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Autore: Adeia Di Elferas    30/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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La giornata di Caterina era cominciata presto, quel 19 luglio. Cominciava appena ad albeggiare e già la Contessa aveva fatto partire dalla rocca un messaggio per l'ambasciatore di Firenze, per pregarlo, se possibile di raggiungerla al Quartiere Militare, in mattinata.

Dopodiché aveva fatto portare dal maestro d'armi la sua armatura preferita in camera e, non avendo in realtà voglia di avere a che fare con nessuno, aveva chiesto a Giovanni da Casale di aiutarla a indossarla, in modo da non dover scomodare nessuno scudiero per quel compito.

L'uomo aveva accettato subito. Anche se erano passati anni, da quando egli stesso aveva fatto da scudiero ai grandi soldati presso cui il Moro l'aveva via via mandato a imparare il mestiere delle armi, ricordava molto bene come vestire un cavaliere.

La Tigre non aveva voglia di parlare. Aveva preferito Pirovano a chiunque altro proprio per non dover controllare il proprio cattivo umore.

Quella notte aveva dormito poco e male, trascinata nel passato da sogni che l'avevano lasciata spossata e inquieta. Invece di rivivere, come le capitava spesso, la morte di Ludovico Marcobelli o quella, più recente, di Pietro Francesco Corbizzi, era tornata al giorno in cui era stata costretta a sposare Girolamo Riario e da lì, in un vortice confuso di immagini e sensazioni così vivide da sembrare vere, aveva rivissuto tutti i momenti peggiori del loro matrimonio.

“Lega bene il laccio della rondella...” disse piano la Sforza, guardandosi con la coda dell'occhio il gomito sinistro.

Giovanni annuì e si apprestò a stringere il laccio come meglio poteva. Aveva cercato di essere meticoloso, ma le armature alla milanese erano tra le più laboriose, da far indossare.

Caterina restava immobile, lasciandosi preparare come un bambolotto. Sotto aveva indossato brache di cuoio da uomo, un camicione bianco e una cotta di maglia molto leggera. Era piena estate, faceva un caldo assurdo già a quell'ora, e l'armatura che indossava pesava almeno quaranta chili, ma non poteva permettersi di alleggerirsi troppo. La cotta andava messa, così come il corpetto di cuoio bollito sopra le piastre. Voleva mostrarsi così come si sarebbe mostrata in battaglia, al momento giusto. Voleva farsi vedere non solo dai suoi soldati, ma anche dal fiorentino. Voleva mandare a lui e alla Signoria un messaggio molto chiaro e preciso.

“I guanti ferrati li metti adesso o..?” chiese Pirovano, quando ormai, a parte la gorgiera, la spada e l'elmo, alla sua amante mancavano solo i guanti.

Caterina ci pensò un momento e poi scosse il capo: “Li metto dopo. Prima vado a prendere il cavallo.”

“Perché vuoi che ci sia anche lui?” le chiese Giovanni, riferendosi molto chiaramente a Machiavelli.

La donna non lo guardò. Le stava alle spalle e stava ancora trafficando con i guanti ferrati. Il tono che aveva usato per porle quella domanda era molto colloquiale, quasi fosse più una sua curiosità, che non una domanda posta per un motivo preciso.

“Deve capire con chi ha a che fare.” rispose semplicemente la Leonessa, passandosi una mano tra i capelli, tenuti sciolti: “Deve vedere. Deve rendersi conto che le miei non sono solo parole.”

“Ho capito.” sospirò l'uomo, con un mezzo sorriso, lasciando un momento i guanti sul letto e arrivandole alle spalle.

Era più alto di lei, ma nel vedersela dinnanzi in armatura, si sentì improvvisamente piccolo e inerme. Si chiese cos'avrebbe provato, un nemico, nel vedersela piombare addosso all'improvviso.

Prendendola alla sprovvista, seguendo un'ispirazione improvvisa, il milanese riuscì a darle un bacio sul collo. Caterina quasi sobbalzò, nel sentire le labbra del suo amante sfiorarle la pelle. Quel gesto, che nell'ottica del soldato avrebbe dovuto essere dolce, o almeno sensuale, per la Contessa fu solo un monito: il collo era scoperto.

“Mettimi anche la gorgiera.” ordinò: “Per l'elmo vedrò poi...”

Mentre Pirovano, con un mezzo sbuffo, prendeva quel pezzo d'armatura e si apprestava ad assicurarlo alla piastra pettorale, la Sforza lo tenne d'occhio. Poteva vedere sul suo volto un'espressione un po' mortificata, come se il modo ruvido con cui aveva neutralizzato il suo slancio l'avesse abbattuto.

Nel tentativo di recuperare almeno in parte, la donna, una volta sistemata la gorgiera, gli posò una mano sul braccio e lo tirò a sé, sfiorandogli le labbra con le sue: “Avanti, adesso, voglio che anche tu ti metta in armatura. Facciamogli vedere di che pasta siamo fatti, noi milanesi.”

L'uomo annuì, convinto solo fino a un certo punto e poi, come a chiedere congedo, soggiunse: “Ti lasciò sul letto l'elmo...”

“Sì, dai, vai pure a farti preparare. Ci vediamo nelle stalle quando sei pronto.” fece lei, annuendo.

Rimasta sola, la Tigre si mosse un po', facendo qualche passo e roteando le braccia in aria. Era da un po' che non indossava un'armatura completa. Non la impediva più di tanto nei movimenti, ma teneva caldo. Dopo dieci minuti, era già in un bagno di sudore.

Sospirò e, mettendosi l'elmo sotto al braccio e tenendo i guanti ferrati in mano, lasciò la sua camera.

“Caterina, devo parlarti...” Chiara la stava evidentemente aspettando fuori dalla porta da un po'.

“Non adesso, sto andando a fare una cosa importante.” la frenò subito la Contessa, chiedendosi come facesse sua sorella a scegliere sempre i momenti meno opportuni per cercarla.

“Volevo solo dirti che tra un paio di giorni me ne andrò. Ho trovato l'aggancio giusto e una scorta che mi protegga e quindi...” iniziò a dire la più giovane, guardando in terra, una mano stretta nell'altra.

“Posso darti un po' di soldi per il viaggio, ma nulla di più.” tagliò corto Caterina, cominciando a camminare: “Basta che mi avvisi con un paio d'ore di anticipo, quando deciderai di andartene davvero.”

Chiara, malgrado tutto, si era aspettata una reazione un po' meno fredda, da parte della sorella. Le sarebbe andato bene anche un litigio, basato sulle scelte, ormai abbastanza risapute, fatte da suo marito Fregosino, che stava ormai impattandosi con il papa e coi francesi.

“Mancherai anche a me, sai?” fece la Sforza minore, fermandosi e guardando la sorella che continuava ad avanzare in corridoio.

“Ne parleremo quando te ne andrai.” ribatté la tigre, voltandosi appena, ma senza smettere di camminare.

Chiara, allora, non disse più nulla. Rimase ferma al suo posto, osservando Caterina andare verso le scale. Indossava un'armatura intera, di quelle pesanti, eppure si muoveva come se avesse avuto addosso un semplice abito di stoffa.

Era come se fosse nata per essere in armi, come se quel ferro che si portava addosso si mescolasse perfettamente con la sua anima, come se facesse parte di lei da sempre. Non sembrava nemmeno strana vederla senza sottana. Era come se, finalmente, avesse indossato l'abito giusto per lei.

'Se ti vedesse nostro padre – pensò con una strana punta di cattiveria – sarebbe fiero di te'.

 

“Non capisco come mai io sia stato chiamato qui, in tutta sincerità...” disse Niccolò, faticando quasi a star dietro al soldato che la Sforza gli aveva mandato – previo biglietto esplicativo – per andare a recuperarlo al suo alloggio.

Questi, con un cenno del capo, lasciò intendere che ne sapesse tanto quanto lui, ma tornò a mostrarsi molto sicuro di sé quando gli indicò l'ultima deviazione da fare, dicendogli: “Ecco, questo è l'ingresso del Quartiere Militare. La Contessa vi attende lì.”

Si sentivano suoni che a Machiavelli ricordavano quelli di una battaglia imminente. Si sentiva il vociare degli armigeri, gli zoccoli dei cavalli battere in terra e perfino i tamburi. Quasi preoccupato, un po' come se si aspettasse di trovarsi uno squadrone di cavalleggeri pronto a travolgerlo, l'ambasciatore ringraziò un po' titubante il suo accompagnatore e poi proseguì in solitudine.

Arrivato nel cuore di quella parte della città – a lui così indigesta e sconosciuta – Niccolò si mise a cercare la Contessa. Occhieggiò sugli spalti di legno che fronteggiavano il grande campo di addestramento, ma non la vide. Là, si rese conto dopo qualche minuto, c'erano solo soldati e un paio di figure che parevano stonare, in quel contesto: una ragazza, con un bambino piccolo in braccio.

“Chi è quella?” chiese, senza farsi troppi problemi, fermando il primo armigero che gli passò accanto.

Questi, guardandolo stranito, rispose, quasi ridendo: “State scherzando, spero... Quella è madonna Bianca, la figlia della Contessa, e il piccolo è messer Giovannino.”

Machiavelli, che non aveva avuto ancora modo di vedere nessuno dei figli della Tigre – nemmeno Ottaviano che, si diceva, fosse ancora a Forlimpopoli per certi impegni di piacere di natura non meglio specificata – strinse un po' gli occhi, per osservare meglio.

Effettivamente la ragazza assomigliava alla Sforza, anche se aveva tratti più gentili. I suoi capelli biondi erano acconciati in modo semplice e il suo abito non lasciava intendere che ella fosse, in pratica, la seconda donna più importante dello Stato.

Il bambino che teneva sulle ginocchia era piccolo, ma robusto, e sembrava attratto dai soldati che si muovevano nel campo, arrivando ad additarli di quando in quando, ascoltando – chissà se capendo o meno – le spiegazioni che la sorella gli dava, chinandosi appena su di lui, per parlargli nell'orecchio.

Dopo un paio di minuti, accanto alla giovane si andò a sedere un ragazzino, con addosso una mezza armatura e, nel vederli così vicini, a Niccolò non risultò difficile capire che quello doveva essere un altro dei fratelli Riario. Dall'età, probabilmente, Galeazzo.

Rinunciando a trovare tra la folla la Tigre, il fiorentino si trovò un posto un po' in disparte, e si sedette anche lui sulla platea, mettendosi a osservare gli armigeri che si esercitavano, confidando che presto la padrona di casa sarebbe arrivata a spiegargli perché mai l'avesse convocato lì e a quell'ora.

Dopo qualche minuto ancora di relativa confusione, il campo venne lasciato libero ed arrivarono, a gran velocità, cinquanta balestrieri a cavallo, guidati da un cavaliere con un'armatura di foggia milanese, con un elmo dal coppo solcato da cresta a mezzaluna molto visibile, dalla tesa piccola e con una gronda perfettamente aderente alla nuca, ma privo di goletta. A difendere il collo dal comandante che stava guidando in campo la banda di balestrieri c'era una gorgiera alta e dalla foggia particolare.

Soffermandosi a osservare un po' meglio, Machiavelli si rese conto che quell'armatura aveva anche qualcos'altro di strano. La piastra pettorale era più larga del solito, con una forma leggermente romboidale. Fu, però, solo quando il misterioso cavaliere voltò il suo grosso cavallo da guerra per guidare una virata dei balestrieri, che il fiorentino capì la verità.

Non ci aveva ancora fatto caso, ma tra il bordo dell'elmo e quello della gorgiera, in modo scomposto e disordinato, uscivano ciocche di lunghi capelli bianchi e mossi. E, da che era a Forlì aveva visto solo una persona con quei capelli.

Era così attonito da non accorgersi quasi di una seconda figura, abbastanza riconoscibile per via degli stemmi milanesi che portava in bella mostra sulla sopratunica, che era appena arrivata in campo, andando in coda ai balestrieri.

Il pubblico, che andava aumentando, osservava in silenzio la dimostrazione di bravura e prontezza di quei soldati che, come fossero stati addestrati fin dalla nascita, rispondevano alla perfezione a ogni più piccola indicazione della loro signora che, stando in testa a tutti loro, li portava a compiere complicate manovre e pericolosi incroci.

Venne poi il momento di dar dimostrazione dell'abilità con le balestre. A ogni carica, a ogni galoppo, i soldati della Tigre centravano alla perfezione i bersagli a loro sottoposti, anche quelli mobili, con gran rischio di colpire per sbaglio uno dei commilitoni che si prestavano a spostare le sagome di paglia.

Gli spettatori, in breve, andarono in visibilio. L'efficienza, la studiata rapidità e l'impeccabile precisione con cui quei balestrieri stavano simulando le fasi di una battaglia lasciò Machiavelli del tutto senza parole. E ciò che più lo sconvolgeva era il capire quanto peso avesse la Tigre in tutto quello che stava vedendo.

Gli applausi e le urla che si spargevano, tutti rivolti ai soldati e a chi li comandava, stavano assordando l'ambasciatore che, di colpo, di trovò a rivalutare l'alleanza tra Firenze e Forlì. La Contessa aveva pochi uomini, in totale, ma se quello era un saggio di ciò che erano capaci di fare, era vero che uno ne valeva almeno trenta di quelli che si potevano trovare più facilmente al soldo di questo o quel capitano di ventura.

Mettendosi poi ad ascoltare ciò che i presenti dicevano, Niccolò capì anche un'altra cosa molto importante. Oltre a inneggiare alla Leonessa di Romagna, i forlivesi gridavano motti e incitazioni diretti alla loro città, al loro Stato. Era uno spirito di appartenenza che serpeggiava sugli spalti come una febbre e il fiorentino comprese come quella forza, così immateriale, potesse ben trasformarsi in colpi di balestra più precisi e fendenti più devastanti.

L'importanza di un esercito autoctono non era mai presa seriamente in considerazione da nessuno, nemmeno dalla Signoria, eppure Machiavelli stava osservando coi suoi stessi occhi la potenza di quel sentimento che, in caso di bisogno, di certo, era in grado di rendere meno penosi i disagi di una guerra e più facili le vittorie.

Assorto nei suoi pensieri, ragionando su come quello che poteva essere per il suo orgoglio maschile e fiorentino solo uno smacco si stesse in realtà rivelando anche un'opportunità, a lui molto utile, di riflessione, Niccolò quasi non si accorse che la mostra dei balestrieri stava volgendo al termine.

La Contessa, sul suo pesantissimo cavallo da guerra scuro, diede infine ordine di stare tutti fermi e, come un sol uomo, i soldati fermarono le loro cavalcature e si presero gli applausi del pubblico. La donna sollevò la celata, mostrando il suo viso statuario, imperlato di sudore, ma dall'espressione ferma e sicura.

Il cavaliere che portava lo stemma di Milano addosso l'affiancò e, con uno sbuffo, si cavò l'elmo, mettendosi a scrutare un po' torvo la platea.

Niccolò riconobbe in lui Giovanni da Casale e improvvisamente tutta quella sceneggiata assunse per lui una nuova connotazione.

Dopo aver aspettato che i balestrieri si congedassero dal loro pubblico e tornassero al loro posto, smontando di sella e andando a recuperare le frecce riutilizzabili, la Contessa spronò il suo cavallo fino agli spalti.

Pirovano era rimasto indietro, a discutere con un paio di balestrieri, ma tutta l'attenzione della Tigre era per Machiavelli. L'aveva visto subito, quando era scesa in campo. In disparte, guardingo e poi, man mano che lo spettacolo davanti a lui si faceva più interessante, sempre più in ansia.

La Sforza si tolse l'elmo, mettendoselo poi sotto al braccio e, rivolgendosi al fiorentino, gli rese noto: “Questi balestrieri partiranno a breve alla volta di Milano.” e siccome l'uomo si limitava a fissarla di rimando, senza commentare, Caterina chiuse con un semplice: “Avrebbero potuto essere di Firenze. Pensateci.”

Siccome la Contessa stava già cavalcando via, tornando verso i suoi balestrieri, Niccolò deglutì un paio di volte, ancora interdetto per quello che aveva visto e, ancor di più, per quello che la Leonessa gli aveva detto.

Se la Signoria avesse visto coi suoi occhi quello sfoggio di muscoli, avrebbe pagato ben più che tre ducati per ogni soldato. Probabilmente sarebbe stata disposta a pagarne anche dieci.

Con la testa molto più confusa, rispetto a quando era arrivato, l'ambasciatore si alzò lentamente e, occhieggiando un'ultima volta verso Giovanni da Casale, che si era messo a parlare fittamente con la Sforza, cominciò a chiedersi quanto realmente Forlì e Milano fossero vicine.

 

Biagio Bonaccorsi, che stava soffrendo abbastanza la lontananza di Niccolò Machiavelli da Firenze, quel giorno si sentiva del tutto oberato di lavoro. La cancelleria gli sembrava sempre di più una galera e da quando il suo amico era partito alla volta di Forlì, non aveva trovato nessuno che lo eguagliasse nel bere e del divertirsi, la sera in osteria.

Così, anche se preda degli eventi di quelle giornate frenetiche, Biagio – forse l'unico che davvero stimasse Niccolò anche come uomo e non solo come impiegato dello Stato – aveva trovato il tempo e il modo di scrivergli una breve lettera.

Era prima di tutto desideroso di far sapere a Macchia quanto fosse fiero di lui, per quell'importante ambasceria. A Firenze se ne parlava di continuo e ci si aspettava grandi cose, da lui. E poi era anche molto curioso.

Gli era arrivata da pochissimo una lettera di Niccolò con cui l'uomo gli raccontava a grandi linee come fosse Caterina Sforza. La descriveva come alta, molto bella, di poche parole e con una certa animosità di fondo che, però, Machiavelli sosteneva di saper dominare e piegare a suo piacimento.

Ciò che aveva colpito molto l'immaginazione di Bonaccorsi, però, era stato altro. Il suo amico aveva descritto l'abito provocante che la donna aveva indossato il giorno del loro primo incontro, ma gli aveva anche detto che normalmente sapeva che non si vestiva così e che già il giorno appresso l'aveva vista aggirarsi tra i suoi sudditi conciata in tutt'altro modo.

Quella descrizione, in realtà, combaciava anche con altri racconti che giravano su di lei e quindi Biagio poteva quasi vedersela davanti: una veste di raso tanè con due braccia di strascino, un camperone di velluto nero, portato alla francese, ma di foggia contadina, una cintola da uomo e, spesso, una scarsella da mercante piena al fianco.

Così, in coda di messaggio, sicuro soprattutto di quel che Niccolò diceva, ovvero di essere già in gran confidenza con la Sforza e già capace di convincerla a far qualsiasi cosa, essendo pur sempre lei una donna, Bonaccorsi aveva aggiunto: 'Io non dubito punto che la Ex. di Madonna vi faccia quello honore, et vi vegga lietamente come ne scrivete... Io vorrei per il primo mi mandassi in su uno foglio ritracta la testa di Madonna, che costì se ne fa pure assai, et se la mandate, fatene uno ruotolo, ad ciò le pieghe non la guastino.'.

Mentre ancora fantasticava su come sarebbe stato quel ritratto estemporaneo di quella che in molti consideravano la donna più attraente d'Italia, Biagio, uscendo dal palazzo della Signoria per andare a casa a mangiare qualcosa, per poco non andò a sbattere contro Lorenzo Medici.

Si scusò, ma il Popolano quasi non lo guardava. Era troppo impegnato a discutere con alcuni uomini che lo seguivano. Notando il tono acceso e il volto tirato dell'uomo, Bonaccorsi decise di aspettare un momento e cercare di carpire qualche parola.

Così, invece di mettersi subito ad attraversare la piazza, tergiversò, fingendo di voler controllare qualcosa sulla facciata del palazzo, guardando in altro e restando in zona. L'avrebbero al massimo preso per uno strano – cosa che, da quando si era dichiarato amico di Girolamo Benivieni qualche anno prima facevano già in tanti – ma non uno spione.

“Certo che è da leggere come un'azione contro di me!” stava dicendo Lorenzo, le labbra che si piegavano verso il basso a ogni parola: “Quello che ha fatto il Duca di Milano non è altro che un attacco alla mia autorità e alla mia famiglia!”

“Be' – obiettò un altro – non si è ancora sicuri che sia vero, però...”

“Ma che dite?!” l'attaccò il Medici, che come non mai in quei giorni si era fatto teso e aggressivo con tutti quanti: “Da Roma ci è arrivata la giustizia! Da Roma! Dal papa!”

“I papi mentono come tutti gli altri cristiani, lo si sa.” provò a stemperare un altro: “Può essere che l'abbia detto solo per convincere la Signoria a voltare le spalle a Milano una volta per tutte e appoggiare i francesi e suo figlio Cesare...”

“Il Duca di Valentinois non ha bisogno di questi giochetti, per farci capire che è lui la scelta giusta...” soppesò uno di quelli che stava dando ragione a Lorenzo fin dal principio: “E il papa lo sa bene.”

“Quindi credete davvero che lo Sforza si sia fidato a dare diecimila fiorini a vostro cugino Piero al solo scopo di riportarlo a Firenze e convincerlo a fermare la nostra guerra contro Pisa?” chiese il primo che si era opposto al Medici.

Questi, stanco di quelle chiacchiere, sollevò entrambe le mani e concluse: “Io dico solo quello che so e quello che so è una verità comprovata dal papa. Il Duca ha pagato mio cugino nella speranza di sollevare me, e questo è quanto. È un attacco a me, e, come tale, è un attacco alla Repubblica. E non ho altro da aggiungere.”

Come colto da un dubbio improvviso, poi, il Popolano lanciò un'occhiata di fuoco a Biagio, che ancora fingeva di essere molto interessato alla facciata del palazzo.

“E voi – gli gridò, indicandolo furente con l'indice – che avete da guardare tanto per aria?!”

Bonaccorsi, le sopracciglia sollevate, sbatté un paio di volte le palpebre, fingendo di essere molto sorpreso per quel richiamo e rispose, a voce bassa: “Nulla, nulla, io...”

“Che avete da controllare? Che l'alberghetto stia ancora al suo posto?” proseguì il Medici, con una risata astiosa: “Che voi Piagnoni ancora bramate di emulare il vostro frate con il martirio?”

Quella stoccata, gratuita e cattiva, spense sul nascere qualsiasi desiderio di dialogo in Biagio. Era sempre per colpa della sua vecchia amicizia con Benivieni che, a volte, veniva ancora definito un Piagnone. Lui, che di Savonarola aveva ascoltato sì e no una predica, senza, per altro, capirci molto.

“Passate una buona giornata, messer Medici...” disse solo, toccandosi la berretta a mo' di saluto e andandosene quasi di corsa.

Lorenzo sbuffò, guardandolo allontanarsi e fece un cenno a quelli che stavano con lui per farsi seguire dentro al palazzo della Signoria.

Non avrebbe voluto scattare a quel modo con un poveraccio come Bonaccorsi. Non che fosse povero, economicamente, ma lo trovava un sempliciotto, sempre intento a correr dietro a quella piaga di Niccolò Machiavelli. Lo irritava, e non riusciva mai a capire cosa pensasse davvero.

Non era riuscito a trattenersi, però, perché quel giorno era teso. Aveva sentito Aldrovandini, il suo avvocato, e, oltre ad averlo dovuto pagare per saldare i servigi del mese appena passato, ci aveva quasi litigato. Voleva chiedere subito l'udienza per l'affidamento del figlio della Sforza. Gli servivano i soldi dell'eredità di suo fratello e che non riusciva a sbloccare. Quello era un momento troppo delicato, per la sua carriera politica. Doveva ungere e blandire e la moneta era l'unico balsamo capace di fare ambo le cose contemporaneamente. Con il Duca che pagava diecimila fiorini a Piero, lui non poteva non avere una disponibilità tale da superare in modo inconfutabile quelle del cugino.

E invece Aldrovandini gli aveva detto che probabilmente sarebbe passato ancora almeno un mese.

“Magari si potrebbe cercare di fissare l'udienza il giorno prima di Ferragosto, ma a Castrocaro...” si era messo a dire, quando Lorenzo aveva dato in escandescenze: “Ma bisogna farne richiesta immediatamente, o si slitterà ancora...”

“Se non si può far di meglio, né per data né per posto, allora si faccia il quattordici agosto a Castrocaro!” aveva esclamato il Medici e l'avvocato se n'era andato subito per preparare gli incartamenti necessari.

Passandosi una mano sulle labbra, cercando di scacciare quel pensiero, cagione per lui di così tanta angoscia, Lorenzo guidò i suoi verso la sala consiliare e ricordò loro: “La mossa del Duca va mostrata come una minaccia per noi come Repubblica, qualsiasi cosa voi pensiate. Si deve votare a favore della Francia, o, quanto meno, della neutralità verso re Luigi.”

 

La permanenza della Tigre e di Pirovano al Quartiere Militare era durata fino a poco dopo il mezzogiorno.

La mostra dei balestrieri non sarebbe stata indispensabile, da un punto di vista pratico, ma la Sforza era felice di averla fatta, soprattutto davanti agli occhi sgranati dell'ambasciatore di Firenze.

“Dai, aiutami a togliere l'armatura...” disse a Giovanni, appena arrivarono in camera.

L'idea migliore sarebbe stata quella di farsi levare tutto il ferro che avevano addosso da uno scudiero, ma, come quella mattina, Caterina non aveva voglia né di parlare né di avere a che fare con nessuno. Solo il suo amante era un'eccezione accettabile.

Aveva una strana agitazione nello stomaco e tutto, dall'attesa continua di notizie da Milano, all'annuncio della prossima partenza di Chiara all'incertezza legata al momentaneo silenzio di Lorenzo Medici, peggiorava solamente quella sensazione indecifrabile.

“Forse prima dovrei farmi cavare l'armatura anche io...” soppesò Pirovano, vedendosi un po' impedito nei movimenti.

La Contessa scosse subito il capo e propose: “Aiutiamoci a vicenda.”

“Sai svestire un soldato?” le chiese Giovanni, trattenendo un sorriso.

La donna sapeva benissimo che quella era solo una battuta, un tentativo – per altro un po' goffo – di alleggerire la situazione e di creare tra loro una certa complicità. Il suo amante era bravo, in quello che sapeva fare, ma nel mostrarsi intimo e familiare con lei ancora aveva molto da imparare.

“Ne ho spogliati molti più di quelli che hai spogliato tu, stai tranquillo.” ribatté allora, cercando di suonare a sua volta ironica, ma tradendo un'inquietudine profonda, nel ricordargli quanto spesso si fosse trovata a cercare una distrazione dalla propria vita intrattenendosi con gli uomini che militavano al suo servizio.

Deglutendo, Pirovano capì l'antifona e preferì archiviare sul nascere la questione.

Così, senza più dire nulla, entrambi iniziarono a levarsi a vicenda i pezzi delle armature, una rondella per volta, una piastra dopo l'altra, allentando con lentezza le cinghie e sciogliendo i nodi dei lacci.

C'era qualcosa di sensuale e allo stesso tempo di ruvido, in quello che stavano facendo. Caterina cercava di non darvi peso, però più veniva alleggerita nel corpo, più anche la sua mente premeva per trovare un sollievo. E così, senza quasi rendersene conto, finito di togliere i pezzi di ferro che li coprivano, i due cominciarono a strapparsi di dosso anche gli abiti, uno per volta, fino a ritrovarsi nudi e pieni di desiderio, senza niente e nessuno che potesse impedire loro di dar sfogo al loro istinto anche quella volta.

Quando ebbero finito di amarsi, stremati anche dalla lunga mattina passata a cavallo e in armi, la Sforza e Pirovano si abbandonarono un istante l'uno all'altra, per riprendersi e fare un punto della situazione.

Giovanni era appoggiato con la schiena alla testiera lineare del letto e Caterina restava invece contro il suo petto. Con un braccio, lui le cingeva la spalla, passando lentamente la punta delle dita sulla sua pelle liscia e ancora accaldata. La Tigre, invece, con la mano aveva trovato, sotto il lenzuolo che li copriva fino alla vita, la coscia forte e robusta del suo amante e la teneva stretta, come a reclamarne la proprietà. Rimasero così in silenzio per un po', assaporando il senso di quiete e di sopore che aveva preso entrambi.

Tuttavia, quando le campane scandirono l'ora, ricordando a entrambi che il mondo, mentre erano sotto le coperte, non si era fermato, il milanese chiese: “È andata bene, no?”

Ovviamente l'uomo si riferiva a quel che era successo al Quartiere Militare, ma la Leonessa volle cercare di fare un secondo tentativo, per portare la loro relazione su un piano di maggiore intesa, e così scherzò: “Sì, sei stato bravo. In fondo ho scelto uno della tua età per potermi concedere questo tipo di svaghi tutte le volte che voglio. Uno più vecchio alla fine non riuscirebbe a tenere il passo.”

Pirovano aveva capito lo sforzo della sua amante e così stette al gioco e commentò: “Mi alleno con la spada tutti i giorni solo per poter esaudire degnamente i tuoi ordini, mia signora.”

Mentre ancora Giovanni da Casale era scosso da una risata leggera, Caterina, che gli restava incollata, senza badare al caldo che, sommato al calore del corpo di lui, la stava facendo ancora sudare, disse, tornando seria: “Comunque sì, è andata bene. Credo che quel maledetto fiorentino adesso mi veda in modo diverso. Vedermi in armatura, alla testa dei miei uomini, gli ha aperto gli occhi.”

“Io, comunque, ti preferisco così.” le sussurrò l'uomo, all'orecchio, stringendole appena il seno con una mano e facendo scivolare l'altra sotto la coperta, cercandone il fianco e poi la gamba.

“Così come?” chiese lei, senza reprimere un sorriso soddisfatto, nell'avere conferma del fatto che il suo amante, malgrado tutto, non ne aveva mai abbastanza di lei.

“Senza armatura.” spiegò lui, baciandole il collo: “Anzi, senza vestiti in generale...”

Mentre rispondeva, senza troppa convinzione a quel principio di assalto di Pirovano, però, la Contessa venne colta da un pensiero che ebbe il potere di raggelarla. Si chiedeva cos'avrebbe pensato di lei suo marito Giovanni e, ancor più di lui, Giacomo. Il primo non l'aveva mai vista davvero combattere, il secondo sì. Loro l'avrebbero preferita in armatura, o nuda? Spada in pugno in guerra o disarmata a letto?

Cercando di dissimulare l'agitazione che l'aveva presa, dovuta per altro a un pensiero che la confondeva e che non capiva da dove arrivasse e perché fosse arrivato proprio in quel momento, la donna respinse in modo abbastanza chiaro il suo amante, spingendolo indietro, una mano sulla spalla, le labbra che smettevano di rispondere ai suoi baci e, mentre lui la liberava dalla sua stretta, interrogativo, lei rispose alla sua tacita richiesta di spiegazioni con un semplice: “Ho fame. Vado a mangiare qualcosa.”

Senza avere la forza di provare a convincerla a restare ancora un po', riconoscendo ormai l'ombra dei fantasmi della sua amante e sapendo di non poterla scacciare solo con qualche bacio e un po' di calore, Pirovano alzò le mani in segno di resa e annuì: “Come vuoi tu.”

“Oggi pomeriggio ho un sacco di cose da fare...” si mise a dire lei, rivestendosi in fretta: “Siccome non piove da settimane, Ridolfi vuole farmi vedere lo stato delle campagne. Come se vedere un campo secco potesse bastare a farlo tornare fertile...”

Giovanni da Casale non la stava ascoltando più, in realtà, ma mentre la Tigre proseguiva con l'elenco degli annosi impegni che la stavano strappando da lui, faceva segno di sì con il capo, aggiungendo di quando in quando una mezza esclamazione di comprensione, sperando che alla sua amante bastasse così.

“Recuperiamo stasera, te lo prometto.” fece alla fine lei, prima di lasciare la stanza e poi, non riuscendo comunque a trattenersi, andò un istante al letto e gli diede un profondo bacio, aggiungendo: “Perdonami. Meriteresti di meglio, ma questo è tutto quello che posso offrirti.”

L'uomo avrebbe voluto risponderle in tanti modi, ma alla fine riuscì solo a soffiare: “A me basti tu.”

 

“Avanzano, avanzano di continuo...” sussurrò Ludovico Sforza, cercando – invano – di allargare la collottola di ferro dell'armatura che portava.

Ascanio, che trovava ridicola la decisione del fratello di vagare per il palazzo di Porta Giovia coperto di ferro come un soldato in battaglia, scosse il capo e disse: “Lo so, la situazione non è buona, ma possiamo ancora cercare di fare qualcosa. Almeno con Isabella d'Aragona... La Francia finirà a minacciare anche Napoli. Se tu riuscissi a riappacificarti con lei, si potrebbe cercare di fare un'alleanza con gli Aragona... Anche Sancha e Alfonso, a Roma, sono in stato di agitazione...”

“Ho mandato dei soldi a Piero Medici. Se lui riuscisse a sollevare Firenze contro il governo e far sì che la Signoria si volti a mio favore, contro i francesi...” prese a dire il Moro, gli occhi scuri, spersi, che indagavano il viso incagnito del più giovane, come a cercarvi una risposta ai suoi dubbi.

Ma il Cardinale, con un movimento repentino della mano, lo fece tacere: “Ma che dici! Ma come puoi pensare che lo farà? Sei proprio un ingenuo! E, anche se lo facesse... Passerebbero mesi, magari anni, prima che si crei una nuova Signoria e che ti si dimostri favorevole...”

“Nostra nipote, Caterina, mi manderà dei soldati.” fece allora il Duca, guardando fuori dalla finestra, verso il cortile, facendosi scuro in volto.

“Quanti?” si informò il religioso, conoscendo quanto il fratello l'intelligenza della nipote e avendo avuto prova in prima persona della sua fermezza in guerra.

“Non lo so... Non lo so...” ammise Ludovico, quasi sull'orlo delle lacrime: “E non posso nemmeno lamentarmene, perché si accontenta di avere le spese pagate... Non mi ha chiesto nemmeno un ingaggio, solo un rimborso...”

Ascanio, nel vedere l'altro così provato, cercò di dargli conforto. Si toccò il crocifisso che portava al collo, benché indossasse abiti secolari in quel momento, e poi prese una delle grosse mani del Moro tra le sue.

Con gli occhi chiusi e il cuore che batteva rapido per l'entità della promessa che stava per fare, il Cardinale prese fiato e poi disse, di fretta, come se temesse di cedere alla tentazione di rimangiarsi tutto prima di aver dato la sua parola d'onore: “Io sono un uomo di Chiesa, non ho più agganci in Vaticano, e non ho nemmeno avuto modo di legare con Cesare, il figlio di nostra nipote, perché sono scappato troppo presto per aver modo di parlargli con calma. Non ho un esercito, non ho influenza, non ho la preparazione necessaria a darti consigli. Ma una cosa la posso fare.”

Il Duca ascoltava in silenzio, come rapito e non sottrasse la mano dalla stretta del minore, anzi, gli si avvicinò un po' di più, in attesa di sapere.

“Se si dovesse arrivare al peggio – disse, quasi con solennità Ascanio, giurando davanti a Dio che quella promessa non se la sarebbe mai e poi mai scordata – mi impegnerò personalmente a portare i tuoi figli al sicuro.”

Ludovico si era aspettato qualcosa che potesse portare anche lui stesso in salvo, ma quello era già molto, specie detto dalle labbra sempre così caute di suo fratello Ascanio.

Attirandolo a sé con vigore, lo abbracciò, incurante dell'armatura che si frapponeva tra loro, facendo quasi gemere di insofferenza il Cardinale, ed esclamò, tra le lacrime: “Aveva ragione nostro padre, quando diceva che gli Sforza devono sempre restare uniti...”

“Allora vedi di riavvicinare a noi anche i figliastri di Galeazzo Maria – gli consigliò l'altro, mentre si liberava dal suo abbraccio – e anche Caterina. Nostra nipote è l'unica che ci capisca ancora qualcosa, in questo pazzo mondo...”

 
 
   
 
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