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Autore: Adeia Di Elferas    11/04/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Mia signora...” Cesare Feo era entrato nella stanza di Giovannino quasi in punta di piedi.

Stava spuntando l'alba, ma quella camera era ancora immersa in un buio quasi perfetto. C'erano solo due candele accese e la finestra era stata coperta dalla tenda pesante, verosimilmente per non disturbare il piccolo, che pareva immerso in un sonno profondo, per quanto molto agitato.

“Cesare...” ricambiò il saluto Caterina e anche Bianca, seduta vicino al bordo opposto del letto, fece un cenno al castellano.

“Come sta?” chiese in un sussurro l'uomo, le mani giunte in grembo e lo sguardo preoccupato.

“Non migliora.” fu la sola risposta della Tigre: “Mi cercavate?”

Il Feo scosse il capo: “Nulla di che. Ho dato a vostra sorella i soldi per il viaggio. Mi ha chiesto poco, il necessario appena per pagarsi qualche notte in una locanda.”

La Riario, sentendo ciò, occhieggiò verso la madre. Sapere che sua zia se n'era andata, per di più senza salutare nessuno, fu solo un'altra stilettata in quella lunga notte fatta di tormenti.

“Va bene.” ribatté a mezza bocca la Sforza: “C'è altro?”

“No...” la rassicurò Cesare: “Volevo solo vedere come stava messer Giovannino. Anche i suoi fratelli hanno saputo e Bernardino mi ha chiesto se potevo venire a controllare come fosse la situazione...”

La Contessa deglutì e poi gli disse: “Cercate di rassicurarlo, ma non dategli troppe speranze. Se la febbre non dovesse abbassarsi in modo sensibile tra qualche ora al massimo, non so come andrà a finire.”

Il castellano annuì, gli occhi fissi sul corpicino del piccolo Medici, che bolliva per la febbre e si lamentava nel sonno di quando in quando, i lineamenti del piccolo viso tutti contratti e le manine che a tratti afferravano il lenzuolo, come preda di uno spasmo.

“Dite a Galeazzo di scrivere a Ottaviano.” soggiunse la donna: “Non voglio che torni, ma è giusto che sappia che suo fratello sta male.”

L'uomo fece un cenno di assenso e poi si apprestò a congedarsi, senonché fu la Tigre a fermarlo.

“Dovete vedere Baldraccani, prima che incontri Machiavelli.” gli disse, cambiando tono in modo abbastanza repentino.

Per un istante il castellano rivide in lei la donna risoluta e inflessibile che presiedeva i Consigli di Guerra. Anche se i suoi occhi erano stanchi e la sua espressione triste, la sua voce era quella di un comandante.

Giovannino, seppur incosciente, parve cogliere quel cambiamento e si agitò di più, tanto che la donna, per non infastidirlo, chiese a Bianca e aspettarla un attimo e portò il Feo vicino alla porta.

Mentre la Leonessa parlava fittamente con Cesare, la Riario la osservò in silenzio. Anche se non perdeva di vista il fratellino, la sua attenzione era tutta per le poche parole che riusciva a carpire e per i gesti che le vedeva fare.

Era sorprendente, secondo lei, anzi, quasi spaventoso, vederla capace di concentrarsi tanto su questioni diplomatiche e politiche anche in quel momento. Era come se fosse capace di suddividere la sua anima in tante stanze, aprendone solo una per volta.

“Mi raccomando.” concluse Caterina, guardando dritto negli occhi il Feo: “Deve dire esattamente così.”

Il castellano annuì e assicurò: “Non temete, mia signora, sarà fatto quel che volete.”

“E adesso lasciatemi andare da mio figlio.” soffiò lei, tornando a vestire i panni della madre afflitta, ad aprire, nella metafora che si era immaginata Bianca, la camera in cui il suo figlio più piccolo, il più prezioso, quello che aveva desiderato di più e con cui andava più d'accordo, stava male e aveva bisogno di lei.

 

“Come?” chiese Machiavelli, guardando con un sorriso un po' freddo la guardia: “Ma io aspettavo la Contessa...”

“E invece – rispose l'uomo, con tono scontroso, mancando del tutto, secondo Niccolò, del rispetto che avrebbe dovuto portare verso un diplomatico – vi incontrerà il Segretario di Stato.”

Il fiorentino non osò ribattere oltre. Che gli importava, quel 23 luglio, era portare a casa il risultato e basta. Se anche la Tigre avesse mandato Baldraccani al suo posto, bastava che l'avesse mandato per dire di sì.

Machiavelli, non sapendo che fare nell'attesa, si mise seduto a una delle due sedie raminghe che sembravano essere l'unico arredamento di quel salone vuoto. Il palazzo dei Riario non era nulla, in confronto a quello dei signori fiorentini. Era negletto, disabitato, svuotato, abbandonato a sé stesso e alla propria decadenza.

Quell'ambiente, così ampio e dalle pareti ancora perfettamente affrescate, doveva essere stato un tempo un salone adatto ai ricevimenti o agli incontri importanti. Ormai, però, sembrava solo una carena vuota, relitto di un tempo che non sarebbe tornato.

Niccolò scattò in piedi, quando la porta si aprì di nuovo e, trovandosi dinnanzi Baldraccani, come gli era stato preannunciato, si sforzò comunque di apparire conciliante e ben disposto, nella speranza che Antonio fosse lì per dargli la risposta che tanto desiderava.

“Buona giornata, ambasciatore...” lo salutò quello, allacciandosi le mani dietro la schiena e restando nel centro della sala.

Il fiorentino gli si era avvicinato, ma era una situazione abbastanza disagevole, per lui, quasi imbarazzante. Avrebbe dato oro per potersi trovare in un palazzo normale, al cospetto di un portavoce normale, contrattando come persone normali. Lì a Forlì, invece, sembrava che gli schemi del buoncostume non esistessero e quel fatto lo confondeva, irritandolo e rendendolo, alla fine, molto vulnerabile.

“Per prima cosa – cominciò a dire Antonio, con un mezzo sospiro – vi prego di scusare la mia signora per il modo in cui vi ha congedato frettolosamente ieri sera, ma il suo figlio più piccolo si è ammalato improvvisamente e quindi aveva altro a cui pensare.”

Machiavelli strinse gli occhi e cercò di capire se quella scusa fosse vera o meno. Era certo che le donne, per natura, fossero più fragili e che, quindi, una situazione del genere potesse benissimo metterne in difficoltà una. Però, suo malgrado, doveva ammettere che la Tigre, da sola, pareva capace di infrangere tutti i suoi pregiudizi riguardo le donne e le madri.

“E, in secondo luogo – proseguì Baldraccani – mi scuso a nome suo per non essere qui, oggi. La malattia del suo ultimogenito la porta a non poter lasciare la rocca, al momento, e a essere molto prostrata e triste.”

“Lo posso immaginare.” commentò piano il fiorentino, senza avere la prontezza di augurare al piccolo un miglioramento, cosa che, per un diplomatico, sarebbe stata più che d'obbligo.

“Comunque sia...” fece a quel punto il Segretario di Stato della Leonessa: “La mia signora vuole che sappiate che lei si rimette completamente alla vostra Repubblica e che sarebbe disposta ad accettare, in tempo di pace, il Beneplacito da voi proposto, per non meno di dodicimila ducati.”

Niccolò sentì il cuore saltare nel petto. Finalmente erano arrivati a un dunque. Finalmente la Contessa gli stava dando il suo assenso e lui sarebbe potuto tornare a Firenze. All'improvviso quel salone spoglio gli parve il posto più incantevole sulla faccia della Terra.

“Tuttavia...” soggiunse Baldraccani, guardandolo di sottinsu, e vedendolo sbiancare dinnanzi a quella parola che racchiudeva in sé mille tranelli: “Affinché tutto ciò sia più giustificabile presso chiunque, e affinché porti maggior onore e reputazione al suo Stato, la mia signora chiede che Firenze si obblighi a Forlì e Imola per la difesa, la protezione e il mantenimento dello Stato. E la mia signora vuole che Firenze non si senta costretta a farlo, ma che lo consideri un indennizzo per quello che le è stato fatto patire in questi anni, accettando quindi questo onore come parte del suo risarcimento.”

Niccolò aveva sentito la bocca seccarsi all'istante, il cuore perdere un colpo e le mani sudare. Nel momento, poi, in cui Antonio aveva detto che Firenze avrebbe dovuto addirittura mantenere lo Stato della Sforza, per poco Machiavelli non si era sentito mancare.

“Inoltre – andò avanti il Segretario, implacabile e preciso, come se ogni sua frase fosse un colpo di falconetto – la mia signora desidera che le sia dato un assegnamento se non della cifra intera, almeno di una parte consistente del suo servito vecchio, per poter usare quel denaro per alcune sue necessità impellenti.”

Il fiorentino schiuse la labbra, alzando appena l'indice, pronto a ribattere in qualche modo, anche se la voce pareva incapace di risalire lungo la gola.

“E la mia signora – diede l'ultimo affondo Baldraccani – dice che non crederà alla solita scusa usata dalla Signoria, ovvero che le spese vive di questi mesi rendono impossibile alla Repubblica di saldare il debito nei suoi confronti. Quindi mi ha pregato di pregare voi di scrivere subito a Firenze al fine di mettere in chiaro tutto quel che si è detto.”

“Io... Io sono convinto che la vostra signora voglia fare la scelta giusta, accettando il Beneplacito generosamente offerto da Firenze.” disse piano Niccolò, appena udibile, non appena Antonio si zittì, mettendosi in attesa: “Ma per le nuove condizione ch'ella ci propone, io non ho commissione e devo necessariamente avere prima notizie dalla Signoria.”

Il Segretario aveva sollevato le sopracciglia in modo così irritante che al fiorentino si smosse qualcosa dentro. Si sentiva preso in giro e sottovalutato e non poteva permetterlo. Così cercò di agire d'astuzia.

“Non credo, comunque – sorrise mellifluo – che la Signoria avrà nulla di che ridire per le giuste e legittime pretese di Madonna... Quindi, nel frattempo, se vogliamo concludere l'accettazione del Beneplacito, tutto il resto verrà deciso a breve...”

Baldraccani, che era stato messo in guardia dal castellano Feo riguardo quel possibile colpo di coda di Machiavelli, scosse subito il capo: “No. La mia signora vuole fare tutto quanto in una volta sola.”

L'ambasciatore rimase di nuovo senza parole. Non si era aspettato un rifiuto tanto categorico ed ebbe subito il sospetto che quell'omuncolo di Baldraccani fosse stato debitamente imbeccato proprio dalla Sforza, perché quel modo di metterlo in crisi, di anticiparlo quasi in ogni mossa, gli ricordava troppo da vicino l'abilità della Tigre.

“Ebbene... Allora mi ritiro subito per poter riferire quanto mi avete detto.” sussurrò Niccolò, con un inchino profondo.

Il Segretario annuì e poi, non trattenendo un mezzo sorriso di trionfo, aggiunse: “Bravo, scrivete subito e fate capire alla Signoria che la Contessa non ama giocare stando alle regole degli altri.”

Niccolò fece la strada che lo separava dalla locanda in cui alloggiava quasi di corsa. Era furibondo e deluso, soprattutto verso se stesso. Si era ripromesso mille volte di fare la voce grossa, se necessario e, invece, messo alla prova si stava dimostrando solo un pecorone incapace di sollevare la testa davanti a quello che gli pareva tanto un trattamento degno di una nullità e non di un ambasciatore della gloriosa repubblica fiorentina.

Arrivato in camera, non si tolse nemmeno il giubbone, che, per quanto leggero, lo stava facendo sciogliere dal caldo, e si mise subito alla scrivania.

Ripercorrendo con una precisione impeccabile quanto accaduto la sera prima e quella mattina, l'uomo arrivò a essere tanto esasperato verso quella situazione – per lui così emotivamente ingestibile – da arrivare a scrivere: 'Nè volendo per cosa che io allegassi in contrario mutare sentenza, sono costretto a scrivere quanto da quella mi sia stato esposto, acciò VV. EE. SS. con loro sapientissimo giudizio si risolvino, e presto mi avvicino quanto sia loro ultima intenzione, acciò me ne possa tornare, perché lo desidero assai.'.

Completò la missiva con un altro paio di informazioni e poi, con gesti spezzati e imprecisi, firmò e chiuse la lettera, andandola subito a consegnare alla staffetta. Era così agitato che non sarebbe riuscito a stare seduto alla scrivania un solo momento di più.

Anche quando consegnò il suo scritto a colui che l'avrebbe portato a Firenze, non tornò in stanza, ma uscì. Voleva scaricare un po' di tensione muovendosi e, benché fosse appena mattina, sentendosi in tasca qualche moneta, decise che alla passeggiata avrebbe fatto seguire una lunga pausa in osteria.

 

“Andate a riposarvi.” disse piano Bianca, non appena rientrò nella camera del fratello.

Su insistenza della madre, era stata lei a ritirarsi per qualche ora di sonno, quel pomeriggio, e dunque ora voleva in qualche modo ricambiare il favore.

“No... No... Voglio restare...” si incaponì la Sforza, che, in realtà aveva un forte cerchio alla testa e si sentiva addosso una stanchezza impossibile, ormai, da combattere.

“Davvero, madre. Ci penso io. E poi c'è la balia e se succederà qualcosa, vi verrò subito a chiamare.” la rassicurò la Riario, che si era anche cambiata e aveva messo qualcosa sotto ai denti.

Caterina lanciò un'occhiata a Giovannino. Non si era mai sfebbrato del tutto, ma, complice forse anche la pozione che gli aveva somministrato di nuovo un paio d'ore prima, aveva avuto degli sprazzi di miglioramento. Anche in quel momento pareva più tranquillo. Dormiva, ma non era più scosso dai brividi, né aveva il sonno agitato.

In effetti alla donna parve che la situazione fosse sufficientemente sotto controllo da allontanarsi per qualche ora.

“Chiamami davvero, se succede qualcosa. Qualsiasi cosa.” si raccomandò la Contessa, alzandosi e scoprendosi molto più anchilosata del previsto.

Senza rendersene conto, era rimasta pressoché immobile, in quella stanza avvolta dalla penombra, per ore e ore, senza mai prendersi una pausa, se non per qualche breve e necessario bisogno fisiologico.

“Non preoccupatevi.” ribadì la ragazza e, salutando la madre con un cenno del capo, prese il suo posto accanto al piccolo Medici.

La Leonessa, con le gambe che tornavano poco alla volta a rispondere ai suoi comandi, uscì dalla camera e le parve di tornare a respirare. L'aria che l'avvolse era tutt'altro che fresca, ma le dava l'impressione di essere pulita e circolante, non come quella stantia e pregna degli effluvi delle erbe antipiretiche essiccate con cui aveva circondato la testata del letto.

Sentì delle voci di soldati che ancora si affaccendavano nel cortile d'addestramento e poi un breve scoppio di risa, probabilmente seguito a una battuta volgare.

In fondo al corridoio vide un paio di cameriere camminare veloci con delle stoffe in mano, quasi per certo ancora intente a rassettare qualche stanza.

Prese un paio di volte fiato e poi, quasi stordita da quel contatto improvviso con la normalità, si avviò alla sua camera. Voleva dormire, ma voleva anche chiedere a Giovanni da Casale un paio di cose. Benché fosse rimasta alla rocca tutto il tempo, aveva l'impressione di essere stata lontana per mesi e voleva avere notizie di quella giornata infinita.

Arrivata a destinazione, però, Pirovano non c'era. A ben pensarci, era probabile che a quell'ora fosse ancora impegnato o stesse cenando. Caterina voleva aspettarlo sveglia, ma, spogliatasi e buttatasi sul letto, si addormentò all'istante.

Si risvegliò qualche ora dopo, quando sentì il milanese infilarsi nel letto accanto a lei.

“Scusami... Ho cercato di non fare rumore e muovermi piano, ma...” sussurrò lui, nell'accorgersi che la sua amante si era ridestata.

“Non importa...” soffiò lei, voltandosi in modo da arrivare a fronteggiarlo.

Era già piena notte e la camera era avvolta nel buio. Nell'abbracciarlo, la Sforza si accorse che l'uomo indossava solo un paio di brachette leggere. Era stato davvero abbastanza silenzioso, quindi, a svestirsi al buio, ma lei aveva un sonno leggero, da soldato come le aveva detto a volte Giovanni Medici ridendo, e così si era accorta di lui, quando le si era messo accanto.

“Com'è andata tra Baldraccani e quel dannato fiorentino?” chiese, lasciandosi cullare dalle braccia forti del suo amante, senza dar peso al fatto che lui non le avesse nemmeno domandato come stesse Giovannino.

“Come immaginavi tu, a quanto pare.” le rispose, dopo averle dato un breve bacio in fronte: “E quel Machiavelli non l'ha presa troppo bene, mi hanno detto. A mezzogiorno era in un'osteria vicino al quartiere militare e a detta di tutti era già ubriaco come un ratto.”

Caterina avrebbe voluto deridere il fiorentino, ma non ne aveva la forza. Era ancora stanca, assonnata e, per quanto le premesse dire ancora un paio di cose, non vedeva l'ora di poter tornare a riposare.

“Domani devi far partire i balestrieri per Milano. Abbiamo aspettato anche troppo.” ordinò, trattenendo uno sbadiglio: “E domani incontrerò un momento Numai e gli altri, per discutere il da farsi in merito agli spostamenti di Naldi, se Giovannino sarà ancora stabile.”

Pirovano non commentò, e quella che per la Tigre suonò di nuovo come una totale mancanza di empatia nei suoi confronti la infastidì solo marginalmente. In fondo, si diceva, aveva scelto quel milanese come amante per doti molto diverse da quella.

“Ah, un'altra cosa...” soggiunse la Sforza, facendosi ancora più stretta a lui: “Voglio che tu vada da Machiavelli al mio posto. Quando ci sveglieremo ti dirò cosa dovrai dirgli.”

L'uomo annuì in silenzio e lasciò che la sua amante si rigirasse tra le sue braccia, fino a dargli le spalle e poi, circondandola con il proprio corpo, le assicurò: “Tutto quello che vuoi, Caterina.”

“Adesso voglio dormire.” fece allora lei, a scapito di equivoci, nel caso in cui il milanese si aspettasse altro da lei, quella notte.

Il giovane, che in effetti non sapeva mai quale fosse il limite della Contessa, non provò nemmeno a proporre altro e così, restandole adeso per lenire almeno in parte la voglia che aveva, da tutto il giorno, di averla addosso, la sentì riaddormentarsi quasi subito.

 

“E tra quanto?” chiese Lucrecia, con il cuore che correva veloce nel petto.

Alfonso strinse il morso e tentennò. Anche se erano soli nella loro camera, aveva costantemente l'impressione che il Vaticano altro non fosse se non un nido pieno di occhi e orecchie nascosti in ogni angolo.

“Una settimana, dieci giorni al massimo.” sussurrò l'Aragona, tanto in fretta che la moglie fece quasi fatica a capirlo.

La Borja ci pensò, mentre, assorta, si passava una mano sul ventre. Era cinque mesi abbondanti e il bambino sembrava stare bene. Malgrado fosse arrivato subito dopo un terribile aborto, quel piccolo pareva già deciso a dimostrare a tutti quanti di che tempra fosse.

“Tutto bene?” chiese Alfonso, voltandosi verso di lei.

Erano sul loro letto, seduti contro la testiera e coperti dalle lenzuola, che si erano arruffate nell'accogliere il loro incontro di poco prima. Sembravano quasi un mare scosso da una tempesta, e, agli occhi della figlia del papa, erano una perfetta immagina di quello che le si stava agitando nell'anima.

Stava pensando non solo al figlio che portava in grembo, ma anche al suo Giovanni, il bambino che aveva affidato alle suore e che, da quando era nato, aveva rivisto molto di rado, e quasi sempre da lontano.

Era stata anche suor Girolama Pichi a convincerla che quello fosse l'atteggiamento migliore. Non poteva tenerlo con sé, nemmeno con un marito compiacente accanto, e quindi sarebbe stato un dolore meno straziante, per Giovanni, pensare di essere orfano o, comunque, di avere una madre lontana e irraggiungibile.

'Ma lei è una suora – aveva pensato mille volte Lucrecia, ricordandosi la propria infanzia, dorata e maledetta, passata a Subiaco, in un isolamento così irreale da portare lei e i suoi fratelli a nutrire gli uni verso gli altri un amore quasi morboso, quasi un odio, che si stemperava molto spesso in ossessione – che ne deve sapere di come si cresce un figlio.'

Però malgrado tutti i suoi ragionamenti, non aveva mai provato a contraddirla, trovando più comodo seguire il suo consiglio e non mettersi in pericolo più di quanto già non fosse.

“Allora?” la riscosse l'Aragona, prendendole il mento tra le mani e costringendola a guardarlo.

Era bellissimo, nella luce fredda dell'alba. Era giovane, così giovane da sembrare quasi un bambino, malgrado la rada barba chiara che gli copriva le guance e gli nascondeva un po' il labbro superiore.

“Dove andrai?” chiese lei, decidendo deliberatamente di non rispondere a tono.

“Non lo so ancora.” rispose piano lui, tornando a usare la voce bassa da cospiratore: “Non lo so, davvero. Sembra sia più sicuro se nemmeno io so dove mi porteranno.”

Lucrecia annuì, dando tacitamente ragione a quelli che stavano aiutando suo marito in quel piano che a tratti le sembrava folle e a tratti geniale.

Trovava che Alfonso avesse ragione a temere Cesare, ma era convinta che suo fratello non sarebbe tornato in Italia prima dell'autunno. Era anche vero che suo padre, Rodrigo, si era dichiarato davvero ostile a Napoli, in parallelo al re di Francia, ma di fatto non aveva ancora alzato un dito contro gli Aragona che stavano alla sua corte.

E poi c'era Sancha. Anche se la Borja era arrivata a detestarla, doveva ammettere che fosse una donna di mondo e molto più smaliziata del suo Alfonso. Se lui tendeva sempre all'ottimismo e a una fiduciosa ingenuità, lei no, lei pensava sempre il peggio e agiva di conseguenza. Eppure aveva deciso di non lasciare Roma, almeno per il momento.

“Tua sorella però resterà qui...” disse Lucrecia, dando voce ai suoi tormenti.

“Mia sorella ha un grosso difetto – ribatté l'Aragona, dimenticandosi di parlare a voce bassa, riscaldato da quell'argomento che lo trovava estremamente suscettibile – si crede più brava e più intelligente di tutti ed è un'arrogante. Crede di poter salvare Napoli restando, o, almeno, di far ridere tutti alle spalle di tuo padre, pensando che alla gente davvero importi se Alessandro VI sfama una napoletana benché si dica pronto a far guerra al nostro Regno!”

La Borja, un po' per placare il marito e un po' per desiderio di sentirlo di nuovo vicino, si accoccolò contro di lui e, mettendosi ad accarezzargli piano il petto nudo gli ricordò: “Ha il sangue caldo di voi Aragona, non devi fargliene una colpa.”

“Partirai con me?” chiese a quel punto Alfonso, cambiando tono e argomento e assecondandola nei suoi movimenti, sempre più fluidi e inequivocabili.

Fermandosi di colpo, la giovane ripensò di nuovo al figlio che portava in grembo, a quello che aveva lasciato alle suore, ai suoi fratelli, a suo padre, a sua madre Vannozza e, quasi faticando a trovare la voce, rispose: “Non lo so.”

Il ragazzo si era aspettato una risposta simile. Era la stessa che gli aveva dato anche il giorno prima e quello prima ancora. Dopo essersi detta inizialmente pronta a seguirlo ovunque, le era bastato farsi due calcoli per diventare indecisa.

Egli, comunque, cercò di non lasciarsi abbattere da quella titubanza e, intrecciando le proprie dita a quelle di lei, mentre Lucrecia gli si appropinquava di più, scostando il lenzuolo che lo copriva per metà e arrivando a mettersi sopra di lui, le disse solo: “Quando sarà il momento, saprai che fare.”

La Borja lo baciò, amando il sapore giovane del suo marito appena diciottenne, e si sforzò di sorridere, mentre il viso le si imporporava, nel sentirlo sempre di più, nell'avvertire le sue mani correrle lungo la schiena e nell'udire il suo sospiro, quasi di sollievo, mentre i loro corpi si cercavano: “Sì – convenne – quando sarà il momento, saprò cosa fare.”

 
 
   
 
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