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Autore: Aslinn    22/07/2009    0 recensioni
Come nasce la canzone "Julien"? Chi è Julien? E che rapporto ha con i famosi Placebo? Solo un altro scheletro nel variopinto armadio di Brian Molko, o forse di più...
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Nuovo personaggio, Stefan Osdal, Steve Forrest
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
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Julien 3 Note: Salve a tutti! Questo primo capitolo l'ho diviso in due parti per vari motivi, che poi leggendo capirete. Ricordo a tutti che ciò che trovate qui riportato è solo frutto della mia immaginazione e che, poiché non sono nella testa di nessuno dei protagonisti (tranne Julien, ma anche lì poco ;) ), pensieri e caratteri sono solo mie supposizioni, che potrebbero benissimo non coincidere con pensieri e caratteri dei personaggi reali.
Spero sia di vostro gradimento^^


Capitolo 1: The payback is here


Prima parte

(Julien)
Ho provato a non avvicinarmi, è ciò che un animale fa con il fuoco. Ma come tutte le bestie sono dannatamente stupido, e ora sono qui a rimirare da lontano il fuoco: quel locale. Sono seduto nel bar di fronte, e scruto tutto attraverso il vetro, consumando nel posacenere le sigarette e in gola l’alcol.
Sono agitato, si nota dalle mani che fremono incessantemente, sembrano tremare come scosse da piccoli terremoti sottocutanei. E cerco di soffocare i ricordi come fossero indigesti compagni in una notte già di per sé triste e buia. Le loro voci come urla di spettri mi corrodono l’anima, perciò reprimo ogni volto nascondendo la loro squallida polvere sotto la coperta della mia stolta mente. Devo dimenticare, eppure sono qui per ricordare. Come sono stupido!
Devo distrarmi. Passo lo sguardo nel locale, per la prima volta intento ad osservare gli altri. Non lo faccio più da quanto mi sono perso nei suoi occhi.
Ad un tavolo c’è un vecchio barbuto, tiene il giornale davanti per conoscere il mondo, non capendo invece che quei fogli sono barriere verso la verità: il mondo è lì fuori.
Poco più in là una cameriera annoiata si risistema bene il grembiule davanti all’addome leggermente rigonfio, masticando nervosa una gomma, in modo scomposto. Chissà quanto a lungo riuscirà a nascondere la sua gravidanza? E quanto i lividi che si intravedono sotto il collo, nascosti poco sapientemente da una maglia un po’ accollata.
Mi volto verso il bancone e in quel momento la porta si apre. Che desolazione, un nuovo cliente in questo pomeriggio all’asciutto. E’ alto, molto più della media locale e si muove con una certa timida sicurezza, come se sapesse di essere visto e volesse fingere di non saperlo. Un cappello nero gli copre la testa, e non posso fare a  meno di notare l’eleganza naturale e il buon gusto che dimostra, malgrado celato da una fine durezza. E qualcosa nei suoi movimenti, mentre si avvicina al bancone e saluta amichevolmente la cameriera, che dimentica subito la sua noia, mi accendono un fuoco dentro. Un ricordo, forse.
Queste botte di rimembranza sono una cosa molto strana, arrivano come improvvise sensazioni, dejavu così forti da stenderti. Lo scruto, ora attirato da un altro oggetto da studiare. Non si volta mai e mai posso guardarlo in volta mentre beve e scherza con la ragazza. Attendo. Alla fine la saluta e paga; senza aspettare il resto esce dal locale. Gli corro subito dietro, voglio sapere.
“Scusa, hai da accendere?” chiedo raggiungendolo e guardandolo dal basso.
Mi guarda e rimane stranito, poi mi porge un accendino. Mi accendo la decima sigaretta e mentre fisso la fiamma dell’accendino una strana rabbia e un dolore lancinanti mi scorticano dentro, come se fossi la punta della mia stessa sigaretta.
Non mi conosce, ne sono certo. Ma io so perfettamente chi sia. Mi tiro su e aspiro una lunga boccata, guardandolo con difficoltà negli occhi. Ho paura…paura che legga il mio dolore. E mentre lo fisso e, per qualche strana ragione, lui ricambia e nessuno di noi due si rende conto del rumore di strada, un ricordo mi stende. Tra tutti i ricordi che cerco di analizzare per decidere se reprimerli o meno, malgrado troppo tardi per non soffrirne, uno, proprio quello, mi balza alla mente, una sola immagine davanti agli occhi: un ragazzo inginocchiato a torso nudo come un nobile cavaliere che riceve, tinto dal rosso di orgogliose luci divine, il bacio dal suo principe, investitura amorosa nel cuore della musica. Provo disgusto e odio per quel ragazzo, malgrado lui colpe non ne abbia. E’ solo colpa Sua.
“Grazie” mi sbrigo a dire, in modo agitato, senza riuscire a nascondere la mia impellente necessità di andar via, seppur perversamente attratto da quell’ancora che mi ricollega al passato.
“Okay…strano…” dice corrugando la fronte.
“Perché?”
“Niente” ride brevemente e mi accorgo che cerca sempre di non guardarmi dritto negli occhi. “Credevo fosse solo una scusa e che tu volessi un autografo, tutto qui.”
“No.”
Improvvisamente comincia a fissare il tremolio delle mie mani. E tutto il resto. Allora mi sembra di guardarmi con i suoi occhi, e l’immagine che mi viene in mente mi spaventa: un ragazzo che neanche a venti anni già sembra sull’orlo della fine, i capelli neri spettinati, gli occhi cerchiati da profonde occhiaie perenni, il naso arrossato da troppi tiri, le labbra devastate da morsi di nervosismo e quel pallido volto bagnato da freddo sudore…il ritratto di un ragazzo in crisi, non solo d’astinenza. Mi vien repulsione per me, e rabbia per quell’immagine.
Lui non ha il diritto di guardarmi così!
Ma nei suoi occhi, ora che riesco ad incrociarli, vedo come una specie di odiosa pietà, quasi io gli ricordassi qualcosa, o qualcuno, e dolore.
“Senti, domani hai da fare?” mi chiede guardandosi appena intorno nella strada semi deserta.
“Che t’importa?”
Prende dalla tasca un pezzo di carta e me lo porge.
“Vieni a fare un salto, domani sera. E’ proprio quel locale” dice indicando il pub alle sue spalle, lo stesso che ho fissato per ore.
Mi fa un cenno del capo e se ne va, camminando con una certa fretta e sparendo nella mia confusione.
Guardo il biglietto nelle mie mani. E ancora quella parola sembra perseguitarmi: “Placebo.”

Seconda parte

(Stefan)
Mi allontano velocemente per tornare in albergo. Malgrado cerchi incessantemente di non ripensare a quel ragazzo finisco sempre col ritrovarmi davanti agli occhi il suo volto. E cerco di non pensare al perché tanto mi abbia turbato. Ne vedo molti di ragazzi come lui, ai nostri concerti, per strada, ovunque. Ma lui…mi ha stranamente ricordato Brian, quello che era. E’ diverso, certo, ma quell’aria di arroganza, quella fragilità mal nascosta, quegli occhi seppur di colore diverso hanno riportato davanti ai miei il mio amico, quando per noi tutto sembrava facile ma in realtà era tremendamente difficile.
Entro in albergo e salgo subito in camera, apro la porta e sul letto mi ritrovo Brian che mangia un gelato e legge un giornalino.
“Bri, non hai pure tu una camera?”
“Sì, forse” si alza e posa il gelato sul comodino, corre alla finestra e scosta in un sol gesto le tende. “Ma la mia non ha un simile spettacolo!”
Oltre il vetro c’è evidentemente qualcosa che solo lui vede, perché a me sembra solo la solita, monotona Londra.
“Okay, come vuoi” borbotto arrendendomi.
Mi siedo su una poltroncina e spulcio un po’ annoiato le lettere che mi sono state inviate. La maggior parte sono di fan, altre di vecchi amici che aspettano il ritorno in scena dei Placebo per sperare di ottenere un po’ di fama. Addirittura qualcuna è di miei veri o presunti ex amanti, che mi giurano amore eterno e di non avermi mai dimenticato. Chissà come mai questo proprio dopo due anni dalla nostra scomparsa in scena?!
Stef non ti ho mai dimenticato, you’re my sweet prince…
La cosa che mi infastidisce davvero, l’unica in fondo, è che spesso usano parti delle nostre canzoni, delle canzoni di Brian, per queste farse, non comprendendo la loro profonda intimità e il loro senso reale.
“A che pensi?” vorrei chiedere a Brian, che fissa con quel sorrisetto dolce e ingannevole il vetro e oltre. Ma non lo chiedo, so che svierebbe il discorso o eviterebbe in altro modo di rispondere. Non con il silenzio, quello lo usa quando vuole ferire.
E’ un gran chiacchierone, anche troppo a volte. Siamo diversi in questo…e stranamente mi trovo con uno stupido pensiero: anche quel ragazzo sembrava di poche parole. E i suoi occhi, così scuri e così spenti, appena illuminati da un sentimento che per quanto nero può dare una luce sconvolgente allo sguardo: il dolore. Quante volte gli occhi di Brian hanno usato quella luce per essere vivi? Quante volte quella è stata l’unica testimonianza di vita? Quante volte si è trasformata quella luce in pianto? Troppe.
Ora invece è così sereno…sorrido involontariamente, perché questa situazione mi rende felice. Mi dispiace unicamente che Steven non abbia seguito la nostra strada…ma non voglio pensarci, o finirei per soffrirne ancora.
“La musica è potere” dice improvvisamente Brian, stirandosi i muscoli con le braccia incrociate dietro il capo e il sorriso di prima, così sereno e disteso, sulle labbra.
Rido appena, forse per renderlo felice, forse perché la verità di quella frase è così profonda ed è così strano sentirla dire con tanta semplicità.
Lo so…è per questo che ho regalato quel biglietto al ragazzo di prima. E’ stupido, ma ho creduto di poter fare qualcosa per lui, seppur poco. In fondo per me e Brian la musica ha significato molto nella vita. Una volta Brian mi disse che senza la musica sarebbe morto. E forse grazie alla musica quel ragazzo si salverà…oppure è solo un’illusione.

Mentre mi addormento, rimasto solo in camera dopo che Brian ha finalmente deciso di andare anche lui a dormire, ripenso a molte cose, troppe per una sola sera. E la confusione torna a bussare alle porte della mia mente. E penso alla nostra storia, a quante ne abbiamo passate. Quel ragazzo, nel suo viso, ha fatto da ponte, anzi da porta verso il nostro passato, per me. Ora non posso fare a meno di affacciarmi da questa porta, prima di richiuderla…ma non potrò mai sigillarla. Non avrebbe neanche senso. Siamo quel che siamo grazie  anche a quel che una volta eravamo, io e Brian. Alla fine abbiamo lottato per venire fuori dal circolo di droga e alcol, da quella euforia che ci ammazzava quando gli effetti svanivano.
Brian ha pianto molto, e anch’io. Per questa situazione. Una volta gli dissi disperato che mi facevo schifo da solo. Quando lo capimmo entrambi fu il punto in cui decidemmo che era troppo, che nulla era più divertente, che ci stavamo solo ammazzando. E insieme ce l’abbiamo fatta. Io e lui ci siamo aiutati a vicenda, con il supporto per me di David e per Brian di Helena e quell’incoraggiamento inconsapevole del piccolo Cody. Sorrido nel ripensare a lui, così piccolo e innocente. Come Brian vorrebbe essere di nuovo…e chi non lo vorrebbe? Solo chi non ha capito quanto male possa fare la vita.
“Cosa penserà di me mio figlio?” era solo uno dei pensieri che in quel periodo buio, che aveva dato alla luce “Meds”, ossessionavano la sua mente. Ora ha capito che i ricordi sono parte di noi, e non cose da dimenticare con ogni mezzo.
E io ho capito un’altra cosa: siamo salvi solo se riusciamo a sorridere pensando al nostro passato. Se ne soffriamo siamo ancora troppo malati, se lo dimentichiamo siamo degli stolti. Certo, mi ha fatto male veder quel ragazzo e rivedervi Brian, ma ora posso guardare negli occhi lui e sorridere di quel passato, perché ora stiamo bene.

Ognuno ha, alla fine, la sua ricompensa. Non deve chiedersi se sia giusta per quel che ha fatto ed è stato. Deve solo chiedersi se ha fatto tutto il possibile per ottenere il meglio, per uscire dal proprio dolore.
  
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