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Autore: Adeia Di Elferas    27/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Non posso restare con le mani in mano.” disse grave Caterina, restando appoggiata con i palmi delle mani alla mappa d'Italia che si stagliava davanti a lei.

“Ma il Moro non ce li pagherà mai, quei soldati...” provò a opporsi Bartolomeo Maldenti, il Primo Capitano delle Guardie: “Abbiamo già mandato al nord Naldi, a controllare il confine orientale, se adesso mandiamo altri uomini a proteggere il lato ovest...”

“Non posso non aiutare Milano.” tagliò corto la Contessa, smettendo finalmente di fissare la cartina e voltandosi verso i suoi Consiglieri: “Non posso restare immobile e muta a guardare i francesi entrare indisturbati nelle terre che sono state di mio padre e dei miei nonni. Non posso e basta. Se mio zio Ludovico non è in grado di difendersi, allora devo per forza provare a fare la mia parte.”

Nella Sala della Guerra c'erano alcuni tra i suoi più validi Capitani, Luffo Numai, qualche altro membro del Consiglio Cittadino, il Governatore Ridolfi, l'Oliva, il castellano Feo, Galeazzo e Giovanni da Casale.

Nel sentirla parlare a quel modo, dopo un primo momento di tacito sgomento, guidati dal Capitano Mongardini, che per primo si lasciava infervorare da quel genere di esternazioni, si misero tutti a dar voce, concordando con lei, esclamando motti di approvazione e arrivando anche a battere in terra i piedi in segno di militaresco rispetto.

“Comunque, mia signora – si permise di dire Numai, mentre i più scapestrati tra i soldati presenti ancora si dilungavano in motteggi – non sono molti gli uomini che possiamo distrarre per la causa milanese, lo capite anche voi. Soprattutto ipotizzando che non vengano pagati dal Duca.”

La Tigre lo sapeva benissimo e aveva già fatto i suoi conti. Il buon senso, forse, avrebbe detto di lasciar perdere e di abbandonare Ludovico alla sua sorte, cercando alleati migliori e più potenti, magari perfino obbligando davvero lo Stato a Firenze.

Ma vedere gli occhi di suo figlio Galeazzo, che la osservavano colmi di orgoglio e aspettativa, quasi stessero osservando il più intrepido dei condottieri, le aveva dato il coraggio di seguire la sua anima. L'onore era importante quanto la vita, in quelle situazioni, e aveva deciso da tempo che per lei sarebbe stato meglio morire in piedi, piuttosto che in ginocchio.

“Cinquecento fanti scelti – disse, rivolgendosi in particolare a Maldenti, affinché cominciasse già a pensare chi proporre – e cinquanta balestrieri a cavallo. Li faremo partire al più presto e intanto scriverò a Naldi di ricongiungersi con loro. Li voglio tutti sul fronte piemontese. Devono ricacciare indietro l'offensiva del Trivulzio.”

“Non sarà facile.” soppesò Ridolfi, che era a poca distanza dalla Contessa e che, fino a quel momento, a parte un tiepido applauso alla sua dichiarazione di poco prima, non aveva ancora espresso in alcun modo il suo parere: “I francesi sono tanti e sono guidati da un comandante che sa il fatto suo.”

La Sforza gli dedicò un'occhiata penetrante. Aveva capito cosa volesse dire davvero Simone. Quei cinquecento fanti a lui parevano tanto gli stessi che la donna aveva proposto a Firenze.

“Ho passato anni a preparare il mio esercito personale.” gli ricordò la donna, nel silenzio irreale che si creava ogni qual volta parlava in Consiglio: “So quali sono le mie forze e le mie possibilità, e non pretendo di cambiare le sorti della guerra, ma di dare respiro al Duca, affinché abbia più tempo e maggior spirito per raccogliere le difese e far quel che si deve.”

“Vostro figlio Cesare andrà presto come Arcivescovo a Pisa...” soppesò Ridolfi, guardandola di sottinsu: “Non sarebbe anche nel vostro interesse dare manforte più a Firenze, che non a Milano, in questo momento?”

“Mio figlio Cesare mi ha dimostrato più volte di sapersela cavare anche in mezzo alle peggiori tempeste. E, comunque, mi pare di non aver chiuso le porte a Firenze.” ribatté la Leonessa, distogliendo lo sguardo dalla figura alta e imponente del Governatore: “Come ho già detto, so dosare le mie forze.”

Simone non sembrava convinto, ma capì l'antifona e la smise subito di fare la parte del bastian contrario. Anche se da tempo, ormai, la sua vita era legata più alle terre della Sforza che non a Firenze, era più forte di lui, cercare di fare il bene anche della Repubblica che lo aveva visto nascere.

“Oltre al Trivulzio sappiamo chi c'è, con i francesi?” chiese Caterina, tornando alla mappa, decisa a farsi un'idea il più possibile precisa della situazione, in modo da poter mandare gli uomini più adatti.

“I Rossi – rispose prontamente l'Oliva, che si era fatto un breve appunto con tutti i nomi che gli erano stati riferiti – non solo il figlio, Troilo, ma pare si sia aggiunto a loro anche il padre, Giovanni, nelle retrovie.”

“Un vecchio...” ridacchiò il Capitano Bezzi: “I francesi ci mandano i vecchi, a combattere!”

Accanto a lui il Capitano Rossetti tossicchiò, dandogli una gomitata, come a riprenderlo per quella mancanza di rispetto, che, anche se rivolta a un nemico, era del tutto gratuita, a suo modo di vedere.

“Be', che c'è?” si difese il primo, cercando anche l'appoggio della sua signora con lo sguardo: “Il Rossi che dite voi, Giovanni, avrà quasi settant'anni!”

“E se lo schierano in campo – lo zittì Mongardini – significa che combatte come un uomo con la metà dei suoi anni, ma con l'esperienza di un settantenne, quindi invece di riderne dovremmo esserne preoccupati!”

“A parte i due Rossi?” riprese le fila la Sforza, trovandosi tacitamente d'accordo con Mongardini.

“Il Ligny e l'Aubigny per certo.” rispose l'Oliva, con una certa cautela.

Sentir nominare due dei maggiori fautori del disastro di Mordano di cinque anni prima paralizzò la Tigre. Immaginava che, prima o poi, le loro strade si sarebbero incontrate di nuovo.

“Sappiamo tutti, direi, di cosa sono capaci.” commentò, a denti stretti, ricominciando a fare le sue valutazioni, ma, stavolta, senza mettere a parte nessuno dei presenti.

Il ricordo di quanto accaduto nella vicina Mordano, che ancora non era stata ricostruita del tutto, ebbe il potere di far scendere sull'assemblea un aura cupa, come un oscuro presagio di ciò che li attendesse anche quella volta.

“Qualcuno ha altro da dire?” chiese la donna, dopo un po', convinta che, almeno per il momento, non ci fossero altre decisioni importanti da prendere.

Siccome nessuno ebbe nulla da ridire, la Contessa dichiarò sciolto il Consiglio e poi chiese a Maldenti e ai Capitani Mongardini e Rossetti di aspettarla un momento, perché doveva ancora discutere con loro di alcuni dettagli.

“Cesare, per favore aspettate un attimo – disse la Tigre, frenando il castellano, che stava già raggiungendo la porta – imbastite una lettera d'ordine per Naldi, spiegategli che arriveranno rinforzi e che dovrà spostarsi sul fronte occidentale, contro i francesi. La finirò io più tardi.”

Mentre il Feo annuiva e assicurava che avrebbe iniziato subito a scrivere il messaggio, Giovanni da Casale si avvicinò alla Contessa e si mise in attesa.

“Devo restare anche io?” chiese Pirovano, guardandola con attenzione, sicuro che a quella domanda lei avrebbe contrapposto un netto no.

“Forse è meglio, in fondo tu sei stato a Milano più di recente, rispetto a me. Potrai dare qualche consiglio...” convenne invece Caterina, che voleva mettere il buonsenso davanti a tutto il resto, in quel frangente: “E, Galeazzo – soggiunse, rivolgendosi al figlio – vieni anche tu con noi. Andiamo subito al Quartiere Militare. Voglio scegliere le truppe da mandare a Milano.”

La Contessa, assieme agli uomini che aveva tenuto presso di sé, si trattenne ancora una mezz'ora alla rocca a discutere e poi, a mezzogiorno ormai passato da un po', incurante, come gli altri, del pranzo saltato, li guidò al Quartiere Militare e lì si perse a osservare, ascoltare e scremare le sue truppe.

 

Quando Baldraccani aveva ricevuto la richiesta di una nuova udienza da parte di Machiavelli aveva avuto una prima, istintiva, reazione di insofferenza. Tuttavia, ligio al suo ruolo, era subito corso a cercare la Tigre per avere il permesso di accettare.

La donna, che si trovava al Quartiere Militare, accolse con altrettanta irritazione quella notizia, ma non perse tempo e lo istruì a dovere su cosa dire. Immaginava più che bene che cosa il fiorentino potesse volere dal Segretario e così non le fu difficile preparare un piano di difesa.

E infatti, quando Antonio poté sedersi al tavolo dinnanzi a Niccolò, la richiesta che l'ambasciatore gli pose fu esattamente quella che la Leonessa gli aveva prospettato: “Messer Baldraccani, mi duole occupare il vostro prezioso tempo, ma oggi con la Contessa non ci siamo intesi, in merito alle cose di guerra. Ritengo sia normale che una donna non sia avvezza a discutere certi argomenti, che per certo l'annoiano e le risultano ostici, e quindi ritengo che con un uomo, come siete voi, un simile discorso sia più congeniale.”

Il Segretario annuì in silenzio, trattenendo a stento una risata nel risentire nella sua mente la Sforza che gli anticipava: “Vi dirà che con una donna non si può parlare d'armi e di guerre e che quindi ha chiamato voi per non dare noia a me. La verità è che quando ne abbiamo parlato non mi staccava gli occhi dalla scollatura dell'abito e il risultato è stato che non ha saputo nemmeno ribattere alla mia proposta.”

Baldraccani quasi poteva immaginarselo, quello strano fiorentino con gli occhietti scuri puntati al petto della Tigre, la bocca secca e le mani sudate, tanto concentrato a immaginarsela senza veli da non riuscire nemmeno a seguire il filo del suo discorso.

Machiavelli, nel frattempo, stava ribadendo per l'ennesima volta quanto Firenze fosse riconoscente alla Contessa per tutto quello che aveva fatto e, solo dopo un lunghissimo panegirico, arrivò a domandare: “Quale potrebbe essere la migliore offerta, da parte vostra?”

“La mia signora, che per inciso è la persona più esperta di soldati e di guerra che esista in Italia – si mise a dire Antonio, tanto per fargli capire che tutte le sue affettate introduzioni al discorso erano state semplicemente ridicole – ha in suo dominio due ragioni di fanti.”

Capito il passo falso commesso e stupito, come sempre, da che era arrivato in quella città invivibile, dalla lingua aguzza non solo della Tigre, ma anche dei suoi portavoce, Machiavelli fece un cenno con il capo, per far proseguire il Segretario.

“Una conta millecinquecento uomini, armati personalmente da lei, e che servono a lei esclusivamente, e non li concederebbe alla Signoria a meno che la Signoria non desse loro un'intera paga per un mese, anche se servissero per meno di un mese, e per ogni uomo vorrebbe diciotto lire, quindi, per un totale di cinquecento fanti, il massimo che vi potrebbe offrire, la cifra per un mese sarebbe di millecinquecento ducati.” spiegò Baldraccani, ripetendo pedissequamente quanto dettogli dalla Sforza.

“Ma stamane la Contessa mi ha detto che per cinquecento fanti avrebbe accettato una paga di cinquecento ducati..!” provò a opporsi Niccolò, il pomo d'Adamo che saliva nervosamente nella gola.

“Da stamattina sono cambiate alcune cose.” constatò Baldraccani, restando sul vago: “Ma tornando a noi... Si tratterebbe delle migliori milizie possibili, gente ordinatissima, armata ottimamente e dotata di grande rapidità.”

“Scriverò alla Signoria per riferire, ma...” cominciò a dire il fiorentino, ma il forlivese lo bloccò subito, sollevando una mano per zittirlo.

“Se questi non andassero bene per i vostri bisogni, c'è un'altra ragione di uomini, disponibili ad andare al soldo, sui quali la mia signora vi lascerebbe trarre ad arbitrio, e il pagamento, in quel caso, dovreste discuterlo direttamente con loro.”

L'ambasciatore deglutì un paio di volte, scontrandosi con quella proposta che, di certo, alla Signoria sarebbe piaciuta molto poco. Prima di partire per Forlì, si era convinto che quella sarebbe stata una missione tutto sommato semplice. Anche se tutti sembravano avere una sorta di reverenziale paura nei confronti della Tigre, lui era andato alla ventura senza pensarci troppo.

Si era illuso che la precedente ambasceria fiorentina fosse stata un insuccesso solo per colpa di Andrea Pazzi, e, quella ancora prima, per via della evidente fragilità del fratello minore di Lorenzo Medici.

E invece, ora che toccava a lui, si rendeva conto che i forlivesi si stringevano attorno alla donna come un muro di cinta, rompendo le corna a chiunque provasse ad arrivare davvero a un accordo.

“Come già detto, scriverò alla Signoria, spiegando le vostre ragioni e vi farò avere quanto prima una risposta.” fece Niccolò, stirando un sorriso.

“Molto bene.” concluse Baldraccani, alzandosi: “Avete bisogno di altro da me?”

“No, no, direi di no...” rispose Machiavelli.

“Perché se fosse così vi prego di dirmelo subito. Sapete, ho dei lavori da portare avanti per la mia signora e non posso certo permettermi di passare con voi le giornate...” mise in chiaro Antonio, guardandolo di sottecchi, sperando sinceramente di non doverlo rivedere almeno per qualche giorno.

“Non c'è altro, davvero. Posso solo aspettare le risposte che ci servono da Firenze.” confermò il fiorentino, alzandosi a sua volta e accompagnando il Segretario verso l'uscio.

Una volta rimasto da solo con i suoi pensieri, Niccolò sentì un'amarezza difficile da descrivere. Si vergognava come un ladro, per come stava conducendo male quell'ambasceria presso una corte che, per altro, non si poteva nemmeno chiamare tale. Era lì da qualche giorno e ancora non aveva incontrato nessuna persona davvero importante, a parte la Contessa, il suo amante milanese e il suo Segretario. Fosse stato in un paese civile, come minimo sarebbe stato portato al cospetto del cancelliere, del Governatore, perfino di qualche membro del Consiglio Cittadino..!

“In un paese normale – disse, a mezza bocca, mentre tornava al suo alloggio, salendo le scale pestando i piedi a ogni gradino – avrebbe almeno fatto un piccolo banchetto per accogliermi...”

Tornato nella sua stanza, in quella che ai suoi occhi era poco più che una stamberga, benché venisse definita la migliore locanda di Forlì, l'uomo si sedette al tavolino e cominciò subito a scrivere un resoconto dettagliato di quella giornata per la Signoria.

La voglia di tornare a Firenze, alle sue strade larghe, alle sue bellezze, ai suoi odori e ai suoi colori, era tanto forte da tentarlo a scrivere alla Signoria di farlo tornare a casa subito. Tuttavia, si disse, era lì da troppo poco, per osare tanto. Gli avrebbero riso dietro tutti quanti, dal Gonfaloniere fino all'ultimo dei servi.

Così si trattenne il più possibile e solo sul finale, dopo aver spiegato la questione del prezzo aumentato dei fanti, si permise di fare un minimo di pressione alla Signoria scrivendo: 'Vostre Signorie sono prudentissime, piglieranno quel partito giudicheranno più a proposito; ed io sono per eseguire con diligenzia ogni loro commissione.'.

Scritti i saluti e firmata la lettera, il fiorentino si abbandonò un istante contro lo schienale e si mise a ragionare. Doveva girare quella situazione a favore suo, oltre che a favore di Firenze. Era il piedistallo da cui spiccare il volo. Doveva farcela. E per farcela, pensava, la cosa più intelligente da fare sarebbe stata cercare di capire meglio la Tigre, ragionare come lei e così anticiparla e gabbarla, così come lei stava cercando di fare con lui.

Si rese conto, però, di sapere molto poco di lei. Era una donna che lo confondeva e che intorbidiva il suo pensiero. A parte la sua disinvoltura nel vivere, nel parlare e nel pensare, non conosceva altro di lei, se non le chiacchiere che negli anni si erano sprecato.

Già una donna che viveva in una rocca piena di soldati, era di per sé qualcosa di cui sparlare, figurarsi se suddetta donna amava intrattenersi con i suoi uomini in modi tutt'altro che leciti e senza nemmeno nascondersi troppo.

Nel pensare alla rocca, gli tornò alla mente la gigantesca statua bronzea che campeggiava davanti a Ravaldino. Rappresentava il Barone Feo, secondo marito della Contessa, morto ammazzato in una congiura. Tutti, in Italia, avevano sentito le eco della vendetta della Leonessa, nel 1495.

Fu da lì che Niccolò cominciò a elaborare il suo piano d'attacco. Quella statua, così pacchiana e volgare la diceva lunga, sul tipo di persona con cui aveva a che fare... Forse, fregare la Sforza sarebbe stato molto più facile del previsto, una volta riuscito a dimenticarsi quanto fosse bella e attraente.

 

Il pomeriggio era stato estenuante, per Caterina. Le ore passate sotto il sole di luglio al Quartiere Militare le avevano fatto rimpiangere le giornate fredde dell'inverno.

Era stato un lavoraccio, ma alla fine aveva deciso quali uomini destinare a Milano e quali, eventualmente, concedere a Firenze. Aveva cercato di valutare ogni singolo uomo nel modo più accurato possibile, lasciando che anche Galeazzo dicesse la sua, e alla fine aveva raccolto cinquecento fanti sceltissimi e cinquanta balestrieri a cavallo degni di un corpo elitario.

Nel giro di un giorno o due li avrebbe fatti partire, ma prima voleva mandare un messaggero a Naldi, affinché facesse in tempo a compiere il ricongiungimento con i rinforzi freschi.

Così, stanca e accaldata, tornata alla rocca era andata subito in camera, ordinando a Giovanni da Casale di prendere del vino e del cibo e di raggiungerla.

Arrivata in stanza, si andò a mettere seduta sul letto, per cavarsi gli stivali e la veste, mettendosi quella da camera, molto più leggera e comoda. Detestava quelle sottane ingombranti, specie con quel caldo. Se non fosse stato per non dar troppo spettacolo, avrebbe cominciato volentieri a mettersi brache da uomo, invece di quelle vesti così poco pratiche. E non escludeva che prima o poi l'avrebbe fatto. La forma andava sacrificata in favore della sostanza, in certi casi.

Mentre finiva di cambiarsi, intravide il cesto di fiori che le era stato spedito dalla badessa delle Murate di Firenze. Per un istante di fermò a guardarlo. Se n'era già dimenticata. La notizia dell'attacco al Ducato aveva cancellato tutto il resto.

Quei fiori, per lei, significavano molto. Fortunati le aveva fatto sapere, tramite qualche lettera scritta in mezza cifra, che stava contattando proprio quella fantomatica suor Elena affinché accettasse di proteggere – se mai fosse stato necessario – i suoi figli.

Scartata l'idea di mandarli a Milano, la Sforza aveva infatti iniziato a pensare che Firenze potesse essere l'unica soluzione per mettere in salvo i suoi figli, quando Forlì e Imola fossero state messe sotto attacco. Era questione di tempo, una manciata di mesi al massimo, e poi avrebbe dovuto separarsi da loro e mandarli da qualche parte a nascondersi, se voleva sperare che venissero risparmiati.

Aveva fatto fare loro un atto notarile con cui rinunciavano allo Stato in tutti i modi, ma non poteva comunque dirsi tranquilla. Finché erano vivi e in vista, erano a rischio. Nella logica della guerra, chiunque avrebbe potuto cercare di rapirli per poi piegare lei al proprio volere e Caterina non voleva più vedere nessuno dei suoi figli preso in ostaggio. Le era bastato quando l'avevano fatto gli Orsi.

Fortunati le aveva fatto sapere che questa badessa le avrebbe mandato un messaggio di ringraziamento per delle elemosine, nel caso in cui avesse deciso di accettare. E quei fiori, assieme alla lettera di accompagnamento, rispondevano proprio a quella perigliosa richiesta.

Ripescato il messaggio di suor Elena nella tasca dell'abito, si sedette alla scrivania e cominciò a scrivere una risposta che potesse dar conferma alla badessa del fatto che lei aveva ricevuto il dono, aveva capito, e che riteneva fosse meglio ridurre al minimo la corrispondenza tra loro, per evitare che, intercettate, qualcuno potesse capire il loro gioco: 'Veneranda Mater in Cristo. Havemo ricevuto la Cassetta et Fiori ne havete mandato quale cose ce sono state iocunde assai et ve ne rengratiamo ma non vogliate intrare più in simili spexe, che seria uno pagarce de le elemosine facte et che siamo in dispositione de farve a la giornata.'.

Appena posata la penna, dalla porta entrò Pirovano con una brocca di vino nero e un paniere con formaggio, carne salata e pane. Vedendo la donna assorta nella scrittura, posò il tutto sul mobile e poi si sedette a letto, in attesa.

Felice di vederlo così discreto, la Contessa riprese subito a scrivere: 'Pregate insieme con quelle altre matre l'onnipotente Idio per noi et tutti li nostri del continuo: che in questo veniremo da voi singularmente compiaciuti: et così ve exhortamo ad fare omninamente. Benevalete. Forlivii 18 Iulii 1499'.

Chiusa la missiva, la Leonessa la mise da parte e si voltò verso l'amante. Anche lui aveva il viso ancora arrossato per tutto il sole di quel pomeriggio e i capelli erano ancora umidi di sudore, così come il camicione.

Non poteva negare che fosse un bel vedere. Era giovane, forte, con un viso senza una pecca e anche di robusti principi e di indole ubbidiente. Era tutto quello che si potesse chiedere a un amante e a un soldato. Tuttavia, in quel letto, Caterina avrebbe tanto voluto vederci un altro uomo.

Abbattuta per quella consapevolezza che non l'abbandonava mai del tutto, lasciò la scrivania e andò a controllare che cosa Pirovano avesse portato da mangiare.

Prese un paio di pezzi di carne, fece seguire una fetta di pane nero e poi uno spicchietto di formaggio. E poi prese un calice e si versò da bere.

Anche Giovanni, vedendola cenare in quel modo un po' disordinato, si alzò e attaccò il cibo. A differenza della donna, però, quasi non toccò il vino.

“Sai cosa mi fa arrabbiare?” fece la Contessa, dopo un po', la brocca di nero che era già stata vuotata per metà e gli occhi distanti, come se in realtà non stesse parlando con lui, ma con qualcuno che non potesse sentirla.

“Dimmi.” fece comunque Pirovano, spazzolando gli ultimi residui di carne salata e poi andandosi a mettere accanto a lei sul letto.

Caterina sorbì ancora un paio di sorsi, la gola in fiamme, come lo stomaco, e il sangue che pulsava caldo nelle vene, quasi a spingere la sua rabbia, a portarla a ebollizione: “Che con quel parassita di un fiorentino in giro per la mia città, non posso nemmeno uscire per locande a bere con i miei soldati.” spiegò: “Perché a volte l'ho fatto, sai, e ne avrei voglia anche stasera. E invece devo starmene qui buona, perché anche lui gira per locande, mi hanno detto, e se dovesse incontrarmi mentre bevo e gioco ai dadi con i miei uomini, che andrebbe a dire, a Firenze? Che direbbe a mio cognato? Che sono la meretrice volgare e dissoluta che crede lui, ecco cosa andrebbe a dire.”

Giovanni aveva ascoltato in silenzio, guardandola di sottecchi. Non l'aveva mai sentita parlare con quel tono. Era astioso, ma anche mesto, come se ogni parola le fosse costata caro.

Colto da un istinto di protezione, l'uomo provò a prendere il bicchiere dalla mano dell'amante, ma questa fu più veloce di lui e si sottrasse tanto in fretta da lasciarlo a bocca aperta. Anche se aveva alzato il gomito, aveva comunque riflessi migliori dei suoi.

Capendo che non sarebbe stato in grado di farla tornare in sé, almeno per quella sera, Pirovano, stanco e con la pancia bene o male piena, si alzò dal letto e fece un paio di passi per la stanza, indeciso su cosa fare. La voleva, ma voleva anche dormire e non gli sembrava che la Leonessa fosse molto collaborativa, in quel momento, quindi forse ritirarsi nella stanza accanto sarebbe stata la cosa migliore.

“Bei fiori. Chi te li manda?” chiese, per prendere tempo, notando solo in quel momento la cassetta che stava accanto alla finestra.

“Non sono affari tuoi.” ribatté immediatamente la sua amante, versandosi ancora un po' di vino e lasciando a sua volta il letto.

Mentre la Tigre vuotava il calice, con un'unica sorsata, e lo posava sulla scrivania, Giovanni si morse il labbro e si chiese come potesse Caterina passare dall'essere l'inflessibile Contessa capace di tenere saldamente in pugno uno Stato così fragile, all'essere quella donna che ciondolava lì davanti a lui, ubriaca e spersa, capace di bere come un saccomanno e imprecare anche peggio di un turco.

“Se non hai nulla in contrario – fece piano Pirovano, avvicinandosi alla porta – io stanotte dormo di là.”

“Aspetta, dove vai?” lo fermò lei, afferrandolo per la manica.

Giovanni la fissò per un lungo istante. I capelli bianchi scapigliati e gli occhi verdi ancora così presenti, malgrado tutto, le davano un'aria particolare, come una fiera selvatica, capace di saltare al collo della sua preda da un momento all'altro.

Quasi intimorito, l'uomo deglutì e poi disse: “Non hai detto tu, che puoi anche fare a meno di me?”

Con una breve risata, la Sforza lo prese per la cintola delle brache, tirandolo a sé in modo inequivocabile e, dopo averlo fatto chinare un po', per dargli un bacio, rispose: “Ho detto che posso fare a meno di te, non che voglio.”

Nel bacio che si erano scambiati, Pirovano aveva sentito la forte nota vinosa che si era atteso, ma anche il sapore della donna che amava e così, quando lei gli fece capire che lo voleva anche quella volta, benché fosse stanca, benché fosse arrabbiata con Firenze, con la Francia e con mezzo mondo, lui non si tirò indietro.

Lasciò che la sua donna sfogasse su di lui le frustrazioni di quelle giornate claustrofobiche e infinite e, trovandola più aggressiva e possessiva del solito, smise anche di farsi domande su come sarebbe finita tra loro. Si erano promessi di resistere fino alla morte e fino alla morte avrebbero resistito. Era così semplice, in fondo. Non c'era bisogno di farsi altre domande. La loro vita sarebbe sempre stata scandita da quello: amore e guerra, guerra e amore, fino a che il ferro del nemico non avesse avuto ragione di loro.

 
 
   
 
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