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Autore: Aslinn    21/07/2009    1 recensioni
Come nasce la canzone "Julien"? Chi è Julien? E che rapporto ha con i famosi Placebo? Solo un altro scheletro nel variopinto armadio di Brian Molko, o forse di più...
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Nuovo personaggio, Stefan Osdal, Steve Forrest
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
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julien 2 Note: Questo testo è una libera interpretazione dell'omonima (nonché stupenda) canzone dei Placebo, contenuta nel nuovo disco "Battle for the sun". Ho iniziato a riflettere su di essa dai primi ascolti, e la storia mi si è presentata alla mente, seppur vagamente. Ora ve la propongo, sperando che qualche fan possa dirmi cosa gli trasmette e cosa ne pensa. Mi farebbe piacere. Buona lettura!


Prologo: I’m Julien, I’m happy


(Julien)
Mi stendo sotto l’ombra del soffitto, così basso che sembra precipitare sulle mie costole, e respiro un po’ a fatica. La sigaretta si consuma in fretta, il tempo sembra quasi una relativa goccia di cenere liquida, scivola sulle guance fino al cuscino, imbrattando i capelli sudati. Non è la posizione migliore per fumare, per vivere, per guardare il mondo. Sembra tutto così grigio.
“Julien, cos’hai?” mi chiede qualcuno.
Mi volto stranito e quasi rido: avevo dimenticato che lei fosse qui.
Mi alzò tremando, mi sento debole…sarà la stanchezza, certo, nient’altro potrebbe abbattermi.
“Dammi una striscia” le dico, ed Erika sorride.
Ne prepara una sul tavolino, e fissarla all’opera mi fa allargare la visuale, ricordandomi che sono nel suo monolocale, al centro di Londra, nella periferia del mondo. Ogni buco di paese è solo un buco di culo, nient’altro. E le stronzate nazionalistiche sono solo sputi verso il cielo.
Ma non devo pensare a questo, non devo riflettere su nulla. C’è la polvere bianca come neve nel deserto, perché chiedersi cos’è la vita? Perché fregarsene della povertà? Perché pensare? E’ stupido.
Mi abbasso e tiro, quando mi rialzo sono vivo. Sono felice.

Pensavo che mai l’avrei rivisto. Spesso spengo la tv quando sento la musica, evito di guardarla ormai. Non prendo in mano nessun giornale, tanto meno quelli di gossip e musicali. Temo tremendamente di rivederlo e ricordare, che la miccia si accenda e illumini la caverna scura dove ho relegato le mie paure. Sì, evito ogni contatto visivo con quegli occhi verdi, per far perdere la traccia scura ma brillante che nella mia mente mi ricollega al passato. Ho fatto di tutto per dimenticare. Ogni giorno cerco di cancellare quello precedente, sommando spazzatura su spazzatura di ore perse. E così sto meglio, la droga mi aiuta. L’ha sempre fatto. Anche dopo di lui, soprattutto.
Ero convinto fin oggi che sarei rimasto immune al peso del passato. Invece ora sono qui, impalato di fronte ad un cartello, a uno stupido pezzo di carta colorata appiccicata al metallo. Solo colori senza senso…se non fosse per quel nome, scritto quanto più grande possibile come se qualcuno sapesse e volesse piantarmi nel cuore quelle lettere, per farmi più male che può.
Quella semplice parola mi distrugge, elimina ogni mia resistenza, abbatte i miei teatri mentali: “Placebo”.

 Prologo 2: Remember

(Brian)
Questo concerto sarà una serata piacevole, ne sono certo. Una cosa vecchio stile, uno spettacolo per pochi qui a Londra, in un locale di quelli stile Jazz, fumoso e caldo, un buco di musica. Mi divertirò, questa è la cosa che per me più conta. Sono riuscito a scrivere i pezzi del nuovo album, tutti e tredici i pezzi. Prima di mandarlo sul mercato voglio vedere la musica, di nuovo, voglio sentire il sapore delle note, voglio avvertire ancora quella sensazione intima della mia voce che penetra la mente degli ascoltatori. La musica è sensuale per questo, e molti altri sottili motivi. Un ago di puro astrattismo che trapassa ogni cellula umana, la si gusta con tutti i sensi. Sublime.
Mi accendo una sigaretta e giro per il locale, pensando che è uno dei pochi posti rimasti dove fumare non è vietato, anzi è parte dell’ambiente. I manifesti non sono stati messi per i muri di Londra, solo davanti al locale un grosso cartellone annuncia la nostra presenza qui. Pochi invitati, non li ho scelti io e non ho la minima idea del criterio che hanno usato, non mi importa molto.
Salgo sul palco, relativamente piccolo, ma così confortevole…una piccola casa rettangolare. E guardo il locale vuoto, i tavolini rotondi, le sedie che sembrano così pesanti e costose ma in realtà non valgono nulla, e il bancone più in là con le bottiglie in bella vista, tutti i liquori di cui la gente di qui va matta, che i lavoratori scolano a litri dopo una giornata faticosa, scende nelle loro gole insieme al sudore, e che i giovani si sentono già grandi nell’assaggiare. Anche i bambini li bevono, e sorridono mentre negli occhi dei genitori brilla l’inestimabile stella dell’orgoglio. Ma sto divagando, come sempre. E a ricordarmelo è Steve, che mi guarda a braccia conserte da sotto il palchetto. Gli sorrido pian piano e vedo che gli scalda il cuore, diffondendo sul volto il calore che gli fa ricambiare con spontaneità. Mi chiedo se il mio sia un dono o una maledetta condanna.
“A che pensi?”
“Niente, un po’ di cose che voi americani non potete capire.”
Alla mia frecciatina risponde con una risata breve e quasi timida. Adorabile.
Mi chiedo dove sia Stef, ma ora la cosa non mi importa. Sto troppo bene qui, mi sento così scaldato e quasi coccolato da ricordi che non hanno forma, solo residui di sensazioni che posso appena percepire.
Perché allontanare questi ricordi con il presente?
Aspiro dalla sigaretta gustandola fino in fondo e ripensando ai primi tempi, quelli in cui nessuno mi conosceva, in cui per il mondo ero solo un ragazzino come tanti e la confusione era la peggiore delle droghe. Mi esibivo per sputare rabbia e risentimento, per sbattere in faccia a tutti la mia musica, credendo così di essere più forte…in realtà mostravo solo le mie più intime debolezze. La mia fragilità messa a nudo come un quadro impressionista…poi ho capito: era per molti una bandiera, e ancora lo è. Questa è la musica, la nostra musica, la mia.
E mi sembra di rivivere in una pallida luce quegli istanti frenetici, il trucco e i vestiti, l’agitazione che si calmava solo quando salivo sul palco e recitavo la mia farsa. Dietro la mia maschera ero fragile, la mia stessa maschera ne era un manifesto.
Ora sto bene, me lo ripeto sempre. E per questo, perché quei ricordi non sono altro che una parte essenziale di me, quelli che fin qui mi hanno condotto, che posso guardarli con serenità.
“Bri, la smetti di guardare il vuoto?” mi chiede Steve, ora dietro di me. “La gente non verrà mica per guardare te impalato che fumi come un manichino turco?”
Lo guardo con rimprovero, ma dentro rido di gusto. Sì, sono decisamente sereno.
  
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