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Autore: Adeia Di Elferas    08/04/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovannino spalancò gli occhietti allungati, quando vide la madre. Quello sguardo, sperso e incredulo dinnanzi al malessere che gli stava togliendo le forze e confondendo i sensi alla Sforza ricordò subito, in modo spietato, lo sguardo che anche Livio le aveva riservato, quando l'aveva vista entrare in camera, la notte in cui era morto.

Terrorizzata dal parallelismo che si era trovata involontariamente a fare, la donna si mise subito accanto a lui, una mano sulla fronte, scostandogli i ricciolini castani che si erano appiccicati alla pelle rovente e sudata.

“Vai a chiamare il mio medico.” ordinò, rivolgendosi a Bianca.

La ragazza uscì subito, mentre la bambinaia, che Caterina notò solo in quel momento, restava nel suo angolo, le mani strette in grembo e le labbra tese in un'espressione di ansia profonda.

“Da quanto sta così?” chiese la Contessa, accarezzandolo lentamente, ma senza dargli alcun giovamento.

Il piccolo tremava leggermente, di certo per effetto della febbre, e benché fosse sveglio, non pareva molto reattivo. Era come se gli risultasse già abbastanza faticoso respirare. Forse, se non si fosse trattato di suo figlio, la Tigre avrebbe saputo anche fare una diagnosi precisa di quel male improvviso, ma vedere il suo piccolo Giovanni in quello stato le annebbiava il giudizio e dunque si trovava senza parole e senza idee, malgrado tutti gli anni passati a osservare e imparare dalla natura.

“Non più di un quarto d'ora, mia signora...” assicurò la serva, asciugandosi furtivamente una mezza lacrima di pena e paura: “Madonna Bianca ha voluto subito chiamarvi perché noi non capivamo...”

“Ha mangiato qualcosa?” chiese la Sforza, per quanto, in quel momento, non avrebbe saputo fare un collegamento logico tra un cibo o un veleno particolare e quella febbre alta.

La balia scosse il capo e, anzi, aggiunse: “Non mangia nulla da stamattina, in realtà... A volte lo fa, quindi non ci siamo preoccupate, ma...”

Caterina stava quasi per riprenderla, per sgridarla per non averla interpellata prima, ma Giovannino aveva sollevato con fatica una delle sue manine dalle dita corte e così la donna si concentrò solo su di lui.

“Ma dove accidenti è finito...” borbottò a un certo punto la Contessa, notando come Pirovano ci stesse mettendo un'eternità, per portarle un pezzetto di ghiaccio.

Con attenzione, quasi avesse paura di fargli male, la donna posò una mano sul petto fremente del figlio. Il cuore batteva rapido, per effetto della febbre e il suo respiro era un po' spezzato. Gli chiese cosa si sentisse, benché un bambino di poco più di un anno e mezzo non potesse, nemmeno in buona salute, rispondere in modo soddisfacente a una domanda del genere.

Lasciando perdere quel tentativo inutile, la Leonessa lo scoprì del tutto, lasciandolo con il camicino da notte. La balia provò a protestare, ma Caterina rimbeccò, dicendole di stare zitta e di non mettere il naso nelle cose che non capiva.

Quando sentì qualcuno arrivare alle spalle, credendo che fosse Giovanni da Casale, la Contessa abbaiò, con rabbia: “Dove sei andato a prendere quel ghiaccio, sui monti?!”

“Avete fatto bene a chiedere del ghiaccio, mia signora – le disse invece il medico, mettendosi accanto a lei e cominciando a tastare il polso e toccare la fronte del piccolo – ma non so quanto messer Pirovano ne possa trovare, con il caldo che ha fatto nelle ultime settimane... Forse nemmeno se andasse sui monti ne troverebbe abbastanza.”

“Per fortuna siete qui...” soffiò la Sforza, lasciandogli, a malincuore, il posto, in modo che potesse osservare più da vicino Giovannino.

Vedendola molto agitata, l'uomo le dedicò uno sguardo un po' pensoso e poi le disse, a voce bassa e accorata: “Uscite un momento. Voglio visitarlo da solo, se non vi dispiace. Una madre apprensiva non mi aiuterà certo a capirci qualcosa.”

La Leonessa avrebbe voluto riprenderlo per il tono paternalistico che aveva usato, ma sapeva che aveva ragione.

Così, deglutendo, si chinò un attimo verso il suo cucciolo più piccolo e gli sussurrò: “Torno presto.”

“Anche voi, madonna Bianca... Per favore...” sussurrò il dottore, occhieggiando verso la Riario, che era rimasta sulla porta.

Appena fuori dalla camera del bambino, madre e figlia si guardarono un istante solo. Entrambe erano state attraversate dal medesimo presentimento, ma solo la più giovane osò dar fiato alla bocca.

“E se fosse peste? E se fosse l'inizio di un'epidemia?” soffiò, gli occhi blu che si velavano di lacrime: “Anche Livio è morto in estate...”

“Lui non morirà.” ribatté, quasi con un ringhio, la Tigre: “E questa non è peste. Non è l'inizio di un'epidemia.”

“Come potete dirlo?” chiese Bianca, aspettandosi una sorta di conforto, una smentita ai suoi atroci dubbi.

Si era così legata al fratello minore, non solo perché l'aveva curato fin dalla nascita, ma anche perché figlio di un uomo eccezionale, che le mancava molto, che pensare che potesse non superare quella febbre l'atterriva. Era così piccolo, ne era certa, che se non fossero riusciti a farlo sfebbrare presto, non avrebbe retto quel duro colpo.

“Ho visto abbastanza appestati da sapere che lui non ha la peste.” tagliò corto Caterina che, per forzarsi a non rientrare subito nella stanza, cominciò a camminare, dicendo: “Vado a prendere un po' d'aria, devo ragionare su delle cose. Se succede qualcosa, qualsiasi cosa, vieni a cercarmi sui camminamenti.”

Il passo svelto della Contessa riecheggiava nel corridoio deserto. Era notte, ormai, la rocca era tranquilla. Solo lei sembrava avere nel petto un leone rabbioso pronto a divorarla. Più che la paura per la sorte del figlio, era come se quell'evento improvviso fosse per lei l'ennesima beffa della sorte.

Non appena si illudeva di avere tutto sotto il suo controllo, anche se con fatica, capitava sempre qualcosa che aveva il potere di destabilizzarla, mostrandole quanto fosse debole e precaria la sua condizione.

“Si può sapere dove ti eri cacciato?” fece, quando incrociò Giovanni da Casale sulle scale.

L'uomo portava, avvolto in uno straccio, un pezzo molto piccolo di ghiaccio e sembrava aver fretta di portarlo a destinazione, per paura che si sciogliesse lungo la strada.

“Scusa...” disse lui, fermandosi solo un momento e ricominciando subito a salire i gradini: “Ma nella ghiaccia non era rimasto più nulla. Ho dovuto correre a palazzo Numai per chiedere a loro se avevano ancora qualcosa...”

Davanti alla solerzia del suo amante, la donna non volle trattenerlo oltre, né rimproverarlo e gli diede il permesso di andare con un cenno secco del capo.

Scese fino al piano terra, controllò un momento che nel cortile fosse tutto a posto e poi salì sui camminamenti, come aveva annunciato a Bianca.

Si mise a osservare la città, avvolta nel buio e illuminata a sprazzi. I soldati che le passavano accanto la salutavano brevemente, abbastanza abituati a vederla sulle merlature anche a un'ora particolare come quella.

Così Caterina poté perdersi per un po' nei suoi pensieri, valutando con una certa freddezza quello che stava capitando e tutto quello che ne sarebbe potuto conseguire. Con una punta acuminata che le scava il cuore, si trovò anche a pensare a come sarebbe divenuto impossibile recuperare i soldi di Giovanni, se suo figlio fosse morto, e si vergognò per un pensiero tanto venale, in una notte di veglia come quella.

Però aveva uno Stato da difendere e, che le piacesse o meno, anche quelle erano cosa a cui prestare attenzione e a cui prepararsi.

All'improvviso, mentre era concentrata a osservare i riflessi infuocati che le torce che l'attorniavano gettavano sulla statua bronzea di Giacomo, Caterina sentì vociare appena sotto alla sua postazione.

Aggrottando la fronte, si sporse un po' per capire cosa stesse succedendo. Riconobbe subito la figura un po' ricurva e la gestualità avvolgente di Niccolò Machiavelli.

Quando poi lo sentì dire con forte accento fiorentino: “Lo so bene anch'io che non è ora di visite, ma ne ho necessità!” non ebbe più dubbi.

“Che volete, ambasciatore?” gli gridò, dalla merlatura oltre la quale si stava sporgendo: “Non avete di meglio da fare, a quest'ora della notte? Credevo che vi piacesse spendere in vino e donne i fiorini che la Repubblica tanto generosamente vi dà per i vostri servigi!”

Niccolò ingoiò a malincuore quell'attacco gratuito alla sua persona e, mostrando di aver in mano un paio di lettere, gridò in rimando: “Ho qui due messaggi della Signoria di cui devo parlarvi con urgenza!”

In realtà l'urgenza c'era solo in parte. Quelle missive il fiorentino le aveva ricevute poco dopo aver spedito la sua ultima lettera. L'irritazione nel pensare che l'aver ritardato solo di poche ore la spedizione della sua gli avrebbe evitato di dover pagare un'altra staffetta gli aveva tolto la lucidità per un po'.

Poi, rileggendo attentamente quel che Firenze gli mandava a dire, aveva capito di essere più vicino del previsto alla conclusione della sua tragica ambasceria a Forlì. Senza pensarci due volta, malgrado fosse già buio, si era rivestito e aveva camminato senza indugio fino a Ravaldino.

“Credevo odiaste discutere di affari di Stato dopo il tramonto!” lo sbeffeggiò la Tigre, riportandogli alla mente il loro primo incontro, avvenuto alle dieci di sera passate.

“Mi lasciate entrare o no, quindi?” domandò Niccolò, stanco dei giochi di parole.

Caterina si ritrasse e scese in fretta la scaletta che la portò fino al primo cortile. Fece aprire il portone e, badando bene a non fargli fare più di un passo oltre la soglia, gli chiese di dirle quel che aveva da dire.

L'uomo le spiegò tutto quello che la Signoria aveva scritto nelle missive, di come fosse disponibile a prendere Ottaviano al servizio per un altro anno a un prezzo vantaggioso, di come capisse la sua propensione a non tradire lo zio Duca, ma anche di come si sentisse onorata di averla come alleata.

Le chiese infine se fosse possibile, per lui, sperare di avere una sua risposta – affermativa o negativa che fosse – già quella notte.

“Vi risponderò domani.” furono invece le lapidarie parole della donna: “E dite alla Signoria che non mi resta altra speranza se non Firenze e solo mi offende in questo caso il disonore nel quale sembro incorrere, per il rispetto che dovrei doverosamente portare a mio zio Ludovico.”

“Vi assicuro che nessuno vi taccerebbe di ingratitudine verso Milano.” ribadì Niccolò, gli occhi liquidi che seguivano il cambiamento di espressione sui bei lineamenti della Tigre.

Il suo volto, dall'apparire una maschera neutra, si stava impercettibilmente facendo più aggressivo, come se quelle ultime parole fossero state troppo, per lei.

“Comunque, sentendo le ultime volontà espresse dalla Signoria – disse la Contessa, in quello che a Machiavelli parve poco più che un sibilo – mi ingegnerò a risolvermi presto, e a vincere, per quanto mi sia possibile, ogni difficoltà mi si opporrà.”

Il fiorentino, che l'ascoltava con attenzione, ma che, nel frattempo, cercava in ogni modo di sbirciare oltre la donna – per farsi un'idea di come fosse almeno l'ingresso della rocca – annuì in silenzio e poi, con un sorriso di prammatica, rispose: “Dunque domani posso sperare in una vostra risposta?”

Caterina aveva fretta di scrollarselo di dosso e le sembrava, in ogni caso, di discutere con un muro e quindi, con un certo nervosismo, ribatté: “Sì, sì, domani ci incontreremo e vi darò la mia risposta definitiva.”

Solo a quelle parole Machiavelli parve convincersi, facendo mezzo passo indietro, quasi iniziando a congedarsi: “So che siete una donna di giudizio.” le disse, sperando a quel modo di vincere anche le sue ultime perplessità.

“Andate, adesso. Ho da fare.” lo salutò la Tigre, indicandogli il ponte con la mano: “Conoscete la strada, no?”

L'ambasciatore, non sapendo in che altro modo cercare una riconferma delle intenzioni della Sforza senza arrivare a farla esplodere, decise di non provare ulteriormente la sua pazienza e con un inchino sinuoso la ringraziò di nuovo e se ne andò.

“Chiudete il portone.” ordinò Caterina: “E per stanotte non lascerete più entrare nessuno che non sia di stanza qui a Ravaldino, intesi?”

 

“Sai dirmi dove sia tua madre?” chiese Chiara, imbattendosi nella nipote.

Bianca sollevò le sopracciglia, sorpresa nel trovarsi dinnanzi la zia a quell'ora. La giovane Riario, mentre aspettava che il dottore finisse di visitare Giovannino, si era messa su una delle panche di pietra del corridoio e si era silenziosamente immersa in preghiera.

Così, uscendo dalla bolla di concentrazione in cui si era chiusa, la figlia della Tigre rispose, senza pensarci un momento: “Sui camminamenti.”

La Sforza la ringraziò, ma poi, accigliandosi, le chiese: “E tu come mai sei qui a quest'ora? È successo qualcosa?” soggiunse, rendendosi conto dell'espressione preoccupata della ragazza.

Bianca le spiegò in breve quel che stava capitando e così la donna, impensierendosi, sussurrò: “Oh, capisco... Sarà meglio che vada a parlare con tua madre subito, allora.”

La Riario non aggiunse nulla, non riuscendo a interpretare il tono della zia, e così, appena se la vide sfilare davanti, tornò a concentrarsi sui suoi pater noster, senza nemmeno notare come la donna indossasse un mantello da viaggio.

Quando arrivò alle scale che portavano alle merlature, Chiara intravide subito la sorella, che, a quanto pareva, stava salendo a sua volta proprio in quel mentre.

“Caterina...” la chiamò, facendola subito fermare.

La Contessa tornò sui suoi passi e, per prima cosa, si accorse degli abiti della minore. Le era bastato uno sguardo per capire che il giorno – o, meglio, la notte – della sua partenza era infine giunto.

“Posso parlarti un attimo?” chiese la Sforza più giovane e, quella volta, per quanto non avesse alcuna voglia di affrontarla, la Tigre annuì e la seguì.

Represse a stento il desiderio di esternare la sua irritazione. Sembrava che quella notte, proprio mentre il suo piccolo Giovanni stava male, tutto il mondo avesse deciso di romperle l'anima coi più disparati problemi.

Tentando di mantenere la calma, la Leonessa portò la sorella, in silenzio, fino al cortile d'addestramento, sotto al porticato, e lì, nell'aria ancora calda di quella notte estiva, soffiò: “Avanti, dimmi che stai partendo e che non puoi più rimandare. Tanto è questo che sei venuta ad annunciarmi, no?”

“Però Bianca mi ha detto del tuo figlio più piccolo...” disse piano Chiara, che aveva realmente ragionato su quella situazione, mentre andava a cercare la maggiore: “E se ti serve aiuto, posso ritardare la partenza di qualche giorno.”

La Contessa la guardò a lungo, sotto la luce tremula delle fiaccole a muro. Anche se non avevano mai trovato, in quelle settimane, un reale punto di contatto, non poteva negare che l'altra fosse stata del tutto inutile, nell'economia della sua famiglia. Anche se in modo non sempre costante, era stata vicina a sua figlia, e anche ai bambini. Sforzino, le avevano detto, amava ripeterle le lezioni apprese e anche Giovannino apprezzava abbastanza la sua compagnia.

Forse, nella malattia del suo ultimogenito, avrebbe potuto davvero dimostrarsi utile...

“No.” ribatté alla fine Caterina: “Non è necessario.”

“Perché, anche se ho organizzato tutto per partire stanotte, ti assicuro che potrei...” cominciò a dire l'altra Sforza, stringendosi le mani al petto, quasi stesse seriamente valutando l'ipotesi.

“Devi andare, no?! E, allora, va'!” sbottò la Tigre, mettendo in quell'esclamazione tutta la tensione accumulata quella sera.

Chiara parve spaventarsi, per quello scatto, tanto, almeno, da indietreggiare per un paio di passi e sussurrare: “Va bene... Io... Allora vado.”

“Aspetta...” la frenò la sorella, già pentita di averla scaraventata in quel modo: “Se ti servono soldi passa dal castellano. Digli che ti ho dato il permesso di chiedere la cifra che ti serve. Tieni solo conto che le mia casse stanno già languendo, quindi evita di domandare troppo denaro.”

La più giovane si morse il labbro. Voleva ringraziarla, per quella generosità che sapeva di non meritare, ma aveva un nodo tanto stretto alla gola da riuscire a malapena a respirare.

Invece di fare qualche discorso, quindi, Chiara preferì cercare di far capire alla sorella quanto in fondo l'amasse – per quanto le fosse risultato difficile dimostrarlo – e quanto le fosse grata, abbracciandola.

Colta alla sprovvista da quel gesto, Caterina si lasciò stringere e poi, ricambiando, disse: “Scusa se non ti accompagno alle porte della città, ma devo stare qui.”

“Per Giovannino, lo so. Lo capisco.” fece piano l'altra, che pareva restia ad allentare la presa attorno alla Tigre: “Sono madre anche io e lo capisco.”

Si allontanarono poco per volta, fino a stringersi le mani l'una con l'altra, in una sorta di estremo congedo.

“Ci rivedremo mai, secondo te?” chiese a quel punto Chiara, tirando su con il naso e ricacciando indietro le lacrime.

“Solo Dio lo sa.” rispose laconica la Contessa.

“Devo andare, adesso.” concluse la più giovane, distogliendo lo sguardo: “Sono stata bene, qui. Ti devo molto.”

“Basta con queste chiacchiere. Passa dal castellano, poco importa se lo butterai giù dal letto... Fatti dare quel che ti serve e poi vattene.” tagliò corto la Leonessa, sentendo di nuovo la rabbia montarle in corpo.

“Come vuoi, Caterina.” annuì l'altra Sforza e, finalmente, dopo un ultimo cenno con il capo, le voltò le spalle e si allontanò.

 

“E quindi?” chiese Caterina, rivolgendosi al medico che l'aveva appena mandata a chiamare.

“Difficile dire cosa stia scatenando queste febbri...” soppesò lui, guardando oltre la propria spalla, verso il bambino che languiva nel letto, il ghiaccio ormai quasi del tutto sciolto in fronte e pezze bagnate sui piedi e sui polsi: “Possiamo solo cercare di tenere a bada la malattia e pregare che...”

“Pregare..!” fece stizzita la donna, mordendosi il labbro e chiudendo un attimo gli occhi: “Credete che una delle mie pozioni potrebbe servirgli?”

“Indubbiamente...” convenne l'uomo: “Ma non saprei che dosaggi consigliarvi, per un bambino tanto piccolo...”

La Sforza guardò Giovannino, che in quel momento teneva gli occhi serrati ed era scosso da un brivido costante. L'istinto le avrebbe detto di coprirlo, ma aveva imparato che in quel caso era necessario apparire spietati e lasciare il febbricitante scoperto, se lo si voleva aiutare a guarire.

Poi, come in cerca di sostegno, si voltò verso Pirovano, che, un po' a disagio per quella situazione, se ne stava in un angolo a osservare da lontano la scena.

Solo Bianca le era accanto e così si rivolse a lei: “Fai in modo che i tuoi fratelli non si avvicinino a questa stanza, almeno per il momento. Non sappiamo cosa abbia, quindi meglio essere cauti. Non voglio un'epidemia in questa rocca.”

La Riario fece segno di sì e poi chiese: “Posso far altro, per voi?”

“Sì. Vai nel mio laboratorio e prendi la bottiglietta con scritto 'a guarire omne febbre'.” ordinò, con il tono pratico che usava spesso anche con la servitù.

La ragazza non se lo fece ripetere e se ne andò all'istante per recuperare il prezioso medicinale, e così la Tigre si concentrò su chi era rimasto.

“Potete andare, vi chiamerò se avrò necessità.” disse, rivolgendosi al medico e poi ripeté la medesima frase anche alla balia.

“E io?” chiese Giovanni da Casale, emergendo dal suo punto un po' in ombra, quando nella stanza rimasero solo lui, la sua amante e il piccolo.

Caterina avrebbe voluto tenerselo accanto, anche solo per avere un conforto fisico, qualcuno che le posasse una mano sulla spalle e le dicesse che tutto si sarebbe risolto. Ma, nella luce malferma delle candele – poche e piccole, per non disturbare troppo Giovannino – vide nel viso ancora troppo giovane di Pirovano un ragazzo e non un uomo.

Malgrado avesse un vissuto che lo rendeva più maturo di molti suoi coetanei, il milanese era ancor più giovane di quanto non fosse stato Giacomo quando era stato ucciso. E in quella penombra i suoi occhi scuri mostravano tutta la sua inadeguatezza.

La Sforza poteva leggere nei suoi pensieri, senza fatica. Sapeva che il suo giovane amante si stava dicendo che in fondo quel bambino malato non era figlio suo, che rischiava di essere contagiato senza motivo, che era stanco e che non aveva certo preso in considerazione quel genere di situazioni, quando aveva accettato di diventare il favorito di una virago come lei.

“Vai a riposarti.” gli disse quindi, accarezzandogli la guancia ispida di barba nera: “E domattina manda Baldraccani a parlare con Machiavelli. Digli di prendere tempo e di scusarsi, perché la malattia di mio figlio mi impedisce di adempiere come vorrei a impegni del genere.”

Pirovano, abbastanza sollevato all'idea di poter lasciare quella camera, che a suo avviso già puzzava di malato, le prese una mano nella sua e se la portò alle labbra per baciarla: “Tutto quello che la mia signora desidera.”

“Ah, Giovanni...” soggiunse Caterina, appena prima di lasciarlo andare davvero: “Se per qualche giorno non ci sarò, per te, mi aspetterai?”

L'uomo non capì subito, ma quando lo fece, parve quasi offeso da quella domanda e ribatté, un po' piccato: “Io sono un soldato e un uomo fedele. Il fatto che abbia rinunciato a Milano, per stare con te dovrebbe farti capire che non mi basta certo qualche giorno d'attesa per cercare altro. Ho aspetto per mesi di poter tornare a essere tuo.”

Rassicurata da quelle dichiarazioni, la donna lo baciò e poi gli fece capire che era davvero il momento di separarsi, andandosi a mettere accanto al figlio.

Il milanese tentennò appena, quasi tentato di fermarsi comunque, per darle conforto, ma sapeva che non avrebbe resistito un minuto di più, lì dentro.

Così le sussurrò: “Qualsiasi cosa ti serva, mandami a cercare.” e se ne andò.

La Tigre, intanto, aveva ripreso a detergere lentamente il bel viso del suo ultimogenito, passando con delicatezza la pezza imbevuta di acqua sulla fronte, sulle guance, perfino sugli occhietti allungati e serrati.

Come se il suo tocco fosse stata taumaturgico, il bambino cominciò a rilassarsi, le iridi di un verde piceo, rese molto acquose dalla febbre tornarono a vedere la luce e parvero incantarsi a fissare quelle di un verde più pieno della madre.

Con un sospiro, la Contessa gli posò una mano sul petto. Il cuore batteva ancora rapido, anche se forse un po' meno di prima. Le febbre c'era ancora, ma sembrava essersi abbassata leggermente.

L'atmosfera era quasi ipnotica. La stanza era calda, la luce soffusa delle candele sollevava ombre enormi che, però, parevano non inquietare il piccolo, benché di solito fosse terrorizzato dal buio, e il rumore sordo della notte riempiva le orecchie della Leonessa rendendola sorda a qualsiasi altra cosa.

Fu così che, sospinta da quel clima quasi ovattato, la donna cominciò a parlare: “Tuo padre ti amava moltissimo...” bisbigliò, tenendo sempre una mano sul cuore del figlio, mentre Giovannino la fissava trasognato, così concentrato da sembrare essersi dimenticato perfino del proprio malessere.

In quella sorta di onirica estraniazione, Caterina non si accorse che intanto Bianca era tornata e si era fermata alle sue spalle.

E così, ignara che anche la figlia potesse sentirla, riprese: “Tuo padre ti ha desiderato moltissimo e quando sei nato... Era come se si fosse innamorato di nuovo.” la voce della Sforza era roca, fumosa, persa in un passato che non poteva tornare: “Non lo dimenticato, il tuo babbo...”

Forse era stato solo un caso o forse no, ma nel sentire quel termine così spiccatamente fiorentino ed estraneo al lessico usuale della Tigre, Giovannino si accigliò un momento, per poi tornare a spianare la fronte, sempre rapito dal viso della madre e dalle sue parole.

“Non lo dimentico, mai.” rimarcò la donna, smettendo di massaggiare dolcemente il petto del figlio per sfiorarsi il nodo nuziale: “È solo che la mia vita va così veloce... È sempre andata così veloce che... Se non afferro quello che mi passa davanti, quando posso, cosa mi resta?”

Asciugandosi gli occhi con il dorso della mano, la Contessa si schiarì un po' la voce, per ritrovare la forza di continuare.

“Giovannino...” disse piano, tornando ad accarezzarlo: “Tuo padre è morto senza sapere come ti avrei fatto ribattezzare... Per lui sei stato Ludovico fino alla fine.”

Come cullato dalla voce – così stranamente pacata e bassa – della madre, il figlio cominciò ad assopirsi. Anche se la febbre non era scesa del tutto, almeno sembrava in grado di trovare ristoro in quel modo.

“Madre...” si annunciò finalmente Bianca, più per non dover sentire altro, che perché avesse fretta di palesarsi: “Ho portato la pozione.”

La Sforza si chiese solo distrattamente da quanto sua figlia fosse lì. Le bastò vedere i suoi occhi blu arrossati e pesti per capire che, che avesse sentito o meno, stava quasi nelle sue stesse condizioni e quindi non si vergognò nel farsi trovare altrettanto intristita e preoccupata.

“Grazie...” le disse e prese subito il flaconcino: “Vieni, prendi il mio posto un attimo...”

Mentre la Riario si sistemava dopo poco prima era stata la Tigre, una mano sul corpicino robusto del fratellino, Caterina controllò alla luce della candela la limpidezza del liquido. Lo agitò un po' e poi, riuscendo a non svegliare il piccolo – così distrutto da essere piombato in un sonno profondissimo – gli fece cadere qualche goccia di composto tra le labbra.

“Vedremo già prima di domattina, se servirà o meno a qualcosa...” spiegò la donna, richiudendo la bottiglietta e posandola sul mobile: “Vai pure a dormire, Bianca... Non è necessario stare qui in due... Non c'è nient'altro che possiamo fare.”

“Se non vi disturba, io resterei comunque.” si offrì la ragazza.

La Sforza avrebbe voluto rifiutare e restare sola con Giovannino, ma poi si rese conto che, forse, il calore e il conforto che tanto cercava e che aveva capito subito di non poter trovare in Pirovano, forse li avrebbe potuti avere dalla vicinanza di Bianca.

“Grazie.” le disse solo e, mettendosi dall'altro lato del letto, posò una mano sopra quella della figlia.

La Riario fece un debole sorriso e, senza riuscire a dire nulla in rimando strinse un istante la mano della madre, come a ribadirle la sua presenza e il suo affetto.

Mentre la notte avanzava, né Caterina né Bianca avvertirono il morso del sonno. I loro occhi erano puntati sul piccolo Medici, intenti a notare ogni più piccolo cambiamento, ogni possibile segno di miglioramento o di peggioramento e i loro cuori battevano all'unisono, spinti verso un'unica speranza, ovvero che Livio fosse il solo figlio della Tigre a dover morire prima di iniziare a vivere davvero.

 
 
   
 
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