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Autore: Adeia Di Elferas    25/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“E vediamo di riceverlo al mattino, se è questo, quello che vuole.” cedette Caterina, dopo che il castellano le ebbe fatto sapere che Machiavelli aveva mandato un messaggero alla rocca per chiederle di potersi incontrare presto.

La Sforza disse poi a Cesare Feo di convocare l'ambasciatore a palazzo nel giro di un'ora, perché prima doveva sistemare alcune faccende e rispondere alla corrispondenza.

Era già stufa, del nuovo ambasciatore di Firenze. Non solo le era risultato antipatico fin dal primo sguardo, ma la sua insistenza – come se lei non avesse altro a che pensare, se non alle sue chiacchiere – le stava facendo perdere la pazienza una volta per tutte.

Andò quasi di corsa in camera sua, dove Giovanni da Casale si stava ancora vestendo. Era da poco passata l'alba, ma Ravaldino era già in piena attività. Vedere la lentezza con cui il giovane si infilava gli stivali, fu solo legna gettata nel fuoco già acceso dell'irritazione della Tigre.

Con uno gesto di stizza gli disse: “Sbrigati a prepararti, voglio sia tu a sovrintendere al Quartiere Militare questa mattina. Ho un impegno.”

“Il fiorentino?” chiese, con uno sbadiglio, Pirovano: “Cos'ha deciso? Di volerti vedere un giorno sì e l'altro pure?”

“Ha fretta di chiudere la trattativa.” alzò le spalle la Sforza: “E non ha capito che invece io voglio prendermi tempo.”

“Vengo con te, se vuoi.” si propose l'uomo, mettendosi in piedi e arrivandole accanto.

Le mani, che il suo amante aveva premurosamente appoggiato sulle spalle, alla Contessa sembrarono improvvisamente due tenaglie che in qualche modo volessero contenerla, e non due solidi appigli a cui aggrapparsi nella difficoltà.

Non era la prima volta che le succedeva di provare una sensazione del genere. Anche se non riusciva a stare da sola – ci aveva provato, ma alla fine aveva sempre cercato un uomo da tenersi accanto, o almeno qualcuno con cui passare qualche ora di distrazione – quando una relazione iniziava a farsi più seria, la sua anima le riproponeva un'antica paura. Il matrimonio, troppo lungo e troppo costrittivo, con Girolamo le aveva lasciato anche quello spiacevole reliquato: era come se qualsiasi figura assimilabile a un marito o comunque a una presenza maschile stabile, rischiasse di trasformarsi in un limite, in una gabbia, o, ancor peggio, in un nuovo padrone.

Con Giacomo quella sensazione non l'aveva provata praticamente mai, malgrado tutto. Lui era più giovane, più ingenuo, tremendamente più debole di lei. Al suo fianco Caterina aveva sempre avuto l'illusione di essere potente e di poter comandare, senza mai farsi forzare in nulla. Forse non era stato così su ogni fronte, ma almeno su quello sentimentale, alla Leonessa era parso di poter essere la parte forte della coppia.

Con Giovanni, poi, la situazione era stata ancora diversa. Lui era stato un uomo dolce, sicuro di sé, ma mai intrusivo. Era il cuscino ideale, per un carattere spigoloso come quello della Sforza. Con lui la sensazione era quella di fare le cose alla pari, senza lotte di potere, né giochi di forza.

Con Manfredi, invece, si era trattato di un continuo prevaricarsi a vicenda, saggiare il potere dell'altro per cercare di imporsi. Una sorta di guerra continua che a tratti glielo faceva odiare e a tratti la rendeva dipendente da lui.

Con Pirovano, invece, la Tigre ancora non aveva capito come fosse la faccenda e in attimi, fugaci e impalpabili, come quello, finiva per farsi vincere dalla paura.

Anche se con lui era stata chiara fin dal principio, cercando in ogni modo di mantenere ben chiare le loro posizioni – lei comandava e lui doveva ubbidire – in alcuni momenti si sentiva comunque minacciata, anche se, probabilmente, il suo era solo un sentimento irrazionale.

“No, Machiavelli lo voglio incontrare da sola, questa volta.” fece la Contessa, rigida, scostandosi quasi con rabbia dalla sua stretta.

L'uomo abbassò subito le mani, non capendo quell'atteggiamento così ostile, ma si ritirò comunque in buon ordine, dicendo solo: “Come vuoi... Credevo che ti avrebbe fatto comodo, qualcuno a spalleggiarti.”

“Tanto non ho nulla di che da dire a questo maledetto fiorentino. Mi dirà qualcosa lui e io prenderò tempo, tutto qui.” tagliò corto lei, tentando di tornare in fretta in sé.

Giovanni da Casale non sollevò più la questione, ma anzi chiese, solerte, quali compiti dovesse svolgere, in attesa che la Tigre si liberasse da quel tedioso incontro.

Capito tutto quanto, l'uomo la salutò, azzardando un veloce bacio sulle labbra, che per fortuna la donna non rifiutò, e la lasciò alla sua corrispondenza.

Caterina spulciò con attenzione tutte le lettere che si erano ammonticchiate sulla scrivania il giorno prima. Le passò una a una, scartando metodicamente quelle inutili e mettendo da parte quelle che esigevano risposta.

Ad attrarre particolarmente la sua attenzione. Era un resoconto di Fortunati che la metteva a parte del fatto che Firenze stava cominciando a radunare i soldati e, soprattutto, stava requisendo tutti i pezzi d'artiglieria sparsi in città e nelle varie fortezze dello Stato, per spedirli alla volta di Pisa.

Quella notizia cambiava molto la prospettiva della Sforza. Firenze, in un momento come quello, si stava preparando all'affondo finale verso Pisa, e quindi verso i veneziani. Aveva creduto che, ormai, la Repubblica avesse deciso di desistere, portandosi a casa qualche lingua di terra in più, ma evitando di sprecare uomini e denaro in una simile impresa. Se l'avessero fatto mesi addietro, come aveva suggerito anche lei, quando la guerra ancora aveva ragion d'essere, invece di perdersi in scaramucce senza storia, sarebbe stato tutto diverso. Ma ormai...

Appoggiandosi allo schienale della sua sedia, la Contessa fece un respiro profondo e, scuotendo lentamente tra sé il capo, si rese conto di sapere bene cosa dire a Machiavelli, non appena l'avesse visto.

Rispose, svogliatamente, alle missive che necessitavano un suo pronto pronunciamento – tra cui una lettera di Ottaviano, arrivata proprio all'alba, in cui il ragazzo chiedeva, stupidamente, se dovesse mettere subito in atto le punizioni da lei decise per i prigionieri – e poi, vestitasi in modo semplice, ma più curato del solito, uscì dalla rocca, battagliera, e si diresse al palazzo, pronta a fronteggiare di nuovo l'ambasciatore della Signoria.

 

Bernardi era uscito per strada a sbattere all'aria uno dei teli che usava per i suoi clienti. L'ultimo che era passato da lui aveva una barba tanto lanosa da averne lasciato traccia ovunque. Era stato come radere una pecora, più che un uomo.

Mentre il Novacula scuoteva con forza il telone, vide una figura che aveva già notato il giorno prima e che, gli era stato detto, altro non era se non il nuovo ambasciatore di Firenze.

Facendo finta di nulla, il barbiere continuò il suo lavoro di pulizie, andando anche più a fondo del solito, al solo scopo di potar restare fuori dalla bottega un po' di più e osservare meglio – anche se sempre con gran discrezione – quello che, se non errava, si chiamava Machiavelli.

Stava passando per strada con passo spedito, diretto inequivocabilmente verso la piazza e da lì, per certo, al palazzo dei Riario. I suoi informatori avevano riferito a Bernardi che anche la prima volta, benché fosse tarda sera, il fiorentino era stato accolto dalla Tigre a palazzo e non alla rocca.

Il Novacula lo squadrò con attenzione, scambiando, per dissimulare, anche due chiacchiere con un suo cliente che passava di lì, e quello che vide gli diede un quadro generale di ciò che gli era stato già anticipato dalle lingue lunghe che andavano da lui a farsi sistemare barba e capelli.

Machiavelli veleggiava sicuro, un braccio steso lungo il fianco, che ondeggiava a passo di marcia e l'altro stretto al petto, ad assicurargli al cuore una cartella di cuoio logoro, che non poteva contenere più di qualche misera paginetta.

Colto da deformazione professionale, Andrea notò come le guance, spigolose e disarmoniche, del fiorentino fossero tutt'altro che ben rasate. Sembrava quasi che l'avessero chiamato all'improvviso, senza dargli il tempo di farsi dare una sistemata.

Teneva il naso appuntito alto in aria, come un topo che fiuta il formaggio, e più si avvicinava, più mostrava un fisico non eccezionale e persino un po' curvo, difficile dire se per vizio di postura o per difetto vero e proprio.

“Buona giornata...” fece Niccolò, guardando il Novacula, chiedendosi se lo conoscesse.

Quel saluto gli era nato spontaneo, di rimando alla fissità con cui il barbiere lo stava fissando, e quando anche Bernardi, con un cenno del capo, ricambiò, il fiorentino credette per certo di averlo incontrato la sera prima all'osteria, e di essersene dimenticato.

Per sfuggire all'irritazione legata all'evidente scarsa disponibilità della Tigre, Niccolò aveva cercato infatti rifugio laddove lo trovava spesso anche in patria: il vino e le donne. Aveva cercato un'osteria che non paresse troppo caotica e lì aveva speso più della sua diaria quotidiana per cercare di ubriacarsi. Ce l'aveva fatta con un discreto successo, riuscendo anche a scordare appunto i volti di quelli con cui si era fermato a chiacchierare.

Poco male, in fondo, dato che lì tutti quanti avevano una parlata stranissima e che a tratti il fiorentino non capiva nemmeno. Non era una grave perdita, l'aver dimenticato le ciance di quella notte.

Poi era andato a cercarsi compagnia. Non voleva infilarsi in un lupanare e non aveva una gran cifra con sé. Si era accontentato di una donna di strada, di quelle che volevano meno, e poi era tornato al suo alloggio, dormendo come un ghiro finché poi, appena prima dell'alba, l'oste stesso non era arrivato a svegliarlo.

Stranito e ancora mezzo stordito dai gozzovigli della notte appena finita, Machiavelli si era visto recapitare una lettera da Firenze che andava a rispondere al suo primissimo messaggio, quello riguardante le palle di cannone, il salnitro e la polvere da sparo, quello che aveva fatto partire da Castrocaro. Ed era da lì che aveva deciso di chiedere un'udienza urgente con la Contessa. Non immaginando mai più, però, che quella donna impossibile lo mandasse a convocare praticamente subito.

Bernardi, dopo quello strano saluto scambiato con il fiorentino, rimase immobile a guardarlo passargli oltre e voltare con sicurezza in direzione del palazzo dei Riario.

Quel sorrisetto stinto e arrogante che Niccolò si era dipinto in viso ad Andrea dava sui nervi come poche altre cose al mondo. Non sapeva dire perché, ma quell'uomo gli stava antipatico a pelle, anche se non vi aveva nemmeno mai scambiato due parole.

“E quel ciuffo in fronte...” borbottò tra sé il barbiere, tornando alla porta della bottega: “Fosse per me glielo taglierei subito!”

“E nel frattempo avete tempo anche per radere la barba a me?” chiese la voce calma e dall'accento strano di Marulli.

Il Novacula si sbrigò a sorridergli e a fargli segno di precederlo in barberia: “Certamente, messere...” lo invitò, riconoscendo in lui uno dei suoi clienti più affezionati: “Allora, che si dice, alla rocca?”

Il bizantino si andò a sedere e rispose, sibillino come sempre: “Questo e quello, ma io mi occupo di armi, per la Contessa, non di parole.”

 

Caterina stava aspettando l'arrivo di Machiavelli ormai da quasi venti minuti. Avrebbe tanto voluto accoglierlo rinfacciandogli quel ritardo, ma voleva tenere a freno la lingua, quella mattina, e cercare di giocare le sue poche carte come meglio poteva.

Ci aveva messo tutta la strada dalla rocca al palazzo, ma alla fine era riuscita a calmarsi quel tanto che le bastava per provare a gestire la situazione, rivoltandola a suo favore. Non voleva cedere, quello, no, ma non voleva nemmeno dare scuse al fiorentino per lamentarsi di lei con la Signoria.

Avrebbe solo fatto valere le sue ragioni, senza sbilanciarsi oltre e senza fare promesse o farsi strappare accordi per lei non vantaggiosi. Ci aveva ragionato sopra e aveva capito che il legame con Firenze per lei era troppo importante, per spezzarlo così facilmente.

“Buon giorno, ambasciatore.” disse quindi, non appena Niccolò entrò nel salone.

L'uomo si guardò attorno, un po' spaesato. Non si era atteso di trovare tutta la corte della Contessa ad accoglierlo, ma almeno il suo Consiglio sì. Il cancelliere, se non altro, o il Segretario di Stato. E invece non c'era nemmeno Giovanni da Casale. Davanti a lui, in tutta la sua cruda bellezza e alterigia c'era solo la Sforza.

Machiavelli stava per chiedere se stessero attendendo ancora qualcuno o meno, quando la guardia che l'aveva scortato fino a lì gli chiuse la porta alle spalle. No, non aspettavano più nessuno: l'incontro sarebbe stato solo tra lui e la Leonessa di Romagna.

“Ho una buona nuova, questa mattina – cominciò a dire Caterina, sorprendendolo un po' – perché vedo che pure i vostri Signori vogliono fare sul serio, perché raccozzano le fanterie, e di questo me ne commendo, e sono tanto contenta quanto prima ero scontenta vedendo il loro ritardo, sembrandomi che stessimo perdendo un tempo irrecuperabile.”

“A cosa vi riferite, Contessa?” chiese Niccolò, sbattendo le palpebre, capendo, in realtà, il riferimento della Tigre, ma non volendo credere possibile che quella donna sapesse già di quanto stesse accadendo nel pisano.

“Alle bande e all'artiglieria che state mandando verso Pisa, distraendola dal resto del territorio fiorentino.” spiegò la Sforza, tenendo per sé la considerazione più importante, ovvero che, secondo lei, era uno sforzo comunque troppo tardivo e quasi ridicolo.

“Ah, sì...” fece Machiavelli, trovando conferma dei suoi sospetti: “Bene... Bene... Ecco, vi ringrazio a nome della Signoria per la vostra commenda e mi sento in dovere anche di scusarmi, perché so bene che da voi sono sempre partite esortazioni all'azione, ma il ritardo è stato dovuto alla necessità e non al volere di Firenze...”

“Ma questo lo capisco benissimo.” fece Caterina, conciliante, un sorriso, un po' freddo, ma comunque affabile sulle labbra: “Lo capisco, davvero. E vorrei avere lo Stato in condizioni da poter spingere tutte le genti e i sudditi a vostro favore, perché dimostrerei a tutto il mondo che nulla mi ha fatta partigiana del vostro Stato se non l'affezione e la fede che nutro nei suoi confronti...”

Il fiorentino era ancora in piedi fisso davanti a lei. La Contessa non gli aveva proposto di sedersi, tanto meno si era accomodata lei. Si fronteggiavano, l'uno davanti all'altra, l'ambasciatore con la sua cartelletta di cuoio stretta al petto e la Tigre con la sua maschera in volto, la stessa che aveva indossato per anni a Roma e poi, ancora, all'occorrenza, a Imola e a Forlì.

“Ma – proseguì la donna, abbassando un po' lo sguardo, come se le parole che stava per dire in fondo la dispiacessero – desidererei essere riconosciuta e che non mi fosse tolto l'onore, cosa che io stimo sopra ogni cosa.”

Il tono, estremamente formale, che aveva rimpiazzato i modi sbrigativi del loro primo incontro aveva messo in guardia Machiavelli. Stava seguendo il filo del discorso, si rendeva conto che poco differiva dalle stringate e quasi irriverenti frasi della sua prima sera a Forlì. Tuttavia era come se fosse cambiato qualcosa...

“E questo – continuò la Tigre, stringendosi le mani l'una nell'altra e tornando a fissare Niccolò, facendo impattare i suoi formidabili occhi verdi con quelli liquidi e attenti de fiorentino – non tanto per far felice me, sia chiaro, ma per dare esempio agli altri alleati, per dimostrare loro che Firenze sa riconoscere ciò che spetta ai suoi benefattori, per dimostrare che Firenze non è ingrata verso chi porta benefici allo Stato.”

“Ma io vi ho già assicurato che...” prese a dire Niccolò, ma più ribadiva quanto già detto la prima volta, più l'ambasciatore capiva che la Tigre non era una donna che potesse accontentarsi ancora a lungo di semplici parole.

Siccome il fiorentino perpetrava il suo discorso su quanto Firenze fosse ben intenzionata verso di lei e su come intendesse ripagarla per quanto fatto, e anche offrirle una vantaggiosissima condotta per Ottaviano, la Contessa rimase in ascolto per un po', senza interrompere. Però, più l'uomo parlava, stringendo tra le braccia la sua cartelletta di cuoio, più in quella figura magra e micragnosa Caterina rivedeva un personaggio legato indissolubilmente alla fine della sua infanzia e della sua felicità.

Non riuscendo più a controllarsi, l'immagine di Cicco Simonetta che le annebbiava la vista, la donna lo interruppe, forse troppo bruscamente chiedendo: “Cosa avete in quella cartelletta? Si tratta di documenti per me?”

Niccolò, rimasto a mezza frase, interpretò quell'interruzione come l'ennesimo segno della scarsa pazienza di quella donna e cercò, smorzando la sua voglia di tenerle testa, di assecondarla: “Sì, sì, si tratta di una lettera della Signoria che dovreste leggere.”

“Cosa riguarda?” domandò lei, un po' guardinga, ma ben felice di vedere l'ambasciatore armeggiare con la cartelletta, e tirandone fuori i fogli a lei destinati.

“Armi e altre cose...” fece lui, laconico, porgendole il messaggio.

Quasi strappandogli le pagine di mano, la donna cominciò subito a leggere e, arrivata in fondo, strinse le labbra e restituì la lettera al fiorentino: “Non ho salnitro.” iniziò subito, gli occhi che correvano alle grandi finestre che davano sulla piazza, sopra la quale splendeva il sole infuocato di quel 18 luglio: “E ho pochissima polvere da sparo, ma ho fatto comprare, a Pesaro, da Leonardo Strozzi, ventimila libbre di salnitro per me e diecimila per voi fiorentini.”

“Siete stata molto generosa, ma...” cominciò a dire Niccolò, chiedendosi come potesse essere vera una simile cosa, sia viste le note ristrettezze economiche della Tigre, sia perché Firenze non le aveva ancora chiesto apertamente nessun servigio del genere.

“Potrete pagare direttamente tramite Strozzi.” soggiunse la donna, spegnendo sul nascere la voce di Machiavelli, che era, evidentemente, convinto che il salnitro a Firenze ci sarebbe arrivato gratuitamente: “E per quanto riguarda i fanti...”

Lo sbuffo della Leonessa fece quasi sobbalzare l'ambasciatore. Si riteneva un uomo saldo e capace di far fronte a tutto, ma aveva capito che stare dinnanzi a quella Sforza lo annientava, lo indeboliva, e il fatto era che non ne capiva la ragione. Tutta la sua disinvoltura nel parlare e i suoi propositi di piegarla al suo volere, svanivano dopo pochi minuti.

Mentre Caterina si avvicinava alla finestra e, dandogli le spalle, sbuffava di nuovo, Niccolò si trovò a pensare che prima se ne fosse andato da Forlì, meglio sarebbe stato per tutti.

“Fanti ve ne darei...” soppesò la Tigre, guardandolo da sopra la spalla, con un'espressione che l'uomo non sapeva decifrare: “Ma non posso chiedere loro di muoversi senza dar loro nemmeno un soldo.”

Machiavelli, che ancora non aveva digerito il fatto di dover comunicare alla signoria che c'erano diecimila libbre di salnitro da pagare allo Strozzi, schiuse le labbra, per cominciare fin da subito a mettere in chiaro che Firenze, al momento, non poteva sostenere spese vive e che, se la Contessa voleva concedere soldati, doveva anche concedere tempo e pazienza. Ma non osò parlare, perché la padrona di casa aveva ripreso già il suo discorso.

“Però, se la Signoria manda abbastanza denaro da farli partire, allora io potrò fornire alcuni tra i soldati migliori d'Italia, scelti da me personalmente, ben armati e fedelissimi a me e quindi a Firenze, se io ordinerò così.” nel dire ciò, la donna si era voltata di scatto a guardare il suo interlocutore, il viso serio, implacabile, degno, pensò Niccolò, nel più temibile dei comandanti sul campo di battaglia: “E potrò anche mandarglieli subito.”

Il fiorentino non riusciva a parlare, e si odiava per questo. Più che le parole della Sforza, a congelargli la lingua era stata la sua avvenenza. Nel vedersela così, vicina e infervorata dall'argomento che, inutile negarlo, conosceva meglio e amava di più, Machiavelli non riusciva più a ragionare. Qualsiasi commento, lo sapeva, sarebbe stato scorretto e fuori luogo e così poteva solo aspettare che fosse lei stessa a fargli una domanda precisa, che esigesse una risposta altrettanto precisa e, Dio piacendo, abbastanza stringata da impedirgli di fare disastri.

“Ma se la Signoria è davvero così in necessità di fanteria...” soffiò la Contessa, sollevando un po' le spalle e abbandonando il tono combattivo di poco prima: “Allora che mi mandi immediatamente cinquecento ducati e penserò io a mandare loro cinquecento fanti, pagandoli un ducato a testa. E in tal caso saranno a Pisa tra quindici giorni, non prima.”

“Io...” balbettò l'ambasciatore, capendo che l'incontro si stava frettolosamente chiudendo così: “Io vedrò di riferire e...”

“Sì, dite alla Signoria che sta a loro decidere cosa vogliono. Il meglio, subito, pagandolo il giusto, o cinquecento buoni fanti, tra due settimane abbondanti, pagandoli a prezzo ragionevole.” si permise di riassumere la Contessa: “Avete altro di che parlarmi?”

“No, no, direi di no.” fece l'uomo, senza nemmeno chiedersi se fosse davvero così.

Voleva solo andarsene. Incontrarla da solo non era stato facile, e fu tentato anche di chiederle se, le prossime volte, sarebbe stato presente anche qualcun altro. Ma, anche stavolta, gli mancò il coraggio di mostrarsi tanto ardito.

“Allora andate e scrivete alla Signoria. Voglio che mi rispondano presto. I miei soldati li conoscono tutti, ormai, e tutti li vogliono e io devo pur guadagnarmi il mio posto nel mondo, non credete?” fu lo strano saluto che la Sforza gli dedicò, quasi spingendolo fuori dal salone.

Con un mezzo inchino, mentre la porta già gli si chiudeva sul naso, Machiavelli si ritrovò di nuovo scortato dalla guardia che lo condusse senza indugio fuori dal palazzo. Tornato all'aria aperta, sotto al sole imperioso di luglio, Niccolò strinse gli occhi, si passò una mano nel ciuffo di capelli neri e ci mise qualche minuto, prima di tornare presente a se stesso.

Cominciava a capire cosa intendessero tutti, quando parlavano dell'ascendente che quella donna sapeva avere sugli uomini. Lui si era creduto superiore, e vedere che così non era lo stava facendo impazzire.

Camminando come istupidito per le strade di Forlì, perse la via due volte, prima di ritrovare quella che conduceva al suo alloggio. E mentre ritornava in sé, poco per volta, si scoprì ancora più scottato da quella seconda udienza.

Non aveva contrattato nulla, o quasi, di quanto gli era stato chiesto. La Leonessa aveva fatto un paio di proposte che non valevano nulla e lui non era stato nemmeno in grado di mercanteggiare o di ricordarle che lui aspettava di sentirla accettare il Beneplacito per il figlio Ottaviano.

Cominciando a sudare, sia per il caldo torrido, sia per l'agitazione, Niccolò decise che già quel pomeriggio avrebbe chiesto di poter vedere il Segretario di Stato Baldraccani. Con lui non si sarebbe distratto, sicuramente, e avrebbe potuto far valere le proprie ragioni.

 

Caterina aveva seguito la figura di Machiavelli dalla finestra, mentre attraversava la piazza e poi mentre infilava un vicolo, per poi tornare indietro e prendere quello affianco. L'aveva visto camminare in modo scomposto, con la lettera che le gli aveva restituito in una mano e la cartelletta nell'altra.

Se non fosse stato che lo trovava un essere ripugnante, si sarebbe quasi preoccupata per il suo stato di salute.

Ma in realtà sapeva bene cosa l'aveva portato a essere così confuso, una volta fuori da palazzo. Se n'era accorta già mentre discorrevano. Il modo in cui la guardava, era il modo in cui tanti dei suoi amanti l'avevano guardata quando avevano capito che potevano davvero averla. Solo che lui non l'avrebbe avuta mai e questo, evidentemente, lo capiva pure lui e ne usciva frastornato.

Si era informata e sapeva che quel Machiavelli era sempre intento – quando non era preso dal suo lavoro o dalle sue amate carte – a inseguire qualche sottana. Era il suo vero punto debole, assieme all'arroganza, e lei voleva sfruttarlo a suo favore. Ecco perché aveva messo pochi gioielli e un abito semplice, per mettere in risalto solo il suo corpo. Era un modo di giocare sporco, ma finché faceva il suo interesse, non le costava nulla, lasciarsi guardare. Per la ragion di Stato, in fondo, le avevano fatto fare anche di molto peggio.

Deglutendo, ricordando per la seconda volta in poco tempo delle circostanze che l'avevano portata a essere la moglie di Girolamo Riario, la donna quasi non si accorse del soldato che le era arrivato alle spalle.

Portava un cesto di fiori in mano e una lettera: “Mia signora – le disse, arrivandole accanto – mi hanno detto di portarvi questi. Sono appena arrivati da Firenze.”

La Contessa prese il biglietto e poi osservò la cassetta colma di fiori di ogni tipo e colore che l'armigero le stava porgendo e gli chiese di posarla in terra. Mentre l'uomo faceva quel che gli era stato chiesto di fare, la Tigre lesse con attenzione e si sorprese, non poco di vedere come quello fosse un dono di una certa suor Elena, badessa delle Murate di Firenze.

Il messaggio era stringato, ma molto significativo e, per la prima volta dall'inizio della giornata, alla Contessa si alleggerì un po' il cuore.

“Portateli alla rocca...” ordinò, cambiando idea, volendo tenersi vicini quei fiori, che significavano molto, per lei.

L'uomo, senza farsi domande, annuì e riprese la cassetta, chiedendo congedo e tornando da dove era venuto.

Caterina, intanto, aveva sistemato la lettera nel tascone del suo abito e si apprestava parimenti a tornare a Ravaldino per scrivere la risposta migliore a quel dono quasi – ormai – inatteso.

Mentre passava sotto la statua di Giacomo, a pochi passi dalla rocca, si fermò un momento a guardare verso l'alto e pensò, non osando nemmeno sussurrare quelle parole: 'Forse ho trovato il modo di mettere al sicuro anche nostro figlio' e poi soggiunse, tornando a camminare: 'E anche tutti gli altri miei figli.'.

Tuttavia, la sua euforia si spense in parte quando, appena varcato il portone, Giovanni da Casale, che la stava aspettando, osservando l'orizzonte dalle merlature, le arrivò incontro, dicendole, a voce bassa, ma sollecita: “Caterina... Caterina, è appena arrivata la notizia... Tre giorni fa Gian Giacomo da Trivulzio ha forzato il confine ed è entrato nel Ducato.”

La Tigre sentì il sangue gelarlesi nelle vene. Sapeva che sarebbe successo, ma, in tutta onestà, non credeva tanto in fretta.

“Convocate un Consiglio di Guerra!” ordinò, a voce alta, rivolgendosi al Capitano Mongardini, che era nel cortiletto, poco distante da loro, intento, forse, a sentire cosa si stessero dicendo.

Seguendola a passo di marcia verso la Sala della Guerra, Pirovano le disse anche: “Il Cardinale Ascanio è scappato di nascosto da Roma e pare sia diretto a Milano, forse c'è anche già arrivato, ma non sappiamo dire perché...”

“Perché è uno Sforza anche lui, per che altro se no?” sbottò la donna, mordendosi la lingua un secondo prima di insultare in qualche modo Giovanni: “E se esistesse ancora un po' di onore, in questo mondo, tutti gli Sforza d'Italia correrebbero a Milano!”

“Tu correrai a Milano?” le chiese Pirovano, facendo quasi fatica a starle dietro.

La donna si voltò di scatto, frenandosi tanto repentinamente da farsi quasi travolgere dal suo amante, e, puntandogli l'indice contro il petto gli disse solo: “Stai attento a come parli. Se voglio, posso fare a meno anche di te.”

 
 
   
 
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