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Autore: Adeia Di Elferas    19/04/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Niccolò stava rimuginando sulla lettera di Biagio Bonaccorsi, che gli era stata recapitata giusto quella mattina.

Era arrivata con un ritardo notevole e Machiavelli si trovò a pensare che, in fondo, nemmeno le missive ufficiali della Signoria godevano di maggior rapidità nella consegna e che, quindi, il suo amico non avrebbe dovuto adirarsi, nel sapere quanto tempo c'era voluto per far giungere il suo messaggio a destinazione.

Mentre entrava al palazzo dei Riario, andando ormai in automatico alla sala in cui la Tigre lo stava aspettando, il fiorentino trattenne un sorriso trionfale. Biagio gli chiedeva un disegno della Sforza, per vedere se era davvero tanto bella, ma ormai non c'era più tempo per chiedere alla collerica Contessa una simile grazia. Quel giorno, Niccolò ne era più che certo, avrebbero concluso il loro accordo e lui sarebbe potuto ripartire. Magari addirittura prima di sera si sarebbe già trovato sulla via per Firenze, se la fortuna lo avesse assistito.

Giunto alla porta, chiusa, Machiavelli fece un profondo sospiro. Si passò una mano sui capelli, che aveva disperatamente cercato di sistemare al meglio e poi si diede un paio di colpetti sul bordo del giubbetto, per togliere qualche piega e la polvere della strada.

Schiarendosi la voce, aprì, senza annunciarsi. In un posto normale, si era detto, ci sarebbe stato un cerimoniere o almeno una guardia a fargli strada e annunciarlo alla Sforza, ma Forlì non era una corte normale e quindi ci si doveva adeguare.

“Contessa.” salutò, trovandosi subito davanti la Leonessa.

Questa ricambiò il saluto con un cenno del capo. Era vestita, come sempre, in modo molto semplice, quasi senza gioielli addosso, e, come ogni volta in cui Machiavelli si era trovato al suo cospetto, aveva sul volto un'espressione impossibile da decifrare, quasi indossasse una maschera impenetrabile.

“Lasciatemi dire che sono felicissimo di sapere che alla fine avete messo giudizio e avete accettato la generosa proposta di Firenze.” cominciò a dire Niccolò, armeggiando con la custodia per documenti che portava sotto al braccio: “Dove posso appoggiarmi, per farvi firmare l'accordo..?”

La domanda era scaturita da un'improvvisa consapevolezza del fiorentino che, nel guardarsi attorno, si era reso conto dell'assenza di tavoli o piani d'appoggio qualsiasi. Quel salone, eccezion fatta per un paio di scranni, la si poteva dire completamente vuota.

“Avete molta fretta, vedo.” disse piano Caterina, guardandolo di sottinsu.

Anche se era chiaro quanto l'ambasciatore si fosse impegnato per apparirle al meglio – addirittura il suo ciuffo indomabile aveva assunto una forma abbastanza definita, forse merito di un pettine robusto e una gran dose di pazienza – alla donna quel diplomatico sembrava sempre e solo un piccolo roditore intento a cercare un buco in un sacco di grano per mangiare a sbafo.

“Dato che siamo già in accordo, non vedo perché perdere tempo in chiacchiere...” sorrise mellifluo Niccolò, restando sempre con i suoi documenti a mezz'aria, in attesa che gli venisse indicato un punto in cui posarli.

Solo mentre faceva un altro giro di sguardi per lo stanzone il fiorentino si accorse della presenza di Giovanni da Casale. Era in un angolo, lontano dalle finestre, così immobile da confondersi con la parete.

Caterina seguì i suoi occhi liquidi e capì cosa avesse pietrificato a quel modo l'ambasciatore. Era decisa a mantenere un tono abbastanza disteso, e così cercò di prendere quella reazione come qualcosa di divertente e non di irritante.

“Non vi eravate accorto di messer Pirovano.” disse, con un mezzo sbuffo: “Si vede proprio che avete fretta. Un uomo che nota tutto, come voi, non si sarebbe mai lasciato prendere tanto allo sprovvista, altrimenti.”

Machiavelli sollevò gli angoli della bocca, in un'imitazione pallidissima di un sorriso e poi, dopo aver dedicato un freddo cenno di saluto anche al milanese – che, essendo ormai stato notato, si avvicinò alla Contessa – confermò: “In effetti mi preme molto chiudere questo affare, in modo da poter tornare presto a Firenze.”

La Sforza annuì e poi, quasi volendo dileggiare la propria preda, si perse volontariamente in parole inutili, dicendo: “Sapete, messer Machiavelli, questa notte ho ragionato molto...”

Niccolò la guardava, indugiando più di quanto avrebbe voluto sulle sue forme e chiedendosi con uno strano pizzicore sul collo se quella notte, mentre ragionava molto come aveva detto lei, Giovanni da Casale fosse tra le sue braccia o meno.

Quando provò a sollevare gli occhi verso di lui, dal modo calmo, ma deciso, con cui Pirovano sostenne il suo sguardo, il fiorentino comprese di aver ragione, nel pensare che la Tigre non era stata sola, mentre ragionava.

“E sono giunta a una conclusione...” proseguì Caterina, notando benissimo le occhiate dell'ambasciatore e riuscendo, bene o male a interpretarle.

Quell'uomo la irritava così tanto che le risultava sempre più difficile mantenere la compostezza che si era imposta. Anche il modo arrogante con cui si era presentato con i documenti da firmare, dando completamente per scontato che lei avrebbe accettato tutto quanto... Per la Leonessa stava diventando quasi impossibile contenersi.

Così, tanto per concedersi una piccolissima valvola di sfogo, provò a dire: “Come vi dicevo, ho pensato tutta notte al nostro accordo e non giunta a concludere che aderirei a questo patto con molto più onore, se Firenze si dichiarasse obbligata almeno a difendere il mio Stato.”

Il fiorentino sentì il cuore perdere un colpo. Quella considerazione, fatta quasi con leggerezza, stava riaprendo le trattative e ritardando, di nuovo, la firma dell'accordo.

“Ma avete mandato voi stessa messer Pirovano a dirmi che non era più necessario mandare alcuna staffetta a Firenze..!” sbottò l'ambasciatore, indicando con la mano aperta Giovanni da Casale: “Che tutte le richieste fatte per tramite del vostro Segretario erano da non considerarsi! Che accettavate l'accordo iniziale, che Firenze non avrebbe dovuto obbligarsi in alcun modo con voi e che...”

“Se vi ho mandato messer Giovanni da Casale a riferirvi qualcosa di diverso da quel che vi sto dicendo ora – mise in chiaro Caterina, zittendo il fiorentino con un gesto imperioso dell'indice – non dovete affatto meravigliarvene, perché le cose quanto più si discutono, meglio s'intendono.”

Pirovano, accanto alla donna, cercò di frenarla appena prima che dicesse troppo, ma non ci riuscì.

Le sfiorò il braccio, cercando di farle capire a quel modo che non era il caso di tendere la corda, che lei stessa gli aveva chiesto di starle vicino proprio per evitarle un simile sbaglio.

In tutta risposta, però, la Contessa lo scansò con un gesto secco e affondò il coltello nella piaga soggiungendo: “Firenze ha più bisogno di me di quel che crede e quindi se non si obbligherà formalmente a me, io non mi obbligherò mai più formalmente a lei.”

“Quindi intendereste di nuovo chiedere a Firenze di obbligarsi a voi? Di difendervi? Di mantenere il vostro Stato e risolvere i vostri problemi?!” Niccolò ormai era un fiume in piena: “Ma vi rendete conto della follia delle vostre parole?! Sapete che cos'è Firenze? Chi è Lorenzo Medici? Chi fa parte della Signoria? Sapete quanti soldi ha Firenze e quanto è grande e quanto invece sia povero e misero il vostro inutile Stato?! Vi credete tanto una gran signora, quando invece siete solo una povera pazza!”

Benché fosse più che cosciente degli errori che stava ammucchiando uno dopo l'altro nell'arco di pochi istanti, non era in grado di fermarsi. Tutta la frustrazione, la collera e l'insoddisfazione che quel soggiorno infruttuoso a Forlì gli aveva messo addosso stavano dirompendo senza più alcun freno.

Si mise a camminare a lunghe falcate per il salone, agitando in aria la cartelletta di cuoio e alzando la voce sempre di più, incastrando improperi a invocazioni scurrili, infarcendo il tutto con mezze minacce: “Vedrete come reagirà la Signoria...! Quando sapranno..! Quando farò sapere..!”

“Siete pagato, e da quello che so lo siete pure molto poco, per riferire, non per dire la vostra.” lo redarguì la Tigre, sporgendosi in avanti, fronteggiandolo con tanta fermezza da indurlo a smettere di camminare e a fissarla.

A nulla valeva, ormai, la presenza di Pirovano che, trovandosi del tutto impotente e incapace di contenere tanto Caterina, quanto il fiorentino, si limitava a guardarli, una mano sull'elsa della spada che portava al fianco, nel caso in cui si fosse passati per qualche motivo alle vie di fatto.

Machiavelli, nel sentirsi ricordare anche come fosse sottopagato – e chiedendosi se quel commento fosse stato solo dettato dall'intuizione spiccata di quella donna o da una sua reale conoscenza dei fatti – aprì di scattò la cartelletta di pelle, prese il documento che quella mattina aveva redatto con tanto ottimismo e lo stracciò sotto gli occhi della Sforza.

“Ebbene!” disse, sempre a voce molto alta, lasciando in terra i resti della pagina: “Riferirò tutto quanto alla Signoria, come volete voi! Ma state pur certa che si meraviglieranno tutti molto, a Firenze, dato che aveva scritto chiaramente che voi eravate più che contenta, senza eccezione alcuna, per l'accordo raggiunto!”

“Non è colpa mia, se vi siete spiegato male con i vostri padroni.” rimbeccò la Contessa, gli occhi verdi accesi di rabbia, la stessa che aveva covato per giorni e che stava facendo fuoriuscire poco per volta, come una colata di lava inarrestabile: “Perché è quello che sono, i membri della Signoria: i vostri padroni. E voi non ve ne rendete nemmeno conto. Voi fiorentini vi riempite la bocca di parole come libertà e repubblica, ma alla fine siete solo tanti piccoli schiavi nelle mani di uomini come Lorenzo Medici!”

L'ambasciatore boccheggiò un paio di volte e poi, con il fiato corto e il viso contratto per la rabbia, concluse: “Ebbene, manderò un'allegata con le vostre parole e staremo a vedere..! Staremo a vedere! Vi ricordo che i francesi avanzano sul confine di vostro zio, a Milano e che quella di Firenze è l'unica mano che vi è stata tesa!”

In quel momento, nel sentirsi rivolgere quelle parole, che sottintendevano tutta una seria di minacce e considerazioni poco piacevoli, Caterina agì di nuovo d'impulso, ignorando distintamente Giovanni che, rapido quanto lei, aveva cercato di dissuaderla prendendola per una spalla.

La donna afferrò una mano di Machiavelli e, sollevandola come se volesse davvero osservarla, commentò, beffarda: “Se questa è la mano che Firenze mi sta tendendo, così malferma e debole, allora preferisco farne a meno.”

“State pur tranquilla – decretò il fiorentino, ritirando la mano con uno scatto – che la Signoria saprà tutto e che avrete sue notizie, ma non per tramite mio.”

“Sono d'accordo, anzi, vi consiglierei di lasciare Forlì il prima possibile e trasferirvi almeno a Castrocaro.” annuì la Leonessa, indicandogli la porta: “E quando partirete per Firenze, gradirei esserne informata. Voglio sapere con esattezza quanti ratti ci sono nelle mie terre, quanti ne arrivano e, nel vostro caso, quanti e quando ne partono.”

Dando un calcetto a qualche pezzo di pagina strappata che si era ritrovato tra i piedi, il fiorentino voltò le spalle alla Tigre e gridò: “State con Dio, Contessa, perché non c'è uomo che possa reggervi, su questa terra!”

“State con Dio anche voi, ambasciatore – ribatté lei, alzando la voce nel medesimo modo – che se non vi sopporta lui che può tutto, allora siete davvero senza speranza alcuna!”

Appena Niccolò si fu chiuso la porta alle spalle con un tonfo assordante, Caterina andò alle finestre e, dopo aver dato un pugno al muro, si mise ad aspettare di veder passare Machiavelli.

L'uomo attraversò la piazza quasi di corsa, borbottando tra sé e, quando sparì, alla Sforza restò solo un profondissimo senso di smarrimento.

“Avresti dovuto fermarmi.” disse piano, senza voltarsi.

Pirovano, che non aveva più osato avvicinarla dopo essere stato scansato per la seconda volta, sussurrò: “Ci ho provato.”

“Non è vero.” scosse il capo lei, trovandosi a pensare a come sarebbe stato tutto diverso, se accanto a lei ci fosse stato Giovanni Medici: “Mi hai solo fatta arrabbiare di più.”

“Cosa credi che succederà adesso?” chiese il milanese, lasciando cadere il discorso, per paura di litigare con la sua amante: “Firenze taglierà davvero tutti i ponti con noi?”

“Quel maledetto Machiavelli è più scaltro e orgoglioso di quanto sembri.” disse lentamente la donna, lasciando finalmente le finestre e ravviandosi i capelli lunghi e bianchi con entrambe le mani: “Non riferirebbe mai alla Signoria della sfuriata a cui si è lasciato andare. Sono pronta a scommettere che riferirà la mia volontà di ottenere l'obbligo di Firenze al mio Stato, ma con tono molto meno accesi di quelli che si sono sentiti qui oggi. Ha reagito così solo perché credeva di poter chiudere l'accordo e tornarsene a casa in fretta e con un risultato importante per la sua carriera. Nel suo modo di vedere la situazione, io ho gettato una pietra enorme sul suo cammino, invece di aiutarlo a levarsi da davanti qualche sasso...”

“Quindi pensi che si risolverà tutto?” chiese, un po' confuso, Giovanni.

“Immagino che a mio cognato verrà detto qualcosa in più di quanto non verrà riferito alla Signoria...” soppesò la Tigre, alla quale non era sfuggita l'allusione a Lorenzo fatta da Niccolò: “Ma di quello ci occuperemo quando sarà il momento.”

'Però – pensò tra sé la donna – non avrei dovuto scattare a quel modo, nemmeno in reazione al suo attacco. Ho solo complicato tutto.'

“Fai scrivere a mio figlio Ottaviano...” decise all'improvviso Caterina, andando verso la porta: “Ha il mio permesso di tornare a Forlì.”

Pirovano stava per ribattere in qualche modo, almeno per chiederle dove stesse andando, ma la sua amante lo anticipò.

Sollevando la mano verso di lui, appena prima di lasciare il salone, gli disse: “Voglio stare da sola, non seguirmi e non cercarmi. Se Bianca dovesse aver bisogno di me, dille solo che avevo bisogno di pensare in un posto tranquillo, forse capirà.”

 

Niccolò ci aveva messo più di un'ora, per farsi passare almeno in parte l'arrabbiatura. Non era riuscito a mangiare, e sentiva lo stomaco bruciare come se al suo posto vi fossero le bocche dell'inferno.

Appena si sedeva alla scrivania per scrivere il suo resoconto alla Signoria, si trovava subito di nuovo in piedi. Era così agitato da faticare perfino a tenere in mano la penna. Era come se la tensione che aveva accumulato nel discutere con la Tigre avesse permeato il suo corpo e che anche ora, a discreta distanza dal loro scontro, continuasse a scuoterlo.

Sentì a un certo punto dei tamburi da guerra. Non andavano a ritmo di carica, ma nemmeno di marcia. Era quasi più un suono da parata, da rassegna. E ad accompagnare quel cadenzato rimbombare c'erano gli zoccoli di qualche decina di cavalli e il vociare della gente.

Incuriosito, il fiorentino andò alla piccola finestra che dava sulla strada e capì il motivo di tanto fracasso. La colonna di balestrieri a cavallo che la Tigre aveva deciso di mandare in soccorso a Milano stava passando proprio in quel momento lungo la via su cui si affacciava la sua locanda.

Non essendo quella una della arterie principali di Forlì, Machiavelli si chiese se per caso quella donna insopportabile non avesse deciso per quella deviazione al solo scopo di fargli rodere il fegato.

Già mentre gli ultimi balestrieri sfilavano sotto la sua finestra, però, l'ambasciatore rivalutò la sua idea e pensò che una persona superba e arrogante come la Sforza non avrebbe mai dato un peso così grande a lui e alla sua reazione. Dunque doveva essere solo un caso.

Nel vederli avanzare così schierati, compatti e ordinati, a Niccolò vennero i brividi. Era sorprendente, se ci pensava senza lasciarsi trascinare dall'odio che nutriva per lei, che una donna come la Sforza fosse in grado di trasformare contadini bifolchi e braccianti in soldati tanto specializzati e ubbidienti.

Anche se era stato lì poco, aveva potuto vedere con i suoi occhi come la rocca e il Quartiere Militare inghiottissero quasi ogni giorno nuove reclute, rispuntandone poi fuori armigeri scelti e pronti alla guerra. E lei era sempre lì, a guidarli, ad addestrarli, a sceglierli, come una figura mitologica, mezza donna e mezzo uomo, in sella al suo stallone nero a gridare disposizioni e impartire ordini.

Se solo non avesse avuto un carattere tanto complicato e se solo la sorte le avesse dato uno Stato più grande, probabilmente tutti avrebbero realmente avuto paura e bisogno di lei.

Con una mano sul ventre, a cercare di placare almeno in parte i crampi che somatizzavano la sua collera non ancora del tutto sopita, Niccolò alla fine andò a sedersi di nuovo alla scrivania. Prima di intingere la penna nell'inchiostro, bevve di fila due calici di vino, trovando quel rosso amarissimo e così diverso dal vino delle sue parti da mettersi quasi a piangere di nostalgia, e poi iniziò la sua missiva.

Non voleva mettersi in ridicolo, non voleva mostrare la debolezza in cui era caduto, ma doveva comunque far capire alla Signoria che qualcosa non era andato per il verso giusto. E doveva anche trovare un modo per far accettare di buonagrazia la sua decisione di partire prima di avere un formale congedo da parte della Repubblica.

Dopo aver riassunto in breve l'incontro con Pirovano e poi l'inizio dell'incontro con la Sforza di quella mattina, giunse al punto più delicato.

Spiegò come la Tigre avesse ammesso di aver cambiato idea nottetempo e proseguì, optando non per una bugia, ma per un'attenuazione della verità: 'Udendo io questa mutazione – scrisse – non possetti fare che io non me ne risentissi, e non me ne mostrassi malcontento e con parole e con gesti, dicendo che VV. SS. ancora se ne maraviglierebbono, avendo scritto a quelle Sua Eccellenza essere contenta senza eccezione alcuna. E non possendo io trarre da Sua Signoria altro, sono astretto a mandarvi l'alligata, dandovi per questa ancora particulare notizia del seguito, acciò quelle possibno meglio farne giudizio, e risolversi, e presto.'.

Poi, per giustificare la sua partenza alla volta di Castrocaro, s'inventò una scusa sulle ricerche dei colpevoli dell'omicidio di Corbizzo Corbizzi, così caro a Firenze, alludendo anche a una grandissima collaborazione della Tigre in quell'ambito.

Chiusa la lettera, Niccolò andò a cercare gli uomini della sua scorta e rese noto che avrebbe voluto partire prima di sera.

Quando gli venne detto che lasciare Forlì così in fretta non sarebbe stato possibile per tutta una serie di motivi che l'uomo non volle nemmeno ascoltare, Machiavelli li rimbrottò dicendo loro che avrebbero fatto meglio a essere tutti pronti entro l'alba e poi, farfugliando ancora qualche bestemmia, lasciò la locanda per cercarsi un'osteria più malfamata e a buon mercato, dove spendere in vino e donne quel che gli restava gran parte dei – pochi – soldi che aveva con sé per quel viaggio.

 

Caterina aveva sentito il rullare dei tamburi che accompagnavano fuori dalla città i balestrieri a cavallo, ma non si era mossa. Sapeva che avrebbe dovuto mostrarsi alla loro testa o, almeno, sulle merlature della rocca per dare il suo saluto.

Però non l'aveva fatto, sperando che i soldati e i forlivesi in generale attribuissero la sua assenza alla malattia del suo figlio più piccolo. La notizia delle febbri che avevano colpito Giovannino, infatti, si era già sparsa a macchia d'olio e, per certi versi, alla Sforza andava benissimo così.

Aveva paura, una paura folle che il suo ultimogenito non si salvasse. Non capiva perché stesse così, né sapeva che fare per farlo migliorare. Se fosse capitato il peggio, si diceva, almeno la popolazione avrebbe avuto il tempo di assorbire la notizia e, forse, sarebbero stati meno voraci nei suoi confronti, risparmiandole domande e motti di sorpresa.

Schiacciandosi gli occhi con una mano, trovando assurdo doversi consolare con simili pensieri, la donna inspirò a fondo. La chiesa di San Girolamo era pregna dell'odore dell'incenso e delle candele accese.

A parte un prete – che aveva avuto la buona idea di sparire subito – non aveva ancora visto nessuno.

Aveva avuto ragione Manfredi, quando le aveva detto che quella era senza dubbio la chiesa più tranquilla di tutta Forlì.

Caterina era stata un po' sulla tomba del suo giovane amante, rimuginando su tante cose che lo riguardavano. Si era chiesta cosa sarebbe successo, se non fosse stato ucciso. Avrebbero davvero messo a ferro e fuoco Faenza? Lui avrebbe davvero sposato Bianca? Sarebbe riuscito a tener fede alla sua promessa di non sfiorarla nemmeno con un dito? L'avrebbe davvero lasciata libera?

“Avremmo avuto comunque bisogno di Firenze?” si era domandata poi, a voce alta, la Leonessa.

Siccome dalle domande era passata poi ai ricordi, ripensando alla partenza di Manfredi, alla sua ostinazione nel non volere una scorta offerta da lei e nello scempio che avevano fatto del suo corpo, quando l'avevano ammazzato come una bestia da macello, la Sforza aveva preferito allontanarsi dalla tomba del faentino e si era portata nella cappella dei Feo.

Aveva appoggiato la punta delle dita sul nome di Giacomo e lì, trascinata da un umore ancora più cupo, ma, in una certa misura, a lei molto più congeniale, si era persa di nuovo nei suoi ragionamenti.

Le mancava, il suo secondo marito. In modo indicibile e di continuo, anche quando le sembrava di non pensarci. Giacomo era una presenza costante e viva nella sua mente e nella sua anima. La statua che lo ritraeva, il Paradiso in cui si erano ritagliato una parentesi di normalità e Bernardino, bellissimo e irrequieto, erano tutte cose che le impedivano di dimenticare.

Comunque, pensava a volte, anche senza tutti quei continui rimandi al suo grande amore, non avrebbe comunque potuto scordarselo. Era stata felice, con lui, nonostante le loro immense differenze e le loro incomprensioni. I silenzi tra loro e a tratti le urla erano stati assordanti, ma erano sempre riusciti a ritrovarsi, sempre, anche nei momenti peggiori. Era come se si sfamassero l'uno dell'altra. E poi, da un giorno all'altro, si era ritrovata sola.

Era arrivato Giovanni a curare le sue ferite, ma non era mai stata la stessa cosa.

“Madre...” la voce di Bianca ebbe un effetto strano sulla Tigre, che, quasi assopita, sbatté le palpebre, fissandola quasi come se non la riconoscesse.

Le ci volle qualche istante e solo quando la figlia fu quasi spalla contro spalla con lei capì che se la ragazza era lì doveva esserci un motivo.

“Giovannino..?” domandò, con il cuore in gola, già pronta a correre alla rocca.

La Riario scosse subito il capo e tentò di rassicurarla come meglio le riuscì: “Sta come prima, né meglio né peggio.”

La Contessa emesse un piccolo soffio di sollievo. Il fatto che il piccolo Medici non fosse in fin di vita era già un immenso traguardo, in quel momento.

“C'è Galeazzo con lui, adesso.” proseguì Bianca: “E Bernardino. Hanno voluto restare loro.”

“Avevo detto che Galeazzo doveva stare lontano da Giovannino.” ricordò con tono freddo la Leonessa: “Non voglio che rischi di contagiarsi...”

“Non si contagerà.” fece subito la giovane, con un sospiro: “Se Giovannino fosse pericoloso, sia io sia voi ci saremmo già ammalate, non credete?”

La Sforza non trovò la voce per continuare quel dialogo e così cambiò argomento: “Come mai sei qui?”

“Volevo farvi sapere che ho trovato io la menta Romana che vi serviva. Me l'hanno portata oggi. È per quello che ho lasciato i miei fratelli con Giovannino, dovevo ritirarla da un mercante...” spiegò la ragazza, porgendo alla madre un involucro che teneva nella tasca dell'abito: “Così se vorrete fare una nuova bottiglia di pozione per la febbre non dovrete aspettare il vostro erborista.”

Caterina la ringraziò in silenzio. Controllò con attenzione la qualità della menta e la trovò ottima.

“Grazie.” disse: “Fatti dare i soldi dal castellano, mi raccomando.”

“Ho usato quelli del mio appannaggio.” spiegò la Riario: “E non voglio rimborsi. Giovannino è mio fratello.”

“Se vuoi...” provò a dire allora la Contessa: “Potresti aiutarmi a preparare la pozione, verso sera.”

La giovane annuì subito, felice di quell'offerta. Per lei – come per tutti i suoi fratelli – ogni momento con la madre, per quanto risicato, valeva come oro.

La Tigre sospirò e, mettendosi la menta Romana nel tascone del suo abito da lavoro, concluse: “Ci metteremo al lavoro al tramonto. Fa troppo caldo, di giorno, per mettere a punto quella pozione...”

La figlia fece di nuovo segno di sì e poi, seguendo lo sguardo della madre, che era corso di nuovo alla lapide dietro cui riposava Giacomo Feo, disse: “Quando messer Pirovano mi ha detto che eravate in un posto tranquillo per pensare, sapevo che vi avrei trovata qui.”

La Sforza non disse nulla, limitandosi a sporgere un po' in fuori le labbra, quasi compiaciuta. Le piaceva avere simili punti di contatto con la figlia. Vedere che la capiva, almeno in parte, aveva un che di consolatorio. La faceva sentire meno sola.

“Era stato Manfredi a farvelo notare, vero? A lui piaceva, questa chiesa...” andò avanti la Riario, soprappensiero.

Siccome, però, la madre parve irrigidirsi un po', nell'udire il suo tono dolente, nel citare Ottaviano, che, inutile negarlo, era piaciuto – e tanto – a entrambe, la ragazza si sforzò di non nominarlo più.

“Com'è andata con l'ambasciatore fiorentino?” s'informò.

Caterina si morse l'interno della guancia. Le piaceva anche quell'aspetto, della figlia: che si interessasse anche degli affari di Stato.

Tuttavia non aveva alcuna voglia di parlarne, perciò la liquidò con un secco: “Male.”

“Che succederà, adesso?” chiese la Riario, deglutendo.

“Prima che se ne vada gli farò avere un mio documento firmato...” rivelò la Contessa: “Voglio il beneplacito di Firenze, anche se non otterrò i vantaggi che speravo. Se la signoria accetterà la mia proposta, allora Ottaviano avrà un altro anno di stipendio e, magari, me lo leveranno anche di torno per un po'.”

La ragazza si grattò la nuca e poi, sollevando un sopracciglio domandò: “I francesi arriveranno anche qui?”

La Leonessa restò in silenzio, gli occhi fissi alla lapide di Giacomo. Era spaventata almeno quanto la era sua figlia, ma non voleva darlo a vedere troppo.

“Faranno come hanno fatto a Mordano?” soffiò la giovane, ricordandosi benissimo i racconti che erano arrivati da quella carneficina.

Anche quella volta la Sforza restò in silenzio, ma alla fine, avvertendo un leggerissimo tremito nella figlia, soggiunse: “Per allora, voglio che tu e tutti i tuoi fratelli siate al sicuro.”

“E voi?” gli occhi blu scuri della Riario cercarono invano quelli verdi ramati della madre, che la sfuggivano di continuo.

“Io no.” fu la risposta di Caterina: “Io devo restare. Ma voi dovete essere al sicuro. Spero solo di potervi proteggere come vorrei... Perché se vi prendessero...”

“Ci ucciderebbero.” completò la frase la Riario.

Alla fine sì.” sottolineò la Tigre.

Bianca capì benissimo cosa intendeva dire e sapeva anche che lei sarebbe stata quella a cui sarebbe toccata la sorte peggiore, essendo una donna.

Sperando di rincuorare un po' la madre, le sussurrò: “Qualsiasi cosa mi succeda, io sono forte, posso resistere.”

“Da certe cose non si guarisce mai.” disse in fretta la Contessa, stringendo poi il morso e facendosi molto più fredda.

La giovane deglutì e poi, con un respiro molto fondo, mettendosi a sua volta a fissare la tomba del Barone Feo, mise in chiaro: “So quanto male vi ha fatto mio padre, ed è anche per questo che apprezzo immensamente l'amore che provate comunque per me e per i miei fratelli, anche se a volte fate fatica a dimostrarlo. Conta veramente tanto, per me.”

La Sforza le lanciò un'occhiata penetrante. Per una frazione di secondo le loro iridi si specchiarono le une nelle altre e si capirono.

Caterina stava per dire qualcosa, per schermirsi in qualche modo, per ridimensionare l'accorata dichiarazione della figlia che, di fatto, le aveva fatto piacere, ma l'aveva anche ripiombata in uno smarrimento che non conosceva da tempo, ma il suo stomaco brontolò con forza.

“Da quanto non mangiate?” chiese allora la Riario, preoccupata.

La Leonessa non si sprecò nemmeno a fare dei conti e rispose solo: “Un po'.”

“Torniamo a Ravaldino. Dovete mangiare.” fece la ragazza, posando una mano sul braccio della madre e parlando prima che potesse recriminare qualcosa: “Dico davvero. Anche se so che un soldato deve saper resistere alla fame e al sonno, vi state trascurando troppo. Dovete essere al vostro meglio, per vincere questa battaglia.”

“Non voglio veder morire un altro figlio.” convenne la Contessa, cominciando a seguire la figlia verso l'uscita di San Girolamo.

“E non succederà.” la rassicurò Bianca, per quanto lei stessa, nel passare sotto al sole cocente di quel luglio, si sentisse tutto fuorché sicura di qualcosa.

 
 
   
 
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