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Autore: Adeia Di Elferas    16/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“A fare cosa?” chiese Ottaviano, guardingo, ma con un tono abbastanza docile.

Sua madre gli pareva già abbastanza indispettita per conto suo. Non sarebbe stato saggio farla arrabbiare ancora di più solo per togliersi la soddisfazione di alzare la voce.

“Hanno portato là dei prigionieri che hanno usato le nostre insegne per una scorreria non autorizzata a Salutare.” spiegò la donna, restando sulla porta, tesa, come se restare troppo a lungo in quella stanza le potesse essere fatale: “Che è ancora in territorio fiorentino, se per caso non lo sapessi.”

Il Riario parve improvvisamente spaventato da quella prospettiva e, puntandosi un lungo indice al petto, domandò, con voce un po' tremante: “E che dovrei andare a fare, io, a Forlimpopoli, con dei prigionieri?”

“Non ti sto chiedendo di giustiziarli, se è questo di cui hai paura.” soffiò la donna, senza guardarlo, trattenendosi a stento dal dirgli che lo sapeva capace anche di peggio: “Devi solo presenziare all'interrogatorio e restare a Forlimpopoli almeno per un giorno o due.”

Il giovane parve ragionarci un istante. Era chiaro, a quel punto, che quello fosse solo un pretesto per non averlo tra i piedi lì a Forlì.

“Starai alla rocca, da tuo zio Piero.” concluse Caterina, senza attendere ulteriori repliche: “E gli scriverò per dirgli di tenerti d'occhio. Combina anche solo un disastro, mentre sei da lui e te ne pentirai, puoi giurarci. Preparati, partirai tra un'ora.”

Siccome la madre era già uscita in corridoio, Ottaviano trovò il coraggio di lasciarsi andare a un sonoro sbuffo, ma subito dopo si mise a cercare nella sua cassapanca per raccattare qualche abito da portare con sé a Forlimpopoli.

 

Ludovico uscì da Santa Maria delle Grazie stringendo gli occhi contro il sole. Vi era entrato che faceva ancora buio e ne usciva con la luce tersa e spietata del mattino.

Era rimasto sulla tomba di Beatrice per ore, incapace perfino di pregare, paralizzato dalla paura.

Gli avevano detto, la sera prima, che probabilmente i francesi avrebbero forzato il confine proprio in quei giorni e, per lui, era stato come un colpo di scure. La nebbia che di norma inondava la sua Milano in novembre, era calata sulla sua mente, benché fosse la metà di luglio.

Aveva cercato prima conforto tra le braccia della sua Lucrezia Crivelli, ma nel cuore della notte non gli era bastata, quell'illusoria consolazione, ed era uscito, vestito di scuro e con un cappuccio in testa per non farsi riconoscere da nessuno. Aveva camminato fin da subito con una meta ben precisa, ma era tanto agitato da sbagliare strada tre volte, prima di trovare quella diretta alla chiesa in cui riposavano i resti di sua moglie.

Coprendosi bene la fronte con la stoffa un po' ruvida della cappa, l'uomo mosse qualche passo un po' ciondolante. Aveva le gambe molli e l'idea di tornare al palazzo di Porta Giovia l'atterriva. Aveva paura dei discorsi sulla guerra, delle pianificazioni, degli errori che, di certo, avrebbe commesso.

Confuso com'era, quasi non si avvide di un volto familiare che, in abiti stranamente sobri, stava raggiungendo a passo svelto un luogo molto vicino a Santa Maria delle Grazie.

Quando il barlume di lucidità che gli era rimasto gli permise di mettere a fuoco il viso del suo domine magister, alzò una mano ed esclamò: “Maestro Leonardo!”

Questi, che aveva riconosciuto molto bene il Moro, ma che aveva sperato fino alla fine di non essere visto, fece un cenno con il capo, continuando a camminare, nel tentativo di non farsi fermare.

“State andando alla vostra vigna?” chiese il Duca, iniziando a seguirlo, benché avesse intuito l'insofferenza dell'artista.

Leonardo annuì e disse, un po' secco: “Sì, e voglio arrivarci in fretta.”

“Costruitemi una macchina da guerra, domine magister.” fece Ludovico, la voce acuta e una delle sue manone che si protendeva verso il vinciano per attirarne l'attenzione e fermarne l'avanzata: “Un soldato semovente che possa distruggere un esercito... Un carro, che sia armato e possa avanzare su qualsiasi terreno schiacciando i nemici con il suo peso. Un uomo volante che...”

“Basta!” sbottò Leonardo, fermandosi tanto di colpo da farsi quasi travolgere dallo Sforza: “Ci abbiamo già provato, Duca, e non ha funzionato! Non c'è tempo! Dovevate chiedermelo prima, molto prima! Avrei avuto modo di pensarci, ma come potete pretendere che ci si metta a lavorare a una simile magnificenza con i francesi che premono alle porte?”

Il tono perentorio e quasi offeso con cui aveva parlato il toscano ebbe il potere di congelare il Moro. Gli occhi scuri e un po' pesti, che portavano i segni di una notte insonne, vagarono sul viso del suo coetaneo. Avevano entrambi quarantasette anni, ma nella luce piena di quella mattina a Ludovico Leonardo parve molto più giovane.

“Vi... Vi aspetto a palazzo, più tardi... Per... Per parlare di quel vostro affresco...” borbottò il Duca, voltando le spalle all'amico e incamminandosi, impotente e atterrito come non mai, in direzione di casa.

 

“Mia signora... Messer Machiavelli è alla porte della città.” annunciò Cesare Feo, arrivando nel cortile d'addestramento proprio mentre Caterina si stava infilando l'imbottitura in cuoio per cominciare ad allenarsi.

La donna fece segno al maestro d'armi, che le stava porgendo la spada, di aspettare un momento e, rivolgendosi al castellano chiese: “Gli hanno detto che sono alla rocca?”

“Non gli è stato ancora detto nulla. Sta aspettando il permesso di entrare a Forlì assieme alla sua scorta.” spiegò l'uomo, mentre la Tigre già cominciava a slacciarsi i nodi che tenevano ferme le protezioni in cuoio.

“Scorta armata, immagino.” sbuffò la Sforza, lanciando l'imbottitura al maestro d'armi e facendogli segno di andarla a rimettere a posto.

“Esatto, mia signora.” annuì Cesare.

“Allora, intanto disarmateli. Con calma. Frugateli bene e se avranno da ridire, peggio per loro, ci vorrà solo più tempo... Quando saranno disarmati, lasciateli entrare e fategli sapere che sono fuori per una missione improvvisa.” fece la Contessa, andando verso le stalle.

“E se chiedesse di vostro figlio?” chiese il Feo, per essere sicuro di avere tutte le risposte necessarie.

“Gli direte che è a Forlimpopoli, senza dare altre spiegazioni.” tagliò corto Caterina.

“Molto bene, mia signora.” fece il castellano e, salutandola con un cenno del capo, disse: “Faremo tutto con calma, come avete chiesto voi.”

“Ah, e dite a Bianca di tenere Giovannino al chiuso, non voglio che questo fiorentino gli si avvicini per nessun motivo.” soggiunse la Leonessa, sparendo nelle stalle.

Richiamò l'attenzione di uno degli stallieri, dicendogli di sellarle in fretta il suo stallone e, intanto, andò nella sala delle armi a prendere la lancia da cinghiale e arco e frecce.

Mentre tornava con tutto l'armamentario del caso, sentì uscire dalle stalle le grida indispettite proprio dello stalliere a cui aveva chiesto di prepararle il cavallo. Stava rimproverando qualcuno, dicendogli di ridargli immediatamente i finimenti e che 'vostra madre non sarà per niente contenta, quando lo saprà'.

Stringendo le labbra, già immaginando che scena le si sarebbe parata davanti, varcò l'ingresso della stalla e, in un turbine di polvere e paglia, vide lo stalliere che acciuffava Bernardino dopo quella che doveva essere stato un difficile inseguimento.

Con il fiato corto, il giovane lasciò subito la presa sul ragazzino, e provò a spiegarsi farfugliando scuse e dicendo che il Feo aveva preso le briglia proprio mentre lui le stava mettendo allo stallone.

A differenza del solito, Bernardino non era scappato. Se ne stava immobile a fissare la madre, con un barlume di sfida nei grandi occhi, quasi che sperasse di vedersi punito. Quell'atteggiamento, alla Tigre ricordò troppo da vicino quello che Ottaviano aveva dimostrato più o meno alla stessa età.

Era come se una punizione fosse comunque meglio di niente. Un modo come un altro per farle notare la sua esistenza.

“Ridai le briglia allo stalliere.” ordinò Caterina, con fermezza e, come si era aspettata, il figlio fece come gli era stato detto.

Attese che lo stallone fosse perfettamente bardato, con tanto di armi assicurate alla sella, e poi disse a Bernardino, che era in attesa di conoscere la sua sorte: “Sto andando a caccia. Il nuovo ambasciatore di Firenze sta entrando in città e non voglio che tu combini qualche guaio proprio mentre sarà qui. Quindi verrai con me nei boschi.”

Il ragazzino sgranò gli occhi, quasi non capendo quello che gli era appena stato detto. Si era aspettato parole di biasimo e, probabilmente, l'ordine di aiutare il suo prozio Cesare in qualche noiosa faccenda, e invece era come se sua madre avesse deciso di premiarlo per quella che era stata una marachella come tante altre.

“Avanti.” lo invitò, montando sullo stallone e invitandolo a fare altrettanto.

Agile come un gatto, allenato dalle sue scorribande nei bassi fondi, il piccolo si arrampicò sul cavallo in un secondo e, ancora un po' stordito per quell'improvviso giro della sorte, si aggrappò alla madre con un sorriso beato stampato in faccia.

Caterina non gli disse null'altro e spronò la bestia, diretta verso l'uscita. Uscirono per una porta diversa da quella di Ravaldino – da dove stava per entrare Machiavelli – ma nel giro di poco si trovarono comunque nel cuore della riserva di caccia della Tigre.

 

“Mi spiace, ma la Contessa è impegnata in una spedizione molto importante.” spiegò Cesare Feo, quando si trovò davanti il fiorentino.

Machiavelli, grattandosi a disagio il naso affilato, chiese: “E non poteva farmelo sapere prima? Mi sono messo in strada all'alba, per essere qui presto.”

“Nessuno ve l'ha chiesto.” fece notare il castellano, restando tranquillo: “E comunque si è trattato di una cosa molto improvvisa: non avrebbe potuto avvisarvi in ogni caso.”

Aveva deciso di incontrare Niccolò nel primo cortiletto della rocca, offrendogli una visione molto parziale dell'edificio interno. Finché non fosse stata la Sforza in persona a permettere di più, per Cesare quello era il massimo che uno straniero potesse scorgere.

“Quando tornerà?” chiese allora l'ambasciatore, cercando di recuperare una parvenza di cordialità, mascherando come poteva il suo profondissimo disappunto.

“Ah, questo purtroppo non so proprio dirvelo.” sollevò le spalle il Feo: “Vi manderà a chiamare lei, appena potrà ricevervi. Lasciate pure detto a me dove alloggiate.”

Il fiorentino, che aveva sperato di poter restare alla rocca, bofonchiò che avrebbe cercato una locanda e che avrebbe mandato qualcuno per riferire l'indirizzo.

“Molto bene.” concluse il castellano, indicandogli il portone d'ingresso con una mano: “Per il momento io non ho altro da dirvi, quindi vi conviene andare a riposarvi dal viaggio. Sarete stanco.”

“Non posso, intanto, incontrare il Conte Riario? In fondo è anche e soprattutto a lui che si rivolge la mia ambasceria...” propose Niccolò, riacquistando la sua proverbiale prontezza, fino a quel momento messa molto alla prova da quell'inconveniente.

“Mi spiace, ma il Conte è a Forlimpopoli.” spiegò Cesare e, anticipando la domanda del toscano, soggiunse: “E non mi è dato di sapere per quale motivo.”

Machiavelli avrebbe voluto ribattere in qualche modo, magari facendo notare come trattare a quel modo un uomo della sua levatura e del suo peso politico fosse quanto meno una mossa azzardata, da parte dei Riario, ma siccome era giunto a Forlì per chiedere, più che per concedere, era anche nel suo interesse non urtarsi con i padroni di casa. Se fosse riuscito a tornare a Firenze con quanto desiderato dalla Signoria, e senza aver fatto troppe concessioni, avrebbe spianato la sua strada verso una carriera fulgida, mentre al contrario sarebbe stato relegato a qualche carica magari ben retribuita, ma del tutto passiva.

“Bene. Allora mi si farà chiamare al momento giusto.” concluse Niccolò, l'espressione di chi ha appena dovuto ingoiare un limone intero.

Il castellano annuì e gli indicò di nuovo il portone, e questa volta l'ambasciatore non poté fare altro, se non andarsene.

 

Caterina e Bernardino avevano lasciato il cavallo legato a un albero a debita distanza dalla posta che avevano scelto.

La Tigre non si aspettava di fare caccia grossa, tanto meno con il bambino che aveva con sé, visto che a ogni passo pestava qualche rametto secco o lanciava una mezza esclamazione per qualcosa che aveva visto, dimostrandosi decisamente poco adatto a un'attività che invece avrebbe richiesto molto silenzio e attenzione.

In confronto a lui, Galeazzo era un cacciatore nato e la Sforza un po' si rammaricò di non aver portato con sé il figlio più grande al posto di Bernardino.

Era stato un gesto d'impulso, caricarselo sul cavallo e portarselo nei boschi. L'idea iniziale era stata quella di uscire a caccia per liberare la mente e dare il tempo all'ambasciatore fiorentino di capire che a Forlì era lei a decidere gli orari delle visite. Soprattutto, però, aveva subito pensato di scappare nei boschi per pensare. Voleva pianificare bene ogni cosa, cercare di prepararsi, anche in virtù di quanto le era stato riferito da Golfarelli prima di lasciare la rocca, a ogni possibile domanda o attacco di Machiavelli.

E invece, portando con sé il piccolo Feo, si era preclusa quasi per intero la possibilità di chiudersi in sé stessa e immergersi nei propri ragionamenti.

A un certo punto, finalmente, intravide le orecchie di una lepre. Fece segno a Bernardino di stare in silenzio, posandosi l'indice sulle labbra e poi incoccò la freccia. Con la coda dell'occhio, però, vide il viso del bambino scurirsi appena, come coperto da un velo di delusione.

Con lentezza, senza fare il minimo rumore, Caterina ridusse la tensione sulla corda e porse l'arma al figlio. Questi la prese, riuscendo, bene o male, a fare il tutto in silenzio. Prese la mira, puntando la lepre che, ignara, fiutava l'aria.

Il cespuglio scelto dalla Sforza forniva loro un ottimo riparo e, essendo controvento, la bestiolina non poteva in nessun modo accorgersi di loro.

Quando Bernardino tese la corda, però, lo fece con troppo impeto e troppo all'improvviso. Il suono sgraziato e letale fece scappare immediatamente la lepre e la freccia andò a vuoto, piantandosi nel terreno a qualche spanna di distanza dal punto in cui stava l'animale fino a poco prima.

“Non importa.” tagliò corto la Contessa, alzandosi per andare a recuperare la freccia.

Mentre gli teneva le spalle voltate, la donna sentì il figlio esternare la propria rabbia per quanto accaduto con uno sbuffo e poi, quando si girò di nuovo verso di lui, lo scorse a dare un calcio all'aria, strappando, nella furia del gesto, qualche filo d'erba verdissima e fresca con la punta del piede.

Improvvisamente nell'animo della Tigre, la tentazione avuta fin dal colpo mancato, ovvero quella di riprenderlo per la sua leggerezza, che ricordava con troppa nettezza l'incapacità dimostrata anche da Giacomo nell'andar per boschi e a caccia, svanì.

Non poteva sconfiggere la natura di suo figlio. Se per certi versi le somigliava, aveva preso dei tratti peculiari del padre e forzarlo a essere diverso non avrebbe avuto molto senso. Senza contare che provarci avrebbe richiesto pazienza e tempo, due cose di cui la Leonessa si sentiva totalmente sprovvista in quel momento.

Così, quando si spostarono in un punto dalla vegetazione più rada, invece di dargli spiegazioni o convincerlo a riprovarci, gli fece tenere la lancia e la faretra. Tenere le armi per lei era la cosa più utile che potesse fare, così come aveva fatto sempre Giacomo, quando l'accompagnava a caccia.

 

“Quindi intendete partire presto?” chiese Bianca, guardando la zia di sottecchi.

La donna, che stava facendo giocare Giovannino, annuì e si fece più seria, nel rispondere: “Sì, sono stata lontana dai miei figli anche troppo.”

La Riario immaginava che nella decisione di Chiara avesse avuto molto peso anche l'atteggiamento della Contessa, ma non volle farne cenno. In quelle settimane non era riuscita a capire se la presenza della zia fosse o meno positiva, per tutti loro.

Quella mattina, mentre Ottaviano e Sforzino erano a lezione, Galeazzo ad allenarsi e sua madre a caccia – a quanto pareva assieme a Bernardino – a Bianca non era rimasto altro che dedicarsi prima alla lettura di un libro e poi, come da espressa richiesta del castellano, al fratellino più piccolo.

“Di chi era la lettera che stavi leggendo, quando sono entrata?” chiese di punto in bianco Chiara, lasciando il piccolo Medici al suo destino e mettendosi a guardare la nipote con una strana espressione in viso.

Ecco, era quel genere di atteggiamenti che lasciava la Riario in dubbio, circa la positività o meno della presenza della Sforza a Ravaldino.

Non avrebbe voluto risponderle, anche solo per lasciarla preda della curiosità, ma in quel caso, forse, era meglio spegnere la sua attenzione dicendo semplicemente la verità: “Era una lettera di mio fratello Cesare. Ha scritto a me e Ottaviano per dirci che sta bene e che presto partirà per Pisa.”

“Non è ancora partito?” chiese Chiara, credendo di aver capito il contrario, quando ne aveva parlato con Caterina qualche giorno addietro.

“Ecco...” Bianca si morse il labbro e poi, schiarendosi la voce spiegò: “Mio cugino, il Cardinale Raffaele Sansoni Riario, ha ritenuto opportuno tenerlo presso di sé a Roma finché la situazione nel pisano non sarà più stabile.”

“Un Riario, fidarsi a stare a Roma..! Dicevano che i Riario avevano la testa d'asino, ma non credevo fino a questo punto...” soffiò la Sforza, quasi soprappensiero e poi soggiunse, a mo' di scusa per quell'infelice intercalare: “Insomma, il papa non ha fatto mistero di volervi togliere queste terre. Io non sarei mai andata in Vaticano, sapendolo.”

“Però siete venuta qui, pur sapendo che vostro marito sta accettando una condotta del papa, quando proprio il papa sembra disposto a marciare sulle nostre terre.” ribatté Bianca, fredda.

Giovannino, seduto sul tappeto davanti a loro, aveva colto il cambio di tono delle due donne e, accigliato, fissava prima la sorella e poi la zia.

“Tua madre è mia sorella.” fece notare Chiara, perdendo un po' di colore in viso, nello scoprire la nipote così informata.

Aveva conosciuto molto poco la giovane Riario, durante il suo soggiorno e se in un primo momento l'aveva creduta solo una ragazzetta scialba e pacata, gentile, ma senza alcuna particolarità degna di essere ricordata, con il passare dei giorni aveva imparato a riconoscere in lei una vasta cultura e una certa vivacità di mente. Tuttavia non si era aspettata che fosse così interessata alle vicende politiche, né che avesse la lingua abbastanza affilata da riuscire a dire simili cose.

“A maggior ragione.” sussurrò atona Bianca, puntandole gli occhi blu addosso, come una condanna: “Siete sua sorella. Come avete potuto sfruttare a questo modo il vostro sangue?”

Chiara schiuse le labbra, per controbattere di nuovo e, intanto, Giovannino si era alzato, andando incontro alla sorella e allungando le braccia per farsi prendere in braccio.

“Non c'è bisogno che diciate nulla.” concluse la Riario, afferrando il fratello e alzandosi, diretta alla porta: “Mia madre ha deciso di ospitarvi comunque e io la rispetto, per questo. Però sono sollevata, nel sapervi in partenza.”

Lasciata la sala delle letture, senza prendersi il disturbo di controllare come sua zia avesse preso quella brusca conclusione, la giovane attraversò parte del corridoio, e solo dopo una decina di passi si accorse di avere le gambe molli e la fronte imperlata di sudore freddo. Non era nelle sue corde, osare tanto nel parlare, ma non era riuscita a trattenersi.

Come sentendo l'agitazione della sorella, il bambino sollevò una delle sue manine dalle dita tozze e le sfiorò la guancia. Bianca abbassò lo sguardo su di lui e poi, con un sospiro, cercò di sorridere.

Quello sforzo fu premiato con un sorriso pieno che andò a illuminare gli occhietti allungati del piccolo Medici, e così la Riario trovò lo spirito per dire: “Avanti. Andiamo in camera mia. Ti leggo qualcosa...”

 

“Nemmeno la mia mira oggi è delle migliori...” fece Caterina, indicando il collo squarciato del cervo che aveva appena ucciso: “Di norma riesco a colpirli in modo più preciso. Non ha senso farli soffrire per niente.”

La ferita, non molto centrale, aveva lasciato alla bestia qualche secondo di agonia di troppo, per i gusti della donna e toglierle la vita con un colpo aggiuntivo di pugnale le aveva fatto tornare alla mente memorie di molti anni addietro, cose che, in giorni come quello, avrebbe quasi voluto scordare.

“Aiutami a macellarlo...” fece piano la Tigre, facendo un cenno a Bernardino affinché le si avvinasse.

Farsi aiutare da un bambino di nemmeno dieci anni aveva poco senso, da un punto di vista pratico, ma l'attenzione e l'orgoglio che trapelavano da ogni gesto del figlio valsero tutta la fatica.

Mentre la Contessa finiva di preparare la carcassa, lo stomaco del Feo borbottò. Ormai era passato mezzogiorno e anche la Sforza cominciava ad avere fame.

“Sei capace di accendere un fuoco?” chiese, guardandolo di sottecchi.

Erano entrambi sporchi di sangue e anche se avevano le maniche ai gomiti, anche i loro abiti si erano macchiati. A vedere il figlio così coperto di rosso, a Caterina venne una strana stretta al cuore.

Era un'immagine evocativa, forte, e dovette forzarsi a levare lo sguardo e tornare a concentrarsi sulla carne, per non rischiare di ferirsi da sola con il pugnale per colpa della distrazione.

Bernardino aveva annuito e, senza attendere altre disposizioni, cominciò a fare lo spazio per un piccolo fuoco. Era stato abbastanza preciso e coscienzioso, mettendo una fila doppia di sassi a delimitare il falò, per evitare incidenti.

Compiaciuta per quella dimostrazione di buon senso, la donna tagliò qualche striscia di muscolo dal cervo, infilando poi il primo pezzo di carne – ancora tiepida – sulla punta del pugnale e offrendola al figlio.

Abbrustolirono un pezzo per volta e, senza rendersene conto, finirono con la pancia tanto piena da non riuscire quasi più a parlare.

La giornata era molto calda, ma nel fitto del bosco si respirava ancora una certa brezza. Le fronde fitte degli alberi, poi, offrivano loro un'ombra pressoché perfetta e così, finito di pranzare e spento il fuoco, si presero un po' di tempo per riposare contro un tronco.

La Tigre non voleva pensare a quello che l'aspettava in città. Era sfuggita proprio per avere un attimo di totale decompressione. Forse era incosciente, da parte sua, ma era sicura che Forlì potesse cavarsela senza di lei per mezza giornata o poco più.

Con un sospiro, sollevò una mano davanti a sé e, distrattamente, cercò di ripulirla un po' dal sangue secco usando un filo d'erba. Vedendola, Bernardino decise di imitarla, provando a fare altrettanto.

Incuriosita nel vedere il figlio copiarla, la donna lo tenne d'occhio, con discrezione, notando come seguisse passo a passo tutti movimenti che faceva lei. Dopo un po', però, dal seguirne le mosse, la Contessa si mise a osservarne l'aspetto.

I suoi capelli castani, grossolanamente mossi, le ricordavano quelli di Giacomo. L'espressione dei suoi occhi, la piega presa dalle sue labbra morbide e perfino la curva del mento. Non era una goccia d'acqua con il padre, ma chiunque avrebbe detto che Bernardino era figlio del Barone Feo.

Soprappensiero, smettendo per un attimo di cercare di ripulirsi, la Leonessa allungò una mano verso il volto del figlio. Questi, sorpreso, non fece nemmeno in tempo a spostarsi o reagire in altro modo e così la madre riuscì a seguire il profilo del suo naso.

“Hai il naso di tuo padre...” gli disse, in un bisbiglio appena udibile.

Il modo in cui il ragazzino sollevò lo sguardo verso di lei, un po' dubbioso e un po' rapito nel sentirla parlare a quel modo, fece stringere la gola della Sforza che, per non rischiare di ricadere nel baratro di dolore che si era aperto sotto di lei alla morte del secondo marito, si alzò di scatto, tornando alla carcassa del cervo.

“Aiutami a caricarlo a cavallo. Torniamo alla rocca... Non posso assentarmi a lungo.” gli disse, con la voce un po' tremante.

Siccome il figlio, però, era rimasto al suo posto, Caterina si voltò a controllare come stesse. Era immobile, le braccia attorno alle ginocchia e la fissava.

Nei suoi occhi non c'erano più né ammirazione, né affetto, né altro se non rabbia. Alla Tigre quello sguardo dava una fitta al petto, perché lo conosceva anche troppo bene.

Lasciando di nuovo il cervo al suo destino, si rimise a sedere accanto a Bernardino e sospirò, decidendo che scappare, quella volta, non le sarebbe servito a nulla se non a perdere anche quel figlio, per lei così prezioso eppure così difficile da tenersi vicino: “Io la conosco, la rabbia che hai dentro. È la stessa che ho io.”

Al sentire quelle parole, l'ira del piccolo Feo parve affievolirsi, ma senza svanire del tutto.

“Ma devi cercare di dominarla, o vivrai sempre male.” continuò la donna, deglutendo e prendendo fiato un paio di volte: “Lo so perché ti cacci sempre nei guai e se non riesco a darti l'attenzione che vuoi... Facendo quello che non devi, non ne otterrai di più. Io penso sempre a te, non credere il contrario, ma non riesco a...”

La voce della Contessa era sfumata fino a spegnersi, segno della sua incapacità di portare a termine quel pensiero. Tuttavia, quando riprese a parlare, aveva già ritrovato il tono perentorio che di norma usava per i suoi sottoposti, più che per i suoi figli.

“E non farti più chiamare Carlo.” lo rimbrottò.

Ogni volta che lo sentiva chiamare a quel modo le tornavano alla mente i litigi tra lei e Giacomo, la sua sensazione di incredulità, quando aveva scoperto che il marito aveva deciso di far ribattezzare il loro unico figlio senza nemmeno consultarla. Il motivo, poi, di quella decisione, era coinciso con la più grande dimostrazione di incapacità politica e militare del Feo e quindi ricordare quella parentesi le sembrava dannoso e basta, per tutti.

“Perché?” chiese Bernardino.

“Perché è il nome del vecchio re di Francia, e noi siamo nemici della Francia.” spiegò la madre, senza fare una piega.

“Il nome Carlo è tutto ciò che mi ha lasciato mio padre.” ribatté con semplicità il bambino, sperando, a tal modo, di essere finalmente capito.

In effetti, davanti a quella spiegazione, la Leonessa non seppe come commentare e lasciò perdere.

“Perché quando ero piccolo mi avete mandato via dalla rocca?” proseguì il Feo, deciso a sfruttare quel momento di vicinanza con la madre per scandagliare una volta per tutte quegli arcani che a volte gli toglievano il sonno: “E perché non venivate mai a trovarmi? Io ricordo che veniva solo mio padre, mentre voi mai. È perché non mi volevate?”

Quella che era chiaramente solo una richiesta di spiegazioni, alla Sforza parve una serie di pesanti accuse. Sapeva di aver sbagliato, ma non aveva avuto scelta. Tra il soffrire per la lontananza del figlio e il rischiare lo Stato e la vita per la sua presenza, scegliere era stato facile. Non ne andava fiera, ma era così.

“Non è facile da spiegare...” iniziò, ma accorgendosi della piega scettica presa delle sopracciglia del piccolo, provò a spiegarsi come meglio poteva: “Nessuno doveva sapere che io e tuo padre eravamo sposati, tanto meno che io ero tua madre. L'ho fatto per salvare la vita a tutti noi. Ma ti sia chiaro che ti voglio bene, tanto, così come amavo immensamente tuo padre. Quando sei nato, ero la donna più felice del mondo. Non avrei rinunciato a te per nessun motivo al mondo. Tuo padre ti ha visto nascere, era al mio fianco e...”

La voce le si ruppe per un istante, richiamando alla memoria quella scena. Poteva rivedere distintamente Giacomo, tremante di gioia, che aspettava con ansia di vedere suo figlio e di sapere sia lui sia lei fuori pericolo e in salute. Ricordava anche di Bernardino Ghetti e sua moglie, di come, in quel frangente, fossero stati loro fedeli e preziosi, tanto da dar loro l'idea per il nome da dare al bambino.

Le sembrava passata una vita intera.

“Io avrei voluto tenerti accanto a me, crescerti fin dal primo momento, ma era troppo pericoloso e ho avuto paura di perderti. Così ho preferito salvaguardare la tua sicurezza, prima ancora che assecondare il mio desiderio, e forse ho sbagliato.” concluse: “Però adesso ti ho ancora al mio fianco, mentre se avessi ceduto a quel che mi chiedeva il mio cuore, forse ora non saremmo qui.”

Il bambino ci mise qualche minuto, prima di ritenersi soddisfatto e solo quando fece un breve cenno d'assenso con il capo, Caterina si ritenne libera di parlare d'altro.

Tirandosi in piedi, la Contessa gli porse una mano e chiese: “Allora, mi aiuti a mettere il cervo sul cavallo?”

“Torniamo a piedi, quindi?” domandò il Feo, mentre le dava manforte, per quel che poteva, con la carcassa.

“Se camminare un po' non ti spaventa...” sorrise lei.

Bernardino ricambiò il sorriso e, tranquillo come non lo era da tempo, forse da mai, si offrì di tenere le redini. Caterina accettò, convinta che accordargli un po' di fiducia fosse fondamentale, dopo i discorsi di quel pomeriggio.

Felice e fiero, il ragazzino strinse le briglia con sicurezza e si mise a seguire la madre per i boschi, fidandosi ciecamente della sua guida.

 
 
   
 
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