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Autore: Adeia Di Elferas    05/04/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ludovico tornò in camera, badando bene a non fare rumore con la porta. Con passo leggero, andò fino alla scrivania e, accese un paio di candele in più, prese subito il necessario per scrivere.

Mentre la punta della penna grattava sulla pagina, di quando in quando il Moro si guardava alle spalle, circospetto, per capire se Lucrezia Crivelli stesse ancora dormendo. Aveva il respiro leggero, e lo Sforza sapeva per esperienza che il suo sonno sapeva essere tanto sordo, quando lui la cercava di reclamarla per la seconda volta nel giro di una notte, quanto leggero quando, invece, le si prospettava la possibilità di cacciare il naso nei suoi affari.

Era stata una fortuna che fosse andato Ermes, a cercarlo, per raccontargli le novità. Suo nipote era discreto per natura e aveva saputo svegliarlo senza fare confusione, portandolo un momento fuori dalla camera, per riferire una novità prodigiosa, agli occhi del povero Ludovico.

I francesi, forse trovando più ostacoli del previsto nell'avanzata, avevano deciso di ritirarsi momentaneamente ad Asti.

Il Duca, entusiasta, aveva subito fatto gran voce, vantandosi del nome che portava e della paura che ancora sapeva fare al nemico. Tuttavia, nel sentirlo parlare a quel modo, Ermes si era fatto più mesto e, scuotendo piano il capo, l'aveva smontato su tutta la linea.

“I francesi hanno solo tastato il terreno e l'hanno trovato cedevole. Era solo un'avanscoperta e adesso, zio, potete giurarci che arriveranno con il grosso delle truppe.” gli aveva detto, a voce bassa.

“Sciocchezze!” si era subito messo a ribattere Ludovico: “Se fosse vero, avrebbero tenuto le posizioni, senza paura di vedersele levare! Altro che ritirarsi ad Asti..!”

“Su quello vi do ragione – aveva ammesso a mezza bocca il nipote – ma hanno preferito fare così solo per una questione di strategia. Hanno di certo saputo dalle loro spie che i soldati di mia sorella stanno arrivando sul confine e avranno pensato che non aveva senso lasciare che massacrassero la loro avanguardia. Contro un esercito in piene forze, gli uomini di Caterina possono poco, perché non sono che poche centinaia, ma contro le bande di Gian Giacomo da Trivulzio, di danni ne potevano fare parecchi. Sapete che quasi tutta Italia sta cominciando a guardare a lei come all'autorità massima, riguardo l'addestramento e la disciplina degli eserciti...”

Il Moro non voleva ascoltare quei discorsi. Da giorni, ormai, tutti gli stavano facendo notare, in modo più o meno diretto, quanto fosse stato stupido e superficiale nel non tenersi stretto la nipote, in quegli anni. In molti erano anche arrivati a dire che se fosse rimasti in buoni rapporti con lei, avrebbe addirittura potuto offrirle un posto sicuro a Milano, affidandole la guida dell'esercito del Ducato.

“Se l'Italia guarda a una donna come massima esperta di guerra e guerrieri – aveva ribattuto sprezzante lo Sforza – allora significa che qualcosa è andato terribilmente storto in questi ultimi secoli, caro Ermes!”

“Non sta a me fare simili valutazioni, ma i fatti sono questi e voi non potete cambiarli con qualche battuta di spirito.” aveva ribattuto lo Sforza più giovane e, salutando lo zio, aveva soggiunto: “Fossi in voi, cercherei di appianare le divergenze con mia sorella.”

E così, tornato in stanza, il Moro si era subito lanciato a capofitto in una lettera diretta a Giovanni da Casale. Il suo pupillo lo teneva costantemente informato su quel che accadeva, e, anche se a tratti il Duca temeva di averlo perso per sempre, dimostrava ancora un discreto attaccamento a Milano ed era su quello che si doveva fare perno.

Ludovico spiegò della ritirata verso Asti, avendo cura di gonfiare un po' la notizia, lasciando intendere che i francesi avevano preferito un momento di tregua per riprendersi dalla pressante difesa dei soldati ducali, e poi si finse molto interessato a un'altra questione, di cui Pirovano gli aveva scritto abbastanza diffusamente.

Si trattava dell'ambasceria di un certi Niccolò Machiavelli a Forlì, arrivato al cospetto della Tigre per proporle una condotta per il primogenito, Ottaviano. Anche Caterina stessa aveva scritto a suo zio, apparentemente per chiedergli solo un parere, ma, velatamente, per fargli capire che avrebbe preferito una condotta pagata meglio e, magari, pagata da Milano.

Il Moro, però, per quanto a volte si sentisse solo una misera anguilla in un'otre piena di vipere, sapeva bene come girare la questione a suo vantaggio. Il modo più semplice, in quel caso, era fingere di aver capito le cose solo per metà e prendere tempo.

Siccome la nipote aveva fatto capire che Machiavelli aspettava da lei una risposta rapida e che, però, prima voleva una sorta di benestare da parte sua, il Duca dopo qualche riga di chiacchiere vuote, scrisse: 'et parendo che la habi tolto tempo ad responderli per intendere el parere nostro, dirai alla Signoria Sua che noi se remetemo a lei perché la facia quello che pare sij più de mente sua et ad suo proposito: et quello che noi te havevamo scripto è stato perché quando Signori fiorentini non havessino voluto aceptare suo fiolo, noi lo volevamo tore per dimostrare ala Signoria sua l'amore che li portamo, havendo non meno caro el beneficio et honore suo che il nostro proprio.'.

Abbastanza soddisfatto per quell'affermazione, chiuse dicendosi dispiaciuto per le agitazioni che sapeva essere nate sul confine, per colpa di alcuni riottosi alle tasse del papa, ma minimizzando la cosa scrivendo che siccome il papa aveva un 'male animo' e siccome non era certo la prima volta che succedevano simili incidenti, concluse: 'a noi non ne pare che de presente se li debe fare novità alcuna, per essere le cose in li termini che sono, ma expectare megliore ocasione.'.

“A chi stai scrivendo?” chiese la voce un po' arrochita di Lucrezia, che, muovendosi tra le lenzuola di seta, con un fruscio che fece subito sobbalzare il Moro, si era messa seduta per occhieggiare verso di lui.

“Nulla di importante...” soffiò Ludovico: “Torna a dormire, che adesso arrivo...”

La donna, però, si era alzata e gli era già arrivata alle spalle: “Avanti... A chi scrivi? A una tua amante segreta? Devo essere gelosa?”

Il tono, suadente e avvolgente con cui gli stava parlando, portò l'uomo a deglutire rumorosamente, ma riuscì comunque a restare padrone di sé.

Chiudendo in fretta la missiva, si alzò, avvolgendosi ancora di più nella vestaglia da notte, e disse solo: “Vado a far spedire questa. Torna a letto, se hai intenzione di fare quello che voglio io, oppure tornatene nella tua stanza, se vuoi dormire e basta.”

La Crivelli, restando un po' scottata da quel modo che il suo amante a volte aveva di rivolgerlesi quando era teso per qualcosa, sussurrò: “E va bene, allora torno in camera mia.”

La bocca che si seccava, già pentito del suo ultimatum, lo Sforza cercò di fermarla, dicendo, conciliante, quasi fosse un magnanimo imperatore che accordava un permesso speciale a uno dei suoi servi più irrequieti: “Dai, facciamo finta di niente... Puoi dormire accanto a me, se è quello che desideri.”

Lucrezia si prese un momento e poi, sputando un boccone indigesto che da settimane la tormentava, disse: “Questo è il punto Ludovico: io non lo so più, se è quello che desidero.”

Basito per la piega assurda presa da quel breve scambio di battute, il Duca cercò di nuovo di fermarla, blandendola e facendole promesse, ma ormai la donna aveva deciso. Dopo essersi coperta con l'abito da camera che proprio il Duca le aveva quasi strappato di dosso qualche ora prima, gli diede un breve bacio sulla guancia e gli augurò un buon riposo, lasciandolo solo.

Immobile nell'aria calda della sua stanza, Ludovico ci mise qualche minuto, prima di capire quello che era successo. Un moto di rabbia lo portò a fare un suono disarticolato, di gola, un urlo strozzato.

Poi, però, la furia per il rifiuto dell'amante iniziò a macchiarsi d'altro. In quel periodo tutti quanti, perfino Calco ed Ermes, sembravano essere stanchi di lui. La rabbia lasciò così il posto all'abbattimento e l'abbattimento presto si trasformò in panico.

I francesi si erano momentaneamente ritirati ad Asti, era vero, ma non ci sarebbero rimasti in eterno. Tutto gli stava crollando addosso: il Ducato, la guerra, le alleanze che aveva creduto di avere, perfino gli affetti e gli amori. Tutti lo odiavano, nessuno lo capiva. Tutti lo criticavano senza nemmeno provare a mettersi nei suoi panni.

Lasciando la lettera – che ormai non gli sembrava più così urgente – sulla scrivania, il Moro si gettò sul letto, il viso affondato nel cuscino che ancora portava con sé il sentore pieno e avvolgente della Crivelli e, piangendo lacrime di coccodrillo, pian piano si addormentò, cullato dal suo stesso dolore.

 

Machiavelli aveva accettato con il mal di pancia, all'inizio, quell'ennesima convocazione, soprattutto perché a lui premeva discutere degli affari rimasti in sospeso e non andare in giro per la città a cavallo.

Tuttavia, quando il messo della Sforza aveva precisato che si sarebbero fermati soprattutto alla cittadella del Paradiso, Niccolò si era improvvisamente rianimato. Anche se era lì come alleato, era curioso di vedere il più possibile da vicino il famigerato impianto difensivo della Tigre, soprattutto per capirne i punti deboli. E dovevano essercene per forza, e non pochi.

Aveva sentito dire che il disegno di quella fortificazione era stato ideato personalmente dalla Contessa, che aveva dato disposizioni estremamente precise su ogni dettaglio. Come poteva, una donna, intendersene davvero di fortezze, mura di cinta e torrioni? Benché fosse la figlia di un Duca e la vedova di un Conte, semplicemente non poteva.

Quando arrivò a destinazione, a breve distanza dalla rocca e sotto lo sguardo bronzeo della statua del Barone Feo, Machiavelli restò un po' spiazzato nel vedere la Sforza già intenta a indicare alcuni punti della cittadella ad altri uomini. Si trattava di soldati, per lo più, da come erano vestiti, ma, apparentemente, anche da qualche servo.

“E quindi servirà qualcuno che cucini anche per gli uomini di stanza qui.” stava spiegando la donna, accorgendosi solo in quel momento dell'arrivo del fiorentino.

Gli dedicò uno sguardo un po' strano, quasi di sfida e poi borbottò qualcosa a Giovanni da Casale, che le stava alla destra.

Proprio Pirovano si staccò un momento dal gruppetto di testa, composto da lui, dalla Leonessa, da Galeazzo Riario e dal Governatore Ridolfi, e affiancando il cavallo di Niccolò – minuscolo, al confronto del suo enorme cavallo da guerra – gli disse solo: “Potete seguirci, osservare e ascoltare, se volete, in modo da riferire alla Signoria quanto sia stabile la difesa della nostra signora.”

L'ambasciatore si ricacciò in gola le poco lusinghiere parole che avrebbe voluto rivolgere al milanese – perché vedersi di nuovo trattato come uno dei tanti e non come uno dei più importanti ospiti della Contessa lo stava facendo uscire dai gangheri – e con un sorriso mellifluo accettò all'istante: “Dite alla nostra signora che ne sono onorato.”

Tornato dalla Sforza, Giovanni da Casale riferì in fretta e la donna, con una seconda breve occhiata al fiorentino che stava alle loro spalle, fece un cenno con il capo e in breve tornò a dedicarsi al suo giro di ispezione.

Niccolò ascoltò e osservò tutto con un'attenzione spasmodica, cercando di mandare tutto a memoria e rammaricandosi di non poter fare domande o chiedere di soffermarsi maggiormente su questa o quella cosa.

Malgrado i suoi iniziali pregiudizi, stava giungendo a conclusione che quella cittadella – costruita, per altro, in brevissimo tempo – fosse escogitata molto meglio della maggior parte dei suoi analoghi in giro per l'Italia.

Vedere la precisione, l'oculatezza con cui ogni bocca da fuoco e ogni fenditura fossero messe nel punto migliore, rendersi conto della scaltrezza con cui la Tigre aveva ridistribuito i materiali di costruzione, al fine di rendere più robusti i punti cruciali e più leggeri e meno bisognosi di manutenzione i rimanenti, e scoprire una finezza intellettuale non comune nell'organizzare gli spazi in modo da renderli il più possibile pratici e funzionali alla vita dei soldati, per Machiavelli era stato come prendere un pugno nello stomaco.

La cosa che più lo sconvolgeva era pensare che tutte quelle idee geniali, messe insieme in un armonioso insieme di piccoli torrioni, mura e sistemi di arroccamento, arrivavano dalla mente della donna che gli stava davanti.

Una donna che, a vederla così, in abiti quasi sfatti per quanto usurati, con i capelli lunghi e sciolti, che cavalcava con una gamba per lato, come le barbare, a lui sembrava poco più che una donna da osteria.

Mentre il gruppetto di fedeli della Sforza, in mezzo a cui Niccolò si era mescolato per volere stesso della Leonessa, tornava al punto di partenza, il fiorentino non riusciva a toglierle gli occhi di dosso.

Più ci pensava, più trovava inconcepibile il fatto che la finezza della mente che aveva concepito quella cittadella, e la sgrezza volgarità della Tigre potessero coesistere in un'unica persona.

Per tutto il tempo, poi, l'aveva vista parlottare ora con Ridolfi, ora con Pirovano e quell'immagine gli aveva suggerito una metafora calzantissima, a suo parere. Per lui era come se la Contessa sussurrasse al contempo parole dolci a Firenze e Milano e poi, appena entrambe credevano di avere avuto la sua attenzione e la sua riconoscenza, se ne usciva con una battutaccia volgare e dava in una risata grassa, lasciando entrambe a bocca asciutta.

Era ormai pomeriggio inoltrato. L'estate stava mostrando le fauci, piantando i suoi denti aguzzi nella pelle di tutti quelli che seguivano la Sforza, facendola scottare. In fondo, dopo tutte quelle ore passate ad ascoltare e osservare, tutti quanti erano desiderosi di portare a conclusione quell'incontro.

“Ci aggiorneremo presto.” concluse Caterina, quando non trovò altro da dire a riguardo della sua cittadella, chiamata ormai per antonomasia, sia dai costruttori, sia dai soldati, il Paradiso.

Da un lato le faceva piacere che l'alcova che aveva accolto lei e Giacomo si fosse idealmente trasformata in una fortificazione di difesa. Era quasi come se lo stesso Feo potesse tornare al suo fianco, stavolta non per farsi proteggere, ma per proteggere lei.

Però, dall'altro lato, alla Sforza un po' dispiaceva che la cittadella venisse chiamata a quel modo. In fondo, era ancora molto gelosa della privatezza di quel nido, del mondo ovattato e sicuro che aveva cercato di costruirvi, e sentire quel nome sulla bocca di tutti, a Forlì, a tratti la innervosiva, quasi stessero cercando di profanare un santuario che, fino a quel momento, era rimasto sepolto nel tempo e nella memoria.

“Contessa...” la voce di Machiavelli, sgraziata e con un accento fiorentino così forte da renderlo quasi ridicola, alle orecchie di Caterina, fece voltare la donna di scatto.

“Che volete?” gli chiese, tenendo a freno, anche se con lieve difficoltà, il proprio stallone scuro, che alla vista del cavalluccio di Niccolò aveva abbozzato un'impennata.

“Volevo ringraziarvi per avermi permesso di...” cominciò a dire il fiorentino, ma la Sforza non aveva voglia dei suoi panegirici da diplomatico.

“Dovevate vedere anche questa.” lo zittì: “Non voglio che si dica di me che mi vanto di mezzi di cui non dispongo. Avete visto i miei soldati, ora avete visto anche la mia cittadella. Quando tornerete a Firenze, avrete di che parlare.”

“Certo, certo...” annuì Machiavelli, sentendosi addosso gli occhi scuri e severi di Pirovano e quelli curiosi di Ridolfi: “Però dovete ancora dirmi che avete deciso per vostro figlio.”

“Sto aspettando ancora notizie da Milano. La decisione non dipende interamente da me.” prese tempo la Contessa, stringendo le redini dello stallone con più forza: “Le condizioni di Firenze sono nulla, in confronto a quel che mi ha proposto mio zio.”

“Lo capisco ma...” cominciò a dire Niccolò, i capelli ricci che si incollavano alla fronte per il sudore, e gli occhi che si stringevano sotto al solo di quel 22 luglio: “Forse, ecco, forse se potessi parlare direttamente con il Conte...”

“Mi pareva di avervi già detto che mio figlio Ottaviano è a Forlimpopoli, ed è impegnato.” tagliò corto Caterina, stringendo le labbra e mettendosi a guardare un punto oltre la spalla dell'ambasciatore: “Quindi dovrete accontentarvi di parlarne con me.”

Era più forte di lei. Benché ogni volta si ripromettesse di mostrarsi con lui più morbida e collaborativa, appena se lo trovava davanti, così brutto e mingherlino, non poteva fare a meno di provare un'innata repulsione che la portava a trattarlo nel peggiore dei modi. Una donna di potere come lei avrebbe dovuto saper tacitare quel lato così istintivo del proprio carattere, ma non era mai stata troppo brava a controllarsi.

L'uomo stava per ribattere in qualche modo, ma la sua interlocutrice non gliene diede il tempo.

Spronò il suo cavallo con un colpo secco e, chinando appena il capo, salutò il fiorentino, seguita a brevissima distanza tanto da Ridolfi quanto da Pirovano.

Impotente, Machiavelli la guardò sfrecciare verso la rocca, sollevando un gran polverone dal terreno secco.

Si sentiva preso in giro, sminuito e dileggiato. Era come trovarsi invischiato in uno scherzo di pessimo gusto che non aveva mai fine.

Rifiutandosi perfino di scambiare due chiacchiere, per quanto forse avrebbero potuto tornare utili, con uno dei soldati della Sforza, che gli si era avvicinato proprio per fare conversazione, Niccolò se ne tornò come una furia al suo alloggio.

Chiese a uno degli uomini del suo seguito di convocare Cavallaro, che avrebbe portato la sua missiva a Firenze il più rapidamente possibile. Poi, una volta in camera, prese il necessario per scrivere e con movimenti secchi e decisi della mano vergò una lettera diretta alla Signoria.

Era stanco di starsene a Forlì, stanco dell'arroganza che quella donna impossibile gli riservava di continuo e stanco di essere trattato come una nullità. Era il Segretario di Stato di Firenze. Era un uomo colto. Era un esperto di politica e diplomazia. E invece per la Sforza, che era solo una donna, nemmeno capace di vestirsi in modo elegante o mostrarsi graziosa e gentile come sarebbe spettato a una signora, era come se lui fosse un insetto da schiacciare o un guitto da deridere.

Senza nemmeno lasciare un po' di spazio per aggiungere a mente fredda alcune questioni pratiche che doveva riferire a Firenze, Niccolò non si trattenne oltre e, mentre sentiva scendere una grossa goccia di sudore lungo la schiena, scrisse: 'Scrissi alle EE. SS. VV. a 17 del presente per Ardingo Cavallaro, come qusta Illustrissima Madonna stava dubbia qual partito dovesse prendere, sendole da VV. SS. voluto scemare condizioni, e dal Duca di Milano offertole volerla mantenere nella medesima condotta, e come Sua Eccellenza volse che io ne dessi notizia a VV. SS. acciò quelle intendessino tutto, e potessino considerare meglio all'onor suo, e satisfarle secondo gli obblichi etc, di che si aspetta con desiderio risposta, la quale non sendo ancora venuta, mi è parso in diligenzia spacciare questo fante, e pregare VV. EE. SS. rispondino subito, quando non lo avessino fatto, e mandinmi la loro ultima risoluzione – Niccolò fece un respiro profondo e, scuotendo piano il capo tra sé riprese – acciocché io concludendo o nò, possa tornare costì a' piedi di VV. EE. SS. e quello che fussi per fare contenta questa Madonna credo farebbe sicurarla prima del servito vecchio, di che lei vive con dispiacere grandissimo'.

L'uomo sollevò un momento la punta della penna dalla pagina e ci pensò. Un po' si era calmato e la sua mente, abituata a trovare sempre il mezzo migliore per giungere al fine sperato, lo portò a cercare di forzare un po' la mano.

Anche se, nel profondo, era convinto che la Sforza avrebbe ceduto, non vedendosi aumentare la proposta dei fiorentini, la sua massima aspirazione era chiudere il più in fretta possibile quella trattativa. La Repubblica, pensò, in fondo i soldi li aveva, anche se non li voleva spendere, e l'unica via per indurre la Tigre a piegare il capo più rapidamente era quello di pungerla sul vivo: il denaro.

Le serviva, lo voleva, ma non sapeva come ottenerne a sufficienza da tenere in piedi il suo Stato. E cosa c'è di meglio, per far capitolare un affamato, se non offrirgli più cibo di quanto possa sperare?

'Ed appresso – continuò quindi – crescere il soldo di questo anno insino in dodicimila fiorini, il che è secondo una mia opinione, la quale facilmente potria esser vana, sì per essere stata sempre Sua Eccellenza sull'onorevole, né avere mai accennato di voler manco di quello le offera il Duca di Milano; sì ancora per essere difficile il giudicare l'animo suo dove elle sia più inchinata, o a Milano o alla Repubblica vostra.'.

Machiavelli si allentò un po' il colletto del giubbetto leggero e, intingendo ancora la penna nell'inchiostro, cercò di spiegare in poche parole quello che lui stesso aveva notato pur stando a Forlì appena pochi giorni. Sottolineò come i fiorentini presenti alla corte della Sforza fossero tenuti da lei in considerazione quasi eccessiva e ricordò che il suo ultimo figlio, Giovanni, era un Medici e che la Tigre ancora sperava di poterne ottenere in modo perpetuo la tutela e il patrimonio. In più, spiegò come, essendo il Duca di Milano minacciato dalla Francia, la Contessa potesse essere incline a non allearsi allo zio, vedendolo già sconfitto. Tuttavia, dovette aggiungere: 'io veggo appresso a Sua Signoria Mes. Giovanni da Casale, agente qui per uil Duca di Milano, essere in massima estimazione, e governare il tutto; il che è di gran momento, e facilmante per poter flettere lo animo dubbio in qual parte volesse.'.

Non era certo, in realtà, che Pirovano potesse avere un grande ascendente sulla Sforza, anzi, credeva fosse più il contrario, ma era meglio che la Signoria si facesse venire un po' d'ansia, in modo da risolversi più in fretta.

Concluse poi non perdendo occasione di ammettere – a malincuore – quanto le truppe da lui stesso visionate fossero più che eccellenti, specificando che: 'quando VV. SS. ancora ne avessero di bisogno, voi aresti buon fanti e fedeli, e bene ad ordine ed espediti presto, ma bisogna mandare li denari per la paga intera di un mese, come per la ultima mia significai a VV. EE. SS. alle quali infinite volte mi raccomando.'.

Con un sospiro, Machiavelli rilesse il tutto, firmò, chiuse la missiva e andò al piano di sotto per consegnarla alla sua staffetta, confidando in una risposta pronta e affermativa di Firenze, in modo da poter lasciare Forlì al più presto.

 

“E che avremmo dovuto aspettarci da Tiberti, secondo te?” chiese Caterina, afferrando un pezzo di pane e intingendolo nel sangue che colava dalla carne che aveva davanti.

Giovanni da Casale la guardò, mentre con quel gesto quasi ferale dava fondo alla cena, e poi sollevò le spalle e ribatté: “Lo hai sempre portato in palmo di mano, e adesso vieni a dirmi che non te ne importa nulla?”

“Sapevo che era passato dalla parte del papa il giorno stesso in cui ha lasciato Forlì di nascosto.” fu la sola costatazione della donna.

Lei e il suo amante, anche quella sera, avevano deciso di mangiare qualcosa in camera, sia per non dover incontrare nessuno, sia perché avevano molte cose di cui discutere. E la posizione di Achille Tiberti era una di queste, a sentir Pirovano.

“Io credo che dovresti fare qualcosa, invece.” fece l'uomo, pulendosi le mani nelle brache e alzandosi dal letto per mettere il piatto vuoto sul mobile.

La donna masticò a lungo un pezzo di cervo al sangue – carne freschissima, ma non cacciata da lei, che in quei giorni di andare per boschi non aveva proprio trovato il tempo – e quasi si mise a ridere, nel dire: “E che dovrei fare? Mettergli una taglia sulla testa? Se facessi così con tutti quelli che in qualche modo mi hanno tradito, non farei altro, nelle mie giornate, se non firmare bandi di cattura!”

Giovanni, a quel punto, non disse più nulla e, con un sospiro pesante, tornò a stendersi accanto alla sua donna che, la schiena contro la testa del letto, aveva appena finito di mangiare e si stava dedicando già al vino.

“Non bere troppo.” la riprese lui, quasi soprappensiero.

“Perché?” chiese lei, fredda: “Non mi pareva ti desse fastidio, l'altra notte, il fatto che avessi ecceduto con il vino.”

“Dico solo che non ti fa bene...” si schermì lui, alzando le mani, come a scusarsi per la libertà che si era preso.

“Non sta a te dirmi cosa mi fa bene e cosa no.” gli ricordò la Contessa, mettendo comunque da parte il bicchiere e lasciando la caraffa e il piatto vuoto ai piedi del letto, voltandosi verso il milanese: “Avanti, fai qualcosa per distrarmi, o ti assicuro che quel vino lo bevo tutto, fino all'ultima goccia.”

Smosso da quella sfida che sapeva in parte di scherzo e in parte di sincera preghiera, Pirovano si sporse verso di lei, trovando sulle sue labbra il sapore forte ed evocativo del vino scuro che aveva appena bevuto. Lasciandosi trascinare passo a passo, come gli capitava ogni volta, le sollevò le gonne, mentre lei gli calava le brache con una disinvoltura che quasi lo spaventava.

Ancora quasi del tutto vestiti, l'uno sopra l'altra, i loro corpi che già si univano e i loro respiri che si confondevano, Giovanni e Caterina iniziarono a perdersi l'uno nell'altra. Era come se si conoscessero da sempre, come se quello che stavano facendo fosse un'abitudine e basta, ma allo stesso tempo era un continuo scoprirsi, e la sensazione di essere in fondo due perfetti sconosciuti si ancora a ogni battito del cuore all'anima di entrambi.

La Leonessa passò una mano sul collo del suo amante, infilandola tra i capelli corti e neri e glieli tirò, costringendolo a piegare la testa all'indietro. Era un gesto quasi sciocco, ma le servì per farlo fermare un momento e, approfittando di quell'attimo di impasse, restando avvinghiata a lui, invertì le loro posizioni, come a voler riprendere il comando.

Quando sentì bussare con irruenza alla porta, fu tentata di mandare al diavolo lo scocciatore, chiunque fosse, che era venuto a interromperli. Già troppe volte gli affari di Stato l'avevano strappata al corpo giovane e forte del suo amante e non voleva che capitasse anche quella sera.

Così, premendo la mano sulla bocca di Pirovano, per impedirgli di parlare e per cercare di non far capire a nessuno cosa stessero facendo, Caterina semplicemente andò avanti per la sua strada, come se alla porta non vi fosse nessuno.

D'un tratto le bussate finirono, ma vennero sostituite da altro: “Madre!” la voce di Bianca, allarmatissima, arrivò alle orecchie della Sforza come un coltello affilato: “Madre, vi prego! È importante!”

Il brivido subitaneo che l'aveva attraversata le tolse ogni indugio. Lasciando Giovanni all'instante, lasciandosi ricadere le sottane sulle gambe, si alzò dal letto, si sistemò come megliò potè la scollatura dell'abito, e corse alla porta.

La Riario cercò di non notare il volto arrossato della Tigre, né il suo respiro tronco o i suoi capelli scarmigliati, né tanto meno si perse a guardare dentro la stanza, dove avrebbe visto il milanese intento a mettersi a sua volta in piedi, cercando di riallacciarsi le brache e disse subito: “Madre, Giovannino sta male.”

“Cos'ha?” chiese con un soffio appena udibile la Contessa.

“Non lo so... Stava bene e improvvisamente ha cominciato a piangere e poi ha iniziato a scottare per la febbre...” spiegò Bianca, cominciando già a correre verso la stanza del fratellino.

“Giovanni, portami subito del ghiaccio!” ordinò Caterina, voltandosi un istante verso l'amante, che si era palesato accanto a lei, allarmato dai toni della giovane Riario, per sentire cosa fosse successo.

L'uomo annuì, ma prima che potesse chiedere se serviva altro, la Sforza era già sparita, rapida come il vento, diretta alla stanza del figlio più piccolo.

 
 
   
 
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