata un atteggiamento molto diverso, davanti a una simile notizia. Nel dubbio che fosse stata una mia decisione, avreste dovuto, piuttosto, chiedermi come intendessi muovermi per gestire la cosa, e non, ripeto, non attaccarmi come se fossi una nemica.”

L'uomo si morse il labbro. Lo sguardo basso e la fronte aggrottata, sembrava seriamente intento a ragionare su quanto detto.

Alla fine sospirò e disse: “Chiedo il vostro perdono. Ho pensato poco e agito d'istinto.”

Caterina ricordava molto bene che anche Giovanni rimproverava quei due difetti, nel cugino e quel pensiero la placò un po'.

“Tornate ai vostri affari.” concluse la Sforza, con tono spento: “E che non si ripeta mai più.”

Mentre il Governatore si allontanava, la Leonessa cominciò a ragionare. Aveva temuto che potessero succedere incidenti del genere. Già i soldati faentini e quelli veneziani a tratti si erano permessi piccole scorrerie nelle campagne, ma fino a quel momento, lei era riuscita a tenere i suoi uomini sotto il suo completo controllo.

Forse, si disse, sarebbe stata buona norma rimandare suo figlio Ottaviano a fare ispezioni sul confine. Più per tenersi lontano lui e controllato l'esercito, che non per timore di qualche incursione nemica.

Andò a cercare l'Oliva e gli chiese di mettersi subito all'opera. Voleva sapere chi fossero, i venti soldati ribelli, e dove fossero.

“Appena avrete notizie, venitemi a cercare.” lo pregò.

“Se dovessero trovarli fisicamente – si informò l'uomo – posso dire loro di catturarli?”

“Se sono davvero venti, potrebbe essere difficile.” fece notare la Sforza: “Ma se le condizioni fossero favorevoli, allora sì. E in tal caso, voglio che li facciate portare a Forlimpopoli, da mio fratello Piero.”

L'Oliva annuì e si congedò con il sorriso serafico che sfoggiava ogni qual volta il compito assegnatogli gli paresse sufficientemente complicato da essere interessante.

A quel punto, passatale la fame, la Contessa decise di andare direttamente nel cortile per fare un po' di esercizio, ma venne intercettata e fermata dal castellano Feo.

“Siamo stati avvisati che il fiorentino, Machiavelli, arriverà a Castrocaro verso sera.” le disse, accigliandosi un po': “A quanto pare si fermerà lì per la notte, perché non vuole arrivare qui a un'ora troppo tarda.”

La Tigre soffiò. Dunque, alla fine, il momento era arrivato. Anche se avrebbero dovuto attendere il giorno seguente per incontrarlo, quel 15 luglio il nuovo ambasciatore di Firenze si accingeva a varcare il confine del suo Stato.

“Mandate a Castrocaro il Capitano Golfarelli.” decise repentinamente la donna: “E Guerrino Del Bello. Che inizino a incontrarlo e a chiedergli qualche cosa sulla sua missione... Quando sarà qui, non voglio essere colta alla sprovvista, voglio sapere che argomenti toccherà.”

Cesare chinò il capo e assicurò: “Li faccio partire subito.”

“E dite a Golfarelli che sia vago su tutto e che se il fiorentino chiederà soldi, uomini, armi o cibo o qualsiasi altra cosa, la sua risposta dovrà essere o 'non lo so' o 'non ne abbiamo'. Intesi?”

Il castellano si inchinò ancora più a fondo e convenne: “Sono le migliori risposte, mia signora.”

 

Niccolò non credeva vero di potersi finalmente mettere seduto a un tavolo. Erano le dieci di sera, il campanile aveva appena indicato l'ora a tutti quanti e Machiavelli non avrebbe potuto essere più stanco.

Aveva fatto sosta a un'osteria che gli era stata consigliata e aveva sistemato il suo seguito in una locanda poco lontana.

La giornata era stata estenuante. Aveva patito il caldo, la fame, la sete. Avrebbe voluto sostare un momento a Salutare, che era dominio fiorentino, e quindi per lui un posto sicuro, qualche ora prima, per riprendersi, ma appena si era fermato ed era smontato da cavallo per domandare in giro di un posto in cui rifocillarsi, gli era stato raccontato un fatto tremendo.

Gli era stato detto da un paio di passanti che il giorno prima proprio lì quindici o venti balestrieri della Sforza avevano ferito quasi a morte tre uomini e ne avevano portato via un quarto, dando fuoco alla loro casa, saccheggiandola di ogni bene.

Quando aveva chiesto se la Tigre di Forlì ordinasse spesso di quelle incursioni, gli era stato risposto che difficilmente poteva esserci lei, dietro quell'attacco, ma che, comunque, con la sua distanza e con l'incuria di Firenze, che sembrava essersi dimenticata dei paesi di confine, quelle erano scene ormai all'ordine del giorno.

“E se non portano la rosa d'oro dei Riario e la biscia della Sforza – aveva concluso uno dei due passanti – portano il giglio di Firenze, o il leone dei Manfredi!”

“Grazie.” fece Niccolò, mentre l'oste gli metteva davanti un piatto fumante di stufato.

Prendendo il cucchiaio per cominciare, gli occhi del fiorentino si posarono su quella che doveva essere la moglie del locandiere. In carne, non giovanissima, ma da come sorrideva e ammiccava ai pochi avventori ancora intenti a mangiare, di certo doveva essere una di quelle che, all'offerta di un paio di monete, concedevano ai clienti anche un'ora insieme in camera, oltre alla cena.

Deglutì il primo pezzo di carne, un po' stopposa, dicendosi che quel finale di serata sarebbe stato decisamente un ottimo modo per ripagarsi del viaggio tragico che aveva dovuto affrontare.

Però, proprio mentre faceva avvicinare la donna, per vedere di accordarsi sul da farsi, intravide due uomini entrare nella locanda e andare a parlare con l'oste, che, in meno di un secondo, indicò proprio lui.

Scacciando di malagrazia la locandiera, Machiavelli restò in attesa e quando vide i due uomini avvicinarsi a lui, domandò: “Oh che, cercate me?”

Golfarelli e Del Bello, sentendo la pronuncia marcatissima del trentenne si guardarono e si sorrisero, quasi divertiti.

“Ci manda la Contessa Sforza.” disse il Capitano: “Siamo qui per parlarvi.”

Niccolò riservò al piatto di stufato uno sguardo malinconico, poi bevve un lungo sorso di birra e infine concesse: “Va bene. Chiediamo una stanza al piano di sopra, così noi si sta più tranquilli?”

“Abbiamo già fatto noi.” assicurò Guerrino, facendo cenno al fiorentino di alzarsi e seguirli.

Arrivati al piano di sopra, Machiavelli ci mise poco a riprendere in mano le redini e a mostrarsi non solo cordiale, ma addirittura amichevole.

“Voi siete..?” chiese, dopo essersi prodigato in auguri di buona salute verso la Contessa e la sua famiglia.

“Capitano Golfarelli e messer Del Bello.” disse quest'ultimo, e, nel parlare, mise la mano sul fianco, mettendo involontariamente in risalto la spada corta che portava alla cintura.

Niccolò deglutì, chiedendosi se, forse, non l'avessero attirato in una trappola. Non vedeva il motivo, di uccidere un ambasciatore come lui, ma tutti dicevano che la Tigre fosse pazza, dunque, perché cercare la logica nei ragionamenti di una donna folle?

“Avanti, spiegateci un po' di cosa siete venuto a discutere.” iniziò il Capitano, incrociando le braccia sul petto.

Il fiorentino, grattandosi la fronte spaziosa, si schiarì la voce, capendo che rifiutarsi sarebbe stato inutile, anzi, pericoloso, e iniziò a esporre la trafila che si era praticamente imparato a memoria durante il viaggio. In particolare aveva parlato della necessità di Firenze di trovare palle di cannone, povere da sparo e salnitro.

I due forlivesi ascoltarono tutto quanto senza dire nulla, tenendo gli occhi fissi su di lui e non interrompendolo mai, nemmeno con un colpo di tosse o un'alzata di sopracciglia.

Solo quando Machievalli lasciò intendere di aver concluso, Golfarelli decise di prendere la parola e replicò punto per punto: “Palle di cannone la nostra signoria ne aveva eccome, grandi, piccole, di ogni forma e misura, ma le avete usate tutte voi fiorentini per dare l'assedio a Vicopisano. Polvere da sparo... Anche di quella ne aveva parecchia. Almeno venti libbre, lasciate, pensate un po', dai francesi l'ultima volta che sono passati da qui. Ma un fulmine ha colpito il deposito, due anni fa, ed è esplosa. Salnitro... In Forlì ce ne saranno al massimo cento libbre. Capite bene che sua signoria non può privarsene. Però posso vendervene io un po', tramite un mio amico. Quaranta fiorini al migliaio.”

Siccome Machiavelli era stato colto da un improvviso vuoto allo stomaco, nel sentirsi dire che munizioni e polvere non c'erano più, si lasciò prendere la mano e chiese maggiori informazioni circa quel salnitro.

A notte ormai fatta, rintronato dalle parole di Golfarelli, Niccolò aveva preso onorevole impegno di mediare l'acquisto di cinquecentottantasette libbre di salnitro – di pessima fattura – per Firenze, pagando pure otto fiorini in anticipo per il compenso del carrettiere designato, un certo Tomaso di Mazolo. Il tutto sarebbe stato reso ufficiale il giorno dopo, quando l'Arciprete Faragano, facendo le veci di Niccolò, avrebbe chiuso la trattativa.

“Mi raccomando.” concluse Golfarelli, stringendogli la mano: “Scrivete a Firenze per dire che il pagamento va fatto subito.”

Machiavelli annuì e poi, prima che il Capitano e Del Bello potessero uscire cavandosela con un misero saluto, malgrado l'ora tardissima, decise di chiedere anche lui qualcosa, dopo tutte le domande fatte dai due forlivesi.

Domandò loro cosa sapessero del caso di Corbizzo Corbizzi e dei sospetti ricaduti su questo o quel forlivese ed entrambi, dopo aver scagionato se stessi, scagionarono tutti gli altri, adducendo storie credibili e fluenti.

Sconfitto, su quel fronte, felice solo di vederli entrambi taciturni nel chieder loro notizie di Dionigi Naldi – che, quindi, restava l'unico sospettato – alla fine il fiorentino si decise a lasciarli andare e rese loro noto che sarebbe arrivato a Forlì molto presto, quella mattina.

“Augurandomi, dunque, che il Conte Ottaviano e la Contessa Riario possano incontrarmi prima del mezzogiorno.” si era premurato di soggiungere, il viso spigoloso e ossuto illuminato da un sorriso mellifluo.

I due avevano sorriso e annuito, ma appena fuori dalla locanda, erano scoppiati a ridere.

“Se la chiama Contessa Riario due volte di fila, ci scommetto che la Tigre gli pianta il suo pugnale nella gola!” esclamò Golfarelli.

“Sicuro. E che si faccia spazio sulla Torre del Popolo, che arriva una nuova testa da mettere in mostra..!” stette al gioco l'altro.

 

Il sole era sorto da poco, ma Caterina e Giovanni erano svegli da un po'. Era stato un incubo di lei a strappare entrambi al sonno, ma, essendo tutti e due abbastanza pragmatici, avevano subito approfittato di quella finestra di tempo che li separava dall'inizio di una nuova giornata.

La Contessa era ancora sopra al suo amante, imponendosi su di lui con la medesima fermezza e voracità che aveva usato con Giacomo e che, quando le era stato permesso, aveva esercitato anche su Manfredi.

Il viso arrossato e sconvolto di Pirovano le sembrava una conquista degna di una medaglia, mentre dalla finestra entravano la luce del primissimo mattino e i suoni della rocca e della città che si risvegliavano. Le mani di lui la indagavano di continuo, risalendo fino al seno e poi scendendo di nuovo a stringerle i fianchi, seguendola nei suoi movimenti.

Con il respiro spezzato, la donna si appoggiava di continuo con il palmo della mano al petto e poi alle spalle dell'uomo che aveva nella sua rete e quando sentì bussare alla porta, dovette fermarsi e deglutire un paio di volte, prima di riuscire a chiedere: “Chi è?”

“Ho notizie dei balestrieri.” disse la voce dell'Oliva, trionfale.

Dando un colpo con il pugno chiuso al cuscino, a un soffio dalla testa del suo amante, in segno misto di soddisfazione – di rimando al tono del notaio – e di frustrazione – per essere stata interrotta così improvvisamente, la Tigre lasciò Giovanni lì dov'era e, coprendosi in fretta e furia con il lenzuolo strappato via dal letto, andò alla porta.

“Ditemi tutto...” fece, quando si trovò davanti l'Oliva.

Questi, avvezzo come gran parte dei collaboratori stretti della Sforza a non far caso alla sua noncuranza nel mostrarsi spesso e volentieri scarmigliata e in abiti discinti – o, come in quel caso, direttamente senza vestiti, ma coperta con mezzi di fortuna – le spiegò che i balestrieri erano stati individuati, presi e portati a Forlimpopoli. Avevano spiegato la loro azione come una ripicca personale, senza nemmeno sprecarsi in un'eventuale difesa.

“Va bene. Manderò qualcuno a sentire le loro ragioni e poi...” la voce della Tigre si spense in modo abbastanza eloquente.

“Certo, mia signora.” convenne l'Oliva, con gravità.

“Se non c'è altro...” fece la Contessa, stringendosi un po' nel lenzuolo, come a dire che aveva da fare.

“Sì, c'è un'altra cosa, in realtà...” soggiunse il notaio: “Messer Machiavelli è arrivato ieri sera a Castrocaro e ha fatto sapere che arriverà a breve qui. Per vedere vostro figlio e voi.”

“Mio figlio...” soffiò la Sforza, guardando altrove: “Va bene, grazie. Quando... Quando questo Machiavelli fatemi avvisare. Se per caso non fossi alla rocca, ditegli di avere pazienza. Sono una donna sola che deve guidare uno Stato, credo di meritare un po' di pazienza da parte sua, non credete?”

“Certo, mia signora.” fece di nuovo l'Oliva, con un inchino ossequioso.

Caterina lo ringraziò e tornò in camera, chiudendosi la porta alle spalle. Stava ragionando in fretta.

Voleva evitare che Ottaviano potesse parlare con il fiorentino. Voleva scongiurare in ogni modo un incontro tra loro perché suo figlio era inaffidabile e pavido e, avendo formalmente il titolo di Conte, avrebbe potuto combinare qualche disastro senza nemmeno accorgersene.

Giovanni da Casale era rimasto steso a letto, un cuscino per coprirsi un po', nel caso malaugurato in cui la sua donna fosse rientrata seguita da qualcuno dei suoi collaboratori.

Caterina lo guardò solo un istante, mentre spostava il guanciale, mostrandosi a lei di nuovo per intero, ma non gli si avvicinò. Gli lanciò il lenzuolo e cominciò a cercare i suoi vestiti.

“Aspetta... Almeno finiamo quello che abbiamo iniziato, no?” le chiese lui, afferrandola per un braccio.

Sporgendosi verso di lui, assecondando la sua mossa, la Sforza gli diede un rapido bacio sulle labbra e gli disse solo: “No, non ho tempo, adesso.”

Pirovano non ebbe la forza di protestare, limitandosi a ricadere sul letto, le mani giunte sul petto come un morto e lo sguardo al soffitto.

Una volta pronta, la Contessa uscì dalla stanza e si diresse senza indugio verso quella di Ottaviano.

La porta non era chiusa a chiave e così la donna poté entrare senza annunciarsi. Trovò suo figlio profondamente addormentato, con addosso ancora i vestiti del giorno prima e un fortissimo odore di vino ad aleggiargli attorno. Non era difficile capire come avesse trascorso la notte.

“Svegliati. Svegliati!” gridò.

Il giovane si riscosse, spalancando gli occhi terrorizzato appena si vide davanti la madre e, anche se a fatica, si mise subito seduto.

“Vestiti e sistemati. Voglio che tu vada subito a Forlimpopoli.” disse Caterina, senza guardarlo e tornando già alla porta: “Ho bisogno che tu faccia una cosa per me.”

 
 
   
 
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