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Autore: Adeia Di Elferas    03/04/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Se non pioverà – concluse Ridolfi, indicando il campo che stava loro davanti, così secco da sembrare coperto di sabbia, più che di terra – possiamo dire addio ai prossimi raccolti.”

“E anche aspettarci qualche epidemia...” sbuffò la Sforza, stringendo gli occhi contro il sole: “I ratti hanno sete e stanno arrivando a frotte in città. Avete liberato i gatti vicino alle dispense?”

“Ho fatto tutto quello che mi avete detto.” fece Simone, un po' piccato: “Ma con due gatti in croce, non potete certo aspettarvi che tutti i topi di Forlì spariscano.”

Irritata dal tono ostile del Governatore, che cavalcava accanto a lei su un placido baio, la Tigre spronò il suo stallone, irrequieto come sempre, e, facendolo voltare di scatto, mise in chiaro: “Lo so anche io, ma l'amministrazione di questa città spetta a voi, quindi vi consiglio di trovare una soluzione, prima che sia troppo tardi.”

Cercando di starle dietro, mentre lei riportava la sua bestia sulla strada e si metteva a galoppare di nuovo verso Forlì, Ridolfi le disse: “Farò quello che posso, ma le vostre norme igieniche non sono gradite a tutti!”

“Forse no, ma prima che voi foste Governatore non ho mai avuto grosse difficoltà a farle mettere in pratica!” ribatté la donna e, senza più far finta di volerlo aspettare, colpì con forza i fianchi del cavallo coi tacchi e lo distanziò abbastanza da fare la strada di ritorno da sola.

 

“Notizie da Forlì?” chiese Piero Landriani, ravviandosi i capelli e avvicinandosi al nipote, Ottaviano, che stava leggendo una lettera vicino alla finestra.

Da che era arrivato a Forlimpopoli, il giovane Riario non aveva fatto molto. Aveva presenziato agli interrogatori dei soldati ribelli, ma di fatto era stato suo zio a fare tutto quanto. Anche quando sua madre Caterina aveva dato ordine di tagliare la mani al capo della rivolta e condannare tutti all'esilio, Ottaviano aveva solo dato il suo formale assenso, senza nemmeno voler guardare mentre la pena corporale veniva eseguita o mentre i condannati venivano accompagnati fuori dai confini dello Stato.

“Mia madre...” sussurrò il giovane, voltandosi a guardare Piero, che aspettava una risposta: “Dice solo che sarebbe meglio se io restassi qui ancora qualche giorno per controllare la situazione igienica di Forlimpopoli... Vuole che si ricordi alla popolazione le norme che lei stessa aveva imposto durante l'ultima epidemia di peste.”

Il Landriani, i capelli biondi e corti che erano rimasti un po' in piedi, puntò su di lui le iridi chiare, preoccupato, e chiese: “Pensa che potrebbe esserci un'epidemia a breve?”

Il Riario, che era convinto che quella richiesta nascesse solo dal desiderio della Tigre di non averlo tra i piedi per un po' – in fondo si era già liberata di Cesare e, probabilmente, avere anche lui lontano la stava facendo sentire bene come non le capitava da tempo – scosse il capo e minimizzò la cosa con un semplice: “Immagino sia solo per prudenza...”

“Comunque potete dire a vostra madre che i soldati di questa rocca seguono alla lettera le sue disposizioni.” fece il Landriani, con un sospiro, non del tutto convinto dalla risposta del nipote: “E per quanto riguarda la città, poterete vedere coi vostri occhi come...”

“Non intendo uscire dalla rocca.” si oppose Ottaviano che, dal suo arrivo, l'aveva lasciata solo una volta, la prima notte che aveva passato lì, per cercare una donna con cui passare un po' di tempo, e l'aveva fatto con la paura di fare qualcosa di sbagliato, come se non fosse autorizzato a prendersi tanta libertà, benché, di fatto, anche Forlimpopoli fosse sua, o meglio, di sua madre.

“Come preferite...” disse piano Piero che, invece, se avesse potuto, sarebbe uscito da quella rocca subito.

Anche se il suo ruolo di castellano gli calzava a pennello e anche se, malgrado la giovane età e la relativa inesperienza, i suoi soldati lo veneravano, c'erano giorni, come quello, in cui il sole e l'aria che profumava d'estate gli facevano rimpiangere il mondo che esisteva fuori da lì. Era come essere un monaco di clausura, ma con il sangue caldo di un ventenne nelle vene. Se fosse dipeso da lui, in mattine come quella, avrebbe preso un cavallo, sarebbe passato a prendere la sua donna, e l'avrebbe portata con sé nei boschi, tornando solo a tarda sera.

“Potete farmi portare dell'altro vino?” chiese Ottaviano, appena prima che lo zio lasciasse la saletta.

“Certo.” fece subito il Landriani, senza dar peso a quel genere di richieste, più degne di un servo che non di un castellano: “Lo volete rosso o bianco?” aggiunse addirittura.

Il Riario deglutì, ripiegando la lettera e mettendosi a guardare verso la finestrella che dava verso il fossato: “Basta che sia forte...”

 

Bianca e la sua amica delle cucine si erano sistemate da qualche minuto nel loro nascondiglio preferito. Per alcuni dei soldati della rocca, era arrivato il momento del bagno e le due ragazze non volevano farsi scappare quell'ennesima occasione di allungare l'occhio.

In realtà, però, da un po' di tempo era più la sguattera a spingere la Riario a perpetrare quella loro abitudine. Era lei sempre quella che proponeva di andare a vedere gli armigeri della Tigre immergersi nei vasconi di legno che la Contessa metteva a loro disposizione. L'altra non si opponeva, ma aveva perso in parte l'interesse pungente che aveva avuto fino a qualche mese addietro.

Da che era morto Manfredi, infatti, in Bianca qualcosa era cambiato. Era stato come se un filo invisibile si fosse rotto, facendola riflettere in modo più profondo sia su se stessa, sia sugli uomini.

Si era trattato di una sorta di bagno gelato, capace di metterla davanti a tante verità, riguardanti soprattutto se stessa, che l'avevano frenata un po'. Non si era quasi più appartata con nessuna recluta, aveva rifuggito anche solo l'idea di cercarsi qualcuno da amare, come se perso il faentino, che in qualche modo si era offerto di proteggerla anche dalle malelingue e dagli scandali, fosse nata in lei una paura che prima la sfiorava appena.

Sentiva sempre il sangue ribollire nelle vene, ma, se prima aveva fatto scarsi tentativi di tenerlo a bada, adesso si era fatta più accorta, dando maggior importanza alle proprie azioni e ragionandole una per una, mettendole su una bilancia molto fine, arrivando quindi poi a trattenersi il più delle volte.

L'amica, a un certo punto, le indicò in modo frenetico l'ingresso del baraccamento. Bianca seguì il suo indice e capì il motivo di tanta sorpresa. Affiancando il Capitano Rossetti, che aveva già cominciato a spogliarsi, c'era Giovanni da Casale.

Era chiaro, alla Riario, che tutta l'euforia della sua amica fosse legata alla speranza di vedere senza vestiti anche Pirovano, ma a lei quell'apparizione interessava per un altro motivo. Si stava chiedendo se i discorsi che quel milanese stava facendo con Rossetti fossero stati, in qualche modo, concordati o almeno discussi in precedenza con la Contessa.

Così, mentre la sguattera fremeva, nel vedere il Capitano già pronto a immergersi nell'acqua, in un punto abbastanza tranquillo del vascone più grande, mentre Giovanni restava accanto al bordo, ancora perfettamente vestito, Bianca tese l'orecchio e cercò di carpire cosa si stessero dicendo.

Non stavano bisbigliando, non davano l'idea di voler mantenere segreto il loro dialogo, tuttavia era chiaro che non volessero nemmeno attirare su di loro troppo attenzione.

Per fortuna si erano messi proprio sotto al punto segreto di appostamento delle due ragazze e così la voce del milanese era per loro ben udibile.

“Sì, sì, non ci sono dubbi che fosse Achille Tiberti – stava dicendo Pirovano, scuotendo appena il capo e asciugandosi un po' di sudore dalla fronte – lo hanno riconosciuto in modo distinto.”

“Assalire i contadini di Longiano, però...” fece Rossetti, prima di immergere un momento la testa in acqua, per pulirsi anche i capelli: “Siamo sicuri della motivazione?”

Giovanni annuì, battendo nervosamente una mano sul bordo del vascone e confermò: “Quelli di Longiano, in segno di fedeltà alla Contessa, si sono rifiutati di riconoscere il pagamento delle tasse ai pontifici e così il papa ha dato ordine a Tiberti di massacrarli fino a convincerli a pagare. E invece l'hanno respinto, e non hanno pagato.”

“Certo che se Longiano si schiera così apertamente per la nostra signora... Forse non tutto è perduto.” soppesò Rossetti, che si era sorpreso subito, nel vedere come un territorio cesenate si fosse subito dichiarato dalla parte della Leonessa.

“Lo stesso è successo a Savignano.” gli fece notare Pirovano, mentre il Capitano prendeva un pezzo di sapone: “Sembra che siano riusciti a respingerlo anche lì.”

“Che diamine, messer da Casale...” sbuffò, quasi divertito, Rossetti: “Forse la Tigre ha capito davvero come vincere questa guerra.”

“Però non sta facendo nulla, per farsi degli alleati...” fece distratto Giovanni, ragionando soprattutto su come la sua amante stesse gestendo l'ambasceria fiorentina.

“Al diavolo..!” sbottò il Capitano, insaponandosi con cura anche le mani, sporche per una giornata passata tra le armi: “Le basta essere quella che è. Vale più lei da sola che cinquanta di quei signorotti che non mettono mai fuori il naso dai loro palazzi..!”

Pirovano fece un cenno con il capo, come a dargli tacitamente ragione e poi si congedò: “Vi lascio al vostro bagno, Rossetti...”

“Non volete unirvi a noi?” chiese l'uomo, allargando un po' le braccia, come a far notare al milanese che i vasconi si stavano via via rimpiendo.

Bianca avvertì distintamente la tensione della sua amica, accanto a sé, che evidentemente sperava con tutta se stessa di sentirgli rispondere di sì.

“No, no... Io mi faccio il bagno da un'altra parte. Grazie, comunque.” fece Giovanni, sollevando una mano.

“Oh giusto – ridacchiò Rossetti, facendo intanto un cenno a un soldato suo amico che era appena arrivato nel baraccamento – voi il bagno lo fate con lei.”

Il milanese abbozzò un sorriso e non confermò, ma nemmeno smentì: “Godetevi l'acqua fresca, che oggi si muore di caldo!” concluse, salutando e andando verso l'uscita.

Mentre Pirovano si allontanava una volta e per tutte, la sguattera sbottò, in un soffio appena udibile: “Mannaggia..!”

Bianca, istintivamente, le mise subito una mano sulla bocca ed entrambe trattennero il fiato mentre Rossetti, sentendo qualcosa di strano, sollevava lo sguardo, ma senza riuscire ad accorgersi di loro.

Trattenendo allo stesso tempo una risata e un sospiro di sollievo, le due tornarono a spiare i soldati, aspettando che arrivassero quei due o tre che avevano eletto come loro preferiti, abbandonando, poi, il loro osservatorio un po' prima del solito, per commentare quanto successo.

Solo che, se la sguattera non faceva altro che dirsi quanto fossero state fortunate a non essere state viste e quanto, contemporaneamente, fossero state sfortunate a non aver visto Giovanni da Casale nudo, Bianca riusciva a pensare solo ed esclusivamente a una cosa.

Quello che aveva sentito le apriva uno scenario un po' inatteso. Sapeva che sua madre era adorata dalle truppe, che piaceva abbastanza alla sua nobiltà rinnovata – in parte creata da lei stessa dopo il 1495 – ma si era sempre aspettata di vederla detestata dal popolo. Sfamava i soldati, pagandoli più che bene, ma rischiava costantemente di far morire le campagne, mortificare il commercio e stroncare sul nascere quasi ogni forma d'arte. Il loro Stato era volto interamente allo sforzo bellico e, se questo le procurava una popolarità invidiabile tra gli armigeri, la rendeva indigesta a chi con le armi aveva poco o nulla a che fare.

Così, mentre la sua amica commentava in modo abbastanza volgare l'aspetto di uno dei soldati più giovani che avevano visto quel giorno, la Riario stava ancora rimuginando su quanto sarebbe pesato, quell'inatteso appoggio del popolino delle terre limitrofe, nella difesa di Imola e Forlì e, per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare una risposta.

Da un lato – e quasi se ne vergognava – avrebbe voluto che sua madre si vedesse del tutto sola e abbandonata, così senza speranza da decidere per se stessa e per tutti loro un piano di fuga studiato nei minimi dettagli, che permettesse loro di mettersi in salvo, dimenticandosi di tutto quello che si lasciavano alle spalle e permettesse loro di iniziare una nuova vita.

Dall'altro, invece, Bianca capiva lo spirito della Tigre e si augurava che sempre più focolai di suo estimatori si palesassero e si unissero, fino a creare un incendio che l'avrebbe aiutata a provare ad aver ragione dei francesi.

Di una sola cosa la Riario era certa, ovvero che in entrambi i casi sua madre ne sarebbe uscita distrutta. Se fosse rimasta a combattere fino alla fine, anche se affiancata da uomini fedelissimi e motivati, sarebbe morta lottando. Se invece avesse davvero optato per una fuga – cosa che la ragazza riteneva sempre più improbabile – sarebbe morto il suo spirito e forse, nel suo modo di vedere la vita e il mondo, sarebbe stato anche peggio.

Deglutendo rumorosamente, mentre un brivido gelido le correva sulla schiena al pensiero che, in un modo o nell'altro, il momento del distacco sarebbe arrivato e presto, Bianca annuì appena alla sua amica, che ancora spettegolava sul soldato per cui aveva un debole e poi le disse, con voce bassa: “Scusa, mi sono ricordata che dovevo fare una cosa...” e con un breve sorriso, cambiò bruscamente direzione, al solo scopo di lasciare indietro la sguattera e dedicarsi qualche minuto di silenzio e solitudine per riflettere.

 

Machiavelli cominciava a essere molto nervoso. Non capiva perché anche quel 21 luglio fosse stato chiamato al Quartiere Militare per assistere a una mostra, questa volta di cinquecento fanti, sempre destinati a Milano.

Quel dettaglio gli era stato reso noto subito, ancora prima che uscisse dal suo alloggio e a quel punto l'ambasciatore era stato tentato di non andare nemmeno.

Poi, però, il soldato che era andato a recuperarlo gli aveva fatto presente che la Tigre si sarebbe 'molto risentita' se non l'avesse visto sugli spalti e così Niccolò non aveva potuto far altro che aggrottare la fronte, assumere un'espressione da martire e camminare sotto il sole cocente di quella mattina fino al Quartiere Militare.

Similmente a quando accaduto due giorni prima, il fiorentino aveva assistito all'ingresso in campo degli uomini della Sforza, ma stavolta l'aveva riconosciuta subito, perché non portava l'elmo.

Gridava i suoi ordini senza la minima esitazione e i suoi eseguivano tutto quanto in modo celere e impeccabile, guadagnandosi spesso gli applausi della platea. Questa volta, però, invece che Giovanni da Casale, a fiancheggiare la donna c'era un altro. Un ragazzino o poco più. Machiavelli aveva sentito qualcuno degli armigeri incitarlo, chiamandolo Galeazzo e quindi aveva subito pensato che potesse essere uno dei figli della Contessa.

A guardarlo bene, in effetti, assomigliava alla donna e, soprattutto, a Niccolò ricordava il ragazzetto che aveva visto vicino alla figlia della Tigre quando aveva assistito alla mostra dei balestrieri.

Mentre i fanti si esibivano cambiando molto rapidamente schema, passando senza problemi da una colonna d'avanzamento e un'obliqua d'accerchiamento, l'ambasciatore si mise a cercare tra il pubblico proprio Bianca Riario. Non gli fu difficile individuarla, dato che era praticamente l'unica donna presente. Portava in braccio il fratello minore anche quella volta.

Machiavelli, ricacciando indietro un moto di disapprovazione per la presenza di entrambi a un simile spettacolo, tornò a guardare davanti a sé.

Non gli piaceva quel che stava vedendo. Era molto scenico, molto coinvolgente, esaltante, quasi, ma lui, in quella seconda dimostrazione di forza e capacità vedeva solo un pericolo. E quasi una beffa.

Quella volta, finito lo spettacolo, se tale poteva definirsi, la Contessa non andò a cercarlo, ma si ritirò subito con i suoi soldati, senza dargli importanza, malgrado fosse stata lei stessa a volerlo lì.

Arrabbiato sia con lei sia con se stesso, per non aver avuto il coraggio di restarsene nel suo alloggio, invece di correre come un cagnolino ubbidiente, il fiorentino si alzò tra i primi e se ne andò scalciando l'aria, con la chiara sensazione di aver solo perso tempo e di essersi fatto venire uno stravaso di bile che gli avrebbe reso indigesto il pranzo.

 

“Allora, che ti ha detto Ridolfi?” chiese Caterina, mentre Giovanni da Casale l'aiutava a togliersi l'armatura.

Il milanese non l'aveva seguita al Quartiere Militare, quella mattina, perché la Sforza gli aveva affidato un compito più delicato.

Dopo l'ispezione fatta da lei e dal Governatore nelle campagne il giorno prima, infatti, era giunta in città una notizia a dir poco allarmante: secondo alcuni contadini c'era un caso di peste.

La Leonessa, non potendo rimandare la mostra che ormai aveva annunciato e a cui voleva a tutti i costi presenziare per impressionare ulteriormente Machiavelli, aveva chiesto a Simone di andare a controllare di persona e poi di riferire quanto visto e sentito a Pirovano.

“Non era peste.” fece subito l'uomo, prendendo la piastra pettorale dell'armatura della sua amante e posandola in terra.

Erano nella loro camera, al riparo dal solleone di quel mezzogiorno e dagli occhi della rocca. Per Caterina avere un ambiente come quello in cui poter mollare gli ormeggi era indispensabile.

Massaggiandosi il polso destro, che quella mattina aveva sforzato nel manovrare continuamente a una mano lo spadone che aveva scelto per attirare su di sé l'attenzione del fiorentino, la donna guardò in tralice Giovanni e gli chiese: “Davvero?”

“Sì, sì...” confermò lui, levandole anche gli ultimi pezzi di ferro, liberandola infine da quella zavorra che, in una giornata torrida come quella, la stava quasi facendo impazzire: “A quanto pare era solo una bruttissima polmonite, ma il marito di quella donna, vedendola sputare sangue ha pensato che avesse la peste...”

“Meglio così.” commentò piano la Sforza, dispiacendosi solo tra sé per la sorte amara della contadina ammalata: “Comunque se anche Ridolfi dice che non era peste, mi fido. In fondo lui, vivendo a Firenze, ne ha visti, negli anni, di appestati...”

Pirovano a quel punto si accigliò, indeciso se fare o meno una precisazione.

Si era già risolto a tacere, quando la donna si accorse che qualcosa lo impensieriva e così, afferrandolo per il braccio in modo perentorio, quasi fosse un interrogato e non il suo amante, lo squadrò con attenzione e gli chiese: “Che c'è?”

“Niente...” prese tempo lui, cercando di divincolarsi dalla stretta, ma senza successo: “Ecco, solo non è andato Ridolfi di persona, a vedere...”

“Come?” domandò Caterina, presa alla sprovvista: “E chi è andato, allora?”

Pirovano si era già pentito di non aver tenuto la bocca chiusa. In fondo non avrebbe fatto alcuna differenza, a suo modo di vedere le cose, se la sua amante fosse rimasta convinta che a controllare il malato fosse stato il Governatore. Ormai, però, aveva parlato troppo e la Sforza non era una donna incline a lasciarsi scivolare addosso quel genere di informazioni.

“Ha mandato un paio di soldati...” spiegò dunque Giovanni, cercando, comunque, di dire il meno possibile per non farla irritare ulteriormente.

La Leonessa, capendo che dal milanese non avrebbe tratto altre informazioni, gli lasciò andare il braccio di colpo e poi, come una furia, andò alla porta dicendo solo: “Non aspettarmi, non so quanto ci metto.”

L'uomo non fece commenti e, con un sospiro abbattuto, poté solo osservarla mentre usciva in corridoio.

Caterina sapeva dove trovare il Governatore. L'aveva visto proprio mentre rientrava dal Quartiere Militare, diretto allo studiolo del castellano per controllare con lui i resoconti della settimana appena passata.

Così la donna andò senza indugio allo studiolo e, in effetti, trovò subito Simone, ancora intento a discutere con Cesare Feo.

Senza dargli spiegazioni, né allontanare prima il castellano per evitare di far poi sparlare di sé e dei propri metodi, la Contessa si avventò all'istante su Ridolfi, seduto davanti alla scrivania, prendendolo per il colletto del giubbone e gli gridò: “Che significa questa storia che io mando voi e voi mandate un altro?!”

Il Governatore, sbiancato per la repentinità di quell'azione, sollevò le mani, quasi temesse di vedersi anche colpito. Se non fosse stato seduto, la sua maggior altezza avrebbe di certo impedito alla Tigre di afferrarlo a quel modo, ma l'irruenza della Sforza era sufficiente a spaventarlo, malgrado il loro evidente divario fisico.

“Non credevo facesse differenza...” si difese il fiorentino, capendo subito a cosa si riferisse la sua signora.

Il castellano, tutt'altro che estraneo ai modi maneschi della Leonessa, deglutì e, alzandosi, sussurro, un po' incerto: “Forse è meglio se vi lascio soli...”

“Restate dove siete, voi!” sbottò invece la donna, guardandolo di traverso e poi tornando a chinarsi sul Governatore, la stoffa del giubbone tanto stretta nel pugno da rischiare quasi di strapparla: “La fa, la differenza, invece! Io ho mandato voi e voi dovevate andare! Non dovete permettervi di mandare dei soldati al vostro posto! Siete al mio diretto comando!”

Ridolfi aveva deciso di mandare due armigeri al suo posto non per spirito di insubordinazione, ma bensì per paura di essere contagiato. Non credeva già in partenza che si trattasse di peste, da come gli era stata descritta, ma, qualunque cosa fosse, non voleva rischiare una malattia solo per essere ligio a un ordine.

Dalla luce pungente che illuminava gli occhi verdi della Contessa, però, capì che quella scusa l'avrebbe solo portata a gridare più forte e, forse, anche a comminargli una pena esemplare.

Così preferì mantenersi fedele alla versione più facile e meno impegnativa: “Perdonatemi – soffiò, quasi con un filo di voce, mostrandosi contrito – non pensavo di essere in errore... Credevo davvero che non facesse differenza se a controllare fossi io o un altro...”

Caterina fissò per un lungo istante il viso del Governatore e poi, sentendosi anche gli occhi del castellano puntati addosso, si decise a desistere. Non era sicura che Simone le stesse dicendo la verità, anzi, era quasi certa del contrario, tuttavia non voleva fare le cose più grosse di quanto non fossero.

Era scattata a quel modo solo perché era stanca e tesa. Era bastato un nonnulla per farle perdere la testa e un po' si vergognava di quella che le sembrava tanto una dimostrazione di debolezza.

Mollando la presa sul giubbone e rimettendosi dritta, la Tigre tirò su col naso e concluse, tanto per non lasciarla del tutto vinta a Ridolfi: “Per questa volta accetto le vostre scuse, ma non avrete una seconda possibilità. I miei ordini vanno eseguiti alla lettera. Ogni libertà che vorrete prendervi, dovrete annunciarmela in anticipo e ottenere il mio benestare. Intesi?”

Il fiorentino si risistemò l'abito e, senza nemmeno alzarsi dalla sedia, annuì in silenzio. Si grattò un momento il barbone rossiccio e poi, con una padronanza di sé che rasentava l'offensivo – dato quello che era appena successo – l'uomo riprese in mano i fogli dei conti e dedicò un'occhiata quasi impaziente alla sua signora, quasi a dirle che, se non c'era altro, lui e il Feo avevano cose importanti di cui discutere.

Rimangiandosi la rabbia e il nervosismo, Caterina cercò di placarsi una volta per tutte. Aveva preso Simone al suo servizio solo perché Giovanni si fidava di lui e, in effetti, fino a quel momento aveva sempre svolto abbastanza bene il suo compito. Non andavano d'accordo, non si piacevano troppo e spesso, era evidente, non si capivano, ma quelli non erano motivi validi per licenziarlo, men che meno in un momento difficile come quello.

“Mi raccomando.” fece infine la donna, tornando alla porta, pensando che avrebbe fatto meglio a non assecondare l'impulso del momento, ragionando di più, invece che fiondarsi subito allo studiolo.

Forse, pensò con un velo di tristezza, se in camera con lei invece di Pirovano ci fosse stato Giovanni Medici, l'avrebbe fermata, l'avrebbe indotta a riflettere e poi avrebbe parlato lui con Ridolfi, smorzando sul nascere quello che aveva rischiato di essere un mezzo disastro.

Lasciatasi alle spalle Cesare Feo e Simone, la Contessa camminò per tutto il corridoio e, non avendo voglia di vedere o parlare con nessuno, arrivata a metà, circa, virò bruscamente verso la sua spelonca da strega. Tra alambicchi e pozioni non avrebbe dovuto badare a quello che la gente pensava di lei o pretendeva da lei.

Era quasi arrivata quando sentì la voce di suo figlio Bernardino. O meglio, più che altro ne sentì i lamenti. Il bambino stava arrivando dalle scale e, accecato da lacrime di rabbia, non si avvide della madre che, sorpresa nel vederselo dinnanzi in quello stato, non ebbe la prontezza di spostarsi.

Nell'impattare con la Tigre, il piccolo in un primo tempo di spaventò, ma poi, riconoscendola, si sentì quasi sollevato e allargò le braccia per stringerla a sé.

“Si può sapere che è successo?” gli chiese la madre, cercando di staccarselo di dosso.

Non aveva voglia di pensare anche ai problemi di Bernardino, soprattutto sapendo che il più delle volte finiva a scappare in lacrime da qualcuno che in realtà aveva ragione. Prima faceva i suoi piccoli disastri e poi sperava di risolvere ogni cosa andando a cercare soccorso da suo fratello Galeazzo o, al massimo, dal castellano. Solo quando era fuori dalla rocca, spalleggiato da una dozzina di ragazzetti di strada suoi amici, sapeva fare la voce grossa.

“Mio... Mio...” cominciò a dire il Feo, ma nel riconoscere la freddezza impenetrabile che spesso la Leonessa usava nei suoi confronti, si fermò di colpo e, asciugandosi le guance con la manica scosse il capo e fece: “Nulla, madre.”

Caterina aveva capito, invece, che forse quella volta il problema era più serio del solito, ma la voglia di stare da sola e di staccare la mente da tutto era più forte di ogni altra cosa. Era in collera, con sé stessa, per come aveva trattato Ridolfi, con Ridolfi per averle in parte disubbidito, con Firenze, con Machiavelli, con Milano e con suo zio che non aveva saputo difendere il Ducato che tanto aveva voluto, con Bologna, con Faenza, perfino con Pirovano... In pratica, con il mondo intero.

E, per esperienza, la Sforza sapeva che nessuna decisione presa quando era preda della collare era una buona decisione.

“Vai da tua sorella.” ordinò, quasi senza guardarlo: “La trovi nella sala delle letture. Resta con lei fino a stasera e non combinare altri guai.”

Capendo solo in parte la motivazione di quell'ordine, il bambino fece segno di sì comunque e, mentre la madre si allontanava, andò verso la sala delle letture. Era ancora scosso e faticava a ricacciare indietro le lacrime.

Quando arrivò a destinazione, trovò Bianca che leggeva un librone tanto grande da doverlo tenere aperto sulle gambe, per poterlo leggere in poltrona e, a terra, accucciato a giocare con un cavaliere di legno, Giovannino.

La sua prima tentazione fu quella di scappare anche da loro. Però, quando lo vide, la sorella gli disse di avvicinarsi, e così fece.

La Riario, messo da parte il libro, con solerzia, gli asciugò il volto, arrossato e ancora rigato di lacrime e gli domandò: “Cos'è successo? Perché sei in questo stato?”

Il Feo era indeciso se parlargliene o meno, ma quando la sorella gli chiese anche come mai fosse andato lì e se la stesse cercando per qualche motivo, decise di vuotare il sacco.

Mentre di quando in quando le lacrime ancora gli annebbiavano la vista, disse che era uscito dalla rocca per andare dai suoi amici e lungo la strada aveva incontrato degli uomini vestiti di velluto scuro che parlavano 'come messer Medici e messer Ridolfi'. Bianca capì subito dalla descrizione che quelli non potevano che essere gli uomini al seguito di Machiavelli.

Siccome, aveva proseguito il ragazzino, lo avevano guardato storto, lui per dispetto ne aveva fatto inciampare uno. Questi aveva subito alzato una mano, per picchiarlo, e lui, spaventato, aveva cercato di far pesare il suo nome.

“Solo che quando gli ho detto chi ero...” disse Bernardino, la voce spezzata da un sospiro tronco, mentre il ricordo gli faceva tornare le lacrime agli occhi: “Quelli hanno cominciato a deridermi e a parlare di mio padre e a dire che nostro fratello Ottaviano l'ha voluto uccidere perché era solo un inetto...”

Bianca sapeva che il fratello minore aveva già sentito più e più volte chiacchiere sulla fine di suo padre Giacomo ed era certa che, in fondo, avesse anche capito quanto fossero fondate. Solo perché lui quasi non avesse contatti con Ottaviano e Cesare, non significava che non soffrisse, al pensiero che potessero essere collegati alla congiura in cui era morto il Feo.

Però quella volta sembrava più vulnerabile del solito, quasi che sentir ripetere le solite cose da qualcuno che arrivava da fuori avesse ingigantito tutto quanto, facendolo crollare.

“E poi – aggiunse il Feo, non riuscendo a trattenersi – ho incontrato nostra madre che mi ha scaraventato come fa sempre...”

“Nostra madre è molto tesa, in questi giorni – cercò di minimizzare la ragazza – cerca di capirla. È preoccupata per tutti quanti noi e per il nostro Stato... Deve pensare all'esercito, ai conti, alle campagne...”

“Ma io sono suo figlio.” disse piano il bambino, come se quell'affermazione bastasse per far diventare tutto il resto – lo Stato, l'esercito, i soldi – solo un mero dettaglio.

Mentre Giovannino li guardava un po' stranito, non capendo cosa stesse succedendo, Bianca sussurrò: “Vieni qui...” e prese tra le braccia Bernardino.

All'inizio il piccolo si ribellò a quella stretta, ma poi, scoprendola calda e dolce, più materna di quasi tutti gli abbracci che sua madre gli avesse mai concesso, si rilassò.

Passato il momento di crisi, la Riario gli chiese di sedersi accanto a lei e poi, con un sorriso un po' triste gli chiese: “Ti va se ti leggo qualcosa?”

Il Feo annuì, senza parlare perché il nodo che gli stringeva la gola lo rendeva ancora muto, e poi, quasi in risposta al gesto gentile e gratuito della sorella, recuperò Giovannino dal tappeto e se lo mise accanto.

Riprendendo a leggere – ma ad alta voce – da dove si era interrotta all'arrivo del fratello, Bianca si sforzò di dare un'intonazione quasi lieve alla vita dei Cesari che teneva tra le mani.

Ogni tanto allungava l'occhio verso i fratelli e si accorse, con sollievo, che Giovannino si era addormentato quasi subito e che anche Bernardino cominciava a rilassarsi.

Aveva un'espressione strana in viso, un insieme di abbattimento e consolazione, come se stesse ragionando sulla sua vita, benché non avesse nemmeno nove anni, e il bilancio che ne usciva fosse abbastanza amaro, ma non del tutto tragico.

In quel momento il piccolo Feo a Bianca ricordava in modo incredibile Giacomo. Aveva quasi il suo stesso profilo, lo stesso naso, e occhi molto simili. Era di una bellezza innegabile, ma l'inquietudine che gli serpeggiava addosso lo rendeva indiscutibilmente figlio anche della Tigre.

Bianca si era sempre sentita in colpa, per la morte del Barone Feo. Si sentiva responsabile, anche se aveva cercato in tutti i modi di schermirsi dietro scuse di ogni tipo.

Trovarsi accanto il figlio nato dalla madre e dal suo grande amore, morto anche per colpa sua, e, subito accanto il figlio di Giovanni, l'uomo più buono e giusto che la Riario avesse mai conosciuto, le smosse qualcosa nel fondo dell'anima.

Trattenendo una lacrima di commozione, smise per un attimo di leggere e allungò una mano, accarezzando prima la fronte di Bernardino e poi quella di Giovannino e sussurrò: “Dobbiamo restare uniti, noi, qualsiasi cosa accada. Va bene?”

Il più piccolo, svegliatosi di colpo, allungò una manina verso di lei, non capendo in realtà cosa gli fosse stato detto, ma volendo, con quel gesto, dare comunque il suo consenso.

Il Feo, invece, abbassò un attimo lo sguardo, poi guardò il fratello e, infine, incrociando gli occhi blu della sorella, sussurrò: “Noi tre, Galeazzo e Sforzino.”

Bianca avrebbe voluto forzare un po' la mano e cercare di includere anche Ottaviano e Cesare in quella che sembrava tanto una lista di naufraghi da portare in salvo, ma si accontentò, almeno per quella volta: “Noi tre, Galeazzo e Sforzino.” convenne: “Dobbiamo sempre volerci bene e sostenerci e, se lo faremo, nessuno sarà mai più forte di noi.”

Il Feo parve inorgoglirsi, a quelle parole e così soggiunse: “E così nostra madre sarà fiera di noi.”

La sorella deglutì, chiedendosi con ansia se fosse davvero così, ma assecondò l'entusiasmo, confermando: “Sì, se restiamo uniti, nostra madre sarà fiera di noi.”

 
 
   
 
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