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Autore: Adeia Di Elferas    22/04/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare Borja si infilò con un gesto stizzito la vestaglia da camera e poi, versandosi da bere con tanta fretta da rovesciare metà del vino, imprecò a bassa voce.

Trangugiò quel che c'era nel calice e si pulì la bocca con il dorso della mano. Diede uno sguardo di fuoco alla lettera che aveva appena gettato di lato e bestemmiò di nuovo, questa volta con tono ancora più rabbioso.

Non ne poteva più di starsene in Francia a non far altro che partecipare a ricevimenti e cercare di mettere incinta sua moglie ogni notte. Bramava l'azione, la gloria, il riscatto. Voleva mettersi in mostra e far capire a suo padre che lui era molto meglio di quello che era stato suo fratello Juan, che lui era il figlio predestinato, quello a cui il fato aveva affidato un futuro sfolgorante.

E invece suo padre che cosa gli scriveva? Di non lasciare la Francia finché non fosse stato certo che quella capra di Charlotte D'Albret fosse gravida.

Si grattò, distratto, la guancia, su cui la barba cresceva rada per colpa delle cicatrici che il mal francese gli lasciava dopo ogni recrudescenza.

Si versò di nuovo da bere e, non appena sentì il vino pulsare nelle sue vene assieme al sangue, chiuse con una cinturina di seta la sua vestaglia e uscì dalla camera con passo quasi marziale.

Non gli dispiaceva, avere una donna con cui stare ogni notte, ma alla lunga i pianti e la silenziosa disperazione di Charlotte lo stavano stancando. Anzi, a volte lo angosciavano. Non gli piaceva vestire sempre la maschera del mostro.

C'erano donne che avrebbero pagato oro, pur di poterlo avere per una notte. E invece a lui era toccata in sorte una ragazzina piagnucolosa e spaventata, che lo accettava nel suo letto solo per paura. Anche se aveva già diciannove anni, la sua sposa a tratti si comportava come una tredicenne.

Arrivato alla porta degli appartamenti della sua signora, il Borja la sentì chiacchierare con una delle sue dame di compagnia. Discutevano in un francese tanto stretto che non riuscì a capire se non qualche parola. Così Cesare sospirò e, con gli occhi chiusi, si annunciò.

Il silenzio che seguì al suo saluto la disse lunga sulla reazione della moglie. Quando la dama di compagna andò ad aprirgli, anche il suo volto era uno specchio spietato di quello che lo attendeva dentro.

Charlotte era seduta sul letto e, quando lo vide, come se stesse mettendo in pratica un rituale che conosceva a memoria, ma che la terrorizzava, si mise coricata, sollevandosi le sottane della camicia da notte quel tanto che bastava per permettergli di fare quel che doveva.

Il Duca di Valentonois tirò su con il naso. Distolse lo sguardo e poi sollevò appena l'angolo delle labbra, scuotendo il capo in silenzio.

La giovane non lo stava guardando. Teneva le palpebre già serrate e i pugni stretti lungo i fianchi, aspettando solo che tutto fosse finito.

“Ringrazia il mio Santo Padre – le disse lui, lasciandosi scivolare la vestaglia dalle spalle e andando al letto – per quello che ti devo fare. Fosse per me, ti giuro che cercherei molto più volentieri qualcuna che non mi tratti come se fossi un mostro.”

Quello sfogo sorprese Charlotte che, forse tentata di cercare con il marito un contatto più umano, schiuse lentamente gli occhi. Tuttavia si trovò a doverli riserrare immediatamente, perché il Borja, calato perfettamente nella parte del mostro, si era già messo sopra di lei, ben deciso a non perdere altro tempo.

 

Seguendo i saggi consigli di Bianca, Caterina alla fine aveva riempito lo stomaco, aveva preparato con calma la pozione per Giovannino e aveva passato la notte a vegliare il figlio.

Quella sorta di calma ritrovata le aveva dato modo di ragionare di nuovo sulla questione di Machiavelli e, ritornando di nuovo sui propri passi decise di non mandare più un documento firmato con la sua accettazione delle condizioni fiorentine, ma di scrivere direttamente alla Signoria, chiedendo almeno che Firenze si obbligasse nei suoi confronti, dichiarandosi ufficialmente pronta a difenderla in caso di aggressione straniera.

Avrebbe voluto sottolineare come in casa sua, sotto al suo tetto, sfamato dal suo cibo e con il suo sangue nelle vene vivesse un figlio di Firenze. Se non volevano aiutare e sostenere lei, una Sforza, almeno avrebbero dovuto farlo con Giovanni. Ma, quando si prese qualche istante per redigere la missiva, non ne trovò il coraggio.

Il suo ultimogenito in quei giorni le pareva troppo fragile, tanto delicato da non poter essere messo in mezzo alle questioni politiche più di quanto già non fosse.

Il piccolo Medici non migliorava, alternando di continuo picchi febbrili che lo scuotevano da capo a piedi a momenti di totale apiressia che lo lasciavano del tutto stremato. Né la Sforza, né il suo medico riuscivano a capire che avesse e, tanto meno, come guarirlo.

“Mia signora...” quando l'Oliva, a mattina fatta, era andato a cercarla, Caterina era ancora china sul figlio, che in quel momento dormiva, pallido e sudato.

Facendo un cenno alla balia, per dirle che sarebbe tornata presto, la Tigre raggiunse il notaio e lo seguì in corridoio, dove parlare più liberamente.

“Che c'è?” chiese la donna, accigliandosi.

“Ho notizie...” iniziò a dire l'uomo, mordendosi il labbro, sentendosi quasi crudele a parlarle di quelle cose proprio mentre il piccolo Giovannino era in condizioni tanto critiche, ma era stata la stessa Contessa a ordinargli di correre subito a riferirle ogni più piccola novità: “Pare che vostro cognato Lorenzo stia solo aspettando notizie dall'ambasciatore Machiavelli per sapere se accetterete o meno le condizioni fiorentine, e poi procederà con l'istruzione del processo di affidamento.”

“Vuole aspettare per usare la mia decisione, quale che sia, contro di me, vero?” chiese la Sforza, stringendo il morso e sentendo riaffiorare la rabbia.

“Temo di sì. Ho sentito anche Spinuccio Aspini, che, come voi mi avete detto, volete come esperto legale per darvi assistenza al processo, e anche lui la pensa così.” confermò l'Oliva: “Probabilmente, se accetterete l'accordo dirà che la vostra influenza su Firenze è già troppo grande e che sarebbe imprudente lasciarvi un Medici tra le braccia. Se, invece, non accetterete, sosterrà che siete fondamentalmente nemica di Firenze e che lasciarvi Giovannino sarebbe un pericolo sia per la famiglia dei Medici sia per il piccolo.”

“Insomma, la teoria più facile da smontare darebbe la prima.” commentò a denti stretti Caterina.

Il notaio sollevò appena il sopracciglio, lasciandole intendere che a suo avviso fosse proprio così, ma non disse nulla.

“Per il momento...” cominciò a dire la donna, sforzandosi di ragionare in modo coerente, senza lasciarsi trascinare troppo dall'orgoglio, né dalla paura: “Per il momento allora non dirò nulla, all'ambasciatore di Firenze. So che adesso è già a Castrocaro e immagino stia per ripartire per la sua città... Quando sarà il momento giusto, mi rivolgerò direttamente alla Signoria.”

“Tramite lettera, mia signora?” chiese l'Oliva, perplesso.

Lui stesso era stato un diplomatico, un'ambasceria del Moro lo aveva portato a Forlì dalla Tigre e, dopo un primo lungo momento di incomprensioni e quasi di odio tra loro, era nato invece un sodalizio stabile e duraturo, che aveva portato grandi vantaggi a entrambi. Il milanese non si sentiva un grandissimo oratore, né troppo abile con la politica, ma se era riuscito non solo a cavarsela, ma addirittura a rifarsi una vita, significava che un po' di cose le sapeva anche lui. Forte di quella certezza, giudicava la decisione della Contessa quanto meno azzardata.

“No, no...” scosse il capo lei, trovandosi a valutare uno scenario fino a quel momento non calcolato: “Manderò una persona di mia fiducia.”

“Se vi servisse la mia persona, io...” provò subito a offrirsi l'Oliva, ma Caterina, ringraziandolo, gli rese subito noto che l'ambasciatore da lei scelto non sarebbe stato lui.

“Mi serve qualcuno che, all'occorrenza, sappia difendersi anche con la spada.” precisò e poi, con un sospiro, tornò verso la stanza del figlio e concluse: “Tenetemi informata su qualsiasi altra novità.”

 

Niccolò stava ricontrollando per l'ultima volta i suoi bagagli. Era arrivato a Castrocaro da appena un giorno e mezzo, ma era già pronto per andarsene.

Quel 26 luglio l'afa non gli aveva lasciato un attimo solo per respirare. Desiderava immensamente tornarsene a Firenze, confidando in un clima più mite e, in ogni caso, nella dolcezza del ritrovare le proprie abitudini.

In più, cosa non trascurabile, già al suo arrivo a Castrocaro aveva sentito delle voci su dei casi di peste. Erano casi molto dubbi, ma per esperienza sapeva che con quel caldo e con l'assenza di pioggia, non era poi così strano vedere spuntare bubboni a destra e a manca. Anche se per il momento si trattava solo di chiacchiere di dubbio fondamento, non era da escludere che a breve si sarebbero trasformate in solide realtà.

Quindi, prima sarebbe ripartito alla volta della sua Firenze, prima si sarebbe sentito al sicuro e sollevato.

Quel breve soggiorno in Romagna gli era servito per capire due cose. Innanzi tutto che non gli piaceva viaggiare, anche se, per fare carriera, probabilmente avrebbe dovuto farlo di nuovo. E in secondo luogo aveva capito una volta di più che con le donne non si poteva ragionare.

“Quando partiremo?” gli chiese il carrettiere, che si era anche fatto pagare in anticipo.

“Tra un'ora al massimo – rispose Machiavelli, lanciando uno sguardo severo al sole che picchiava sulla sua testa come un martello – e sia chiaro che non ammetterò ritardi.”

Mentre l'altro annuiva e sbuffava, soppesando le monete che teneva in mano, quasi volesse dire che fossero troppo poche per il servigio richiesto, il fiorentino tornò un momento nella locanda in cui aveva alloggiato, per andare a saldare il conto.

Mentre tirava fuori, di malavoglia, il necessario per placare l'avidità dell'oste, cercava di calmare il proprio cuore, che batteva sempre più veloce nel petto. Aveva paura, per quello che stava facendo.

Ripartire senza il permesso esplicito di Firenze poteva dimostrarsi un errore gravissimo. D'altro canto, però, sapeva che fosse rimasto anche solo un giorno in più in Romagna sarebbe morto o impazzito, e non voleva né morire né impazzire per colpa della Sforza.

Anzi, cercava di blandirsi dicendosi che le aveva dato ancora più di un giorno per ripensarci e mandarlo a chiamare. Lei non aveva mosso un passo, per andare incontro alle richieste della Signoria e dunque, ormai, se ancora avesse voluto strappare qualche accordo alla Repubblica, avrebbe dovuto essere lei a fare la prima mossa, mandando un suo ambasciatore a Firenze.

“Mancano i soldi per quello che avete preso ieri.” disse l'oste, con voce gracchiante, l'occhio strabico che indicava la moglie, intenta a riordinare un tavolo appena lasciato vuoto da due avventori.

Niccolò si ricordò solo in quel momento di averla reclamata per sé, quella notte. Dopo cena si era ritrovato ubriaco, abbattuto e arrabbiato, e quella donna si era dimostrata disponibile. Il fatto che fosse la moglie del locandiere non gli era parso un problema. C'era pieno di osterie in cui moglie e marito si dividevano i compiti a quel modo: lui a servire in tavola il cibo e lei a compiacere i clienti nel retrobottega.

“Per quello che ho avuto – sbuffò Machiavelli, prendendo la moneta di minor valore che si trovò in tasca – questo è anche troppo.”

L'oste sospirò, ma poi, accontentandosi, prese il soldo e lo mise al sicuro nella scarsella: “Che Dio vi assista lungo la strada, messere.”

Il fiorentino fece un breve cenno con il capo e poi, messosi la berretta da viaggio in testa, uscì per prendere un po' d'aria e raccogliere le idee prima che venisse l'ora di partire.

 

Erano ormai più di cinque giorni che Giovannino scottava per le febbri. Caterina, Bianca, le balie e tratti Galeazzo – sempre affiancato da Bernardino, che dimostrava per il fratello più piccolo un attaccamento spiccato, ma che la madre non riusciva ad apprezzare quanto avrebbe dovuto – si alternavano giorno e notte a guardarlo e a spargerlo di erbe antipiretiche e tamponarlo con stracci imbevuti di acqua e aceto. Tuttavia non migliorava.

La situazione stava diventando abbastanza claustrofobica per tutti e, in più, la Sforza aveva sentito allarmanti voci circa alcuni nuovi casi di peste nelle campagne. Per ora si trattava di posti abbastanza lontani dalle sue terre, ma se quel caldo torrido fosse andato avanti a lungo, non si poteva escludere l'ipotesi che presto anche Forlì e Imola sarebbero state colpite dalla morte nera.

Machiavelli, le aveva riferito Luffo Numai – accorso alla rocca la sera prima anche per sapere come stesse il piccolo Medici – aveva lasciato già Castrocaro e, pareva, l'aveva fatto anche per paura di restare poi bloccato da un'epidemia.

“I ratti sanno sempre scappare prima che la nave coli a picco.” aveva commentato a denti stretti la Tigre, quando aveva saputo di quel suo apparente eccesso di prudenza.

A differenza dell'ambasciatore fiorentino, Ottaviano Riario sembrava invece aver adottato un tipo di cautela molto diverso, nei suoi spostamenti. Anche se la madre gli aveva dato da qualche giorno il permesso di tornare a Forlì, il giovane – così era stato riferito alla Sforza – non era partito se non quella mattina.

Caterina, dopo un lieve tentennamento, aveva chiesto di essere informata su quando il suo primogenito sarebbe giunto a Ravaldino e così, quel pomeriggio, mentre era con Bianca a vegliare Giovannino, il castellano andò a cercarla.

“Messer Ottaviano è qui fuori. Vorrebbe vedere suo fratello.” disse, in un filo di voce.

Il bambino, in quel momento, era abbastanza stazionario e tranquillo. Non aveva febbre e non era nemmeno agitato. Aveva appena sorbito qualche goccia di latte e miele e poi si era assopito.

Fu proprio perché era addormentato che la Leonessa si fidò a lasciare la stanza. Se fosse stato sveglio, avrebbe rinviato l'incontro con Ottaviano, perché Giovannino, già apprensivo e abbastanza dipendente da lei quando stava bene, da malato lo era diventato ancora di più.

Facendo un cenno a Bianca, la donna lasciò il suo posto e seguì fuori Cesare Feo. Ad attenderla, in mezzo al corridoio, voltato di spalle e con le braccia incrociate sul petto, c'era Ottaviano.

Il giovane uomo si voltò subito, quando avvertì la presenza della madre e provò a dire: “Vorrei vedere mio fratello e...”

“Sta riposando, adesso non puoi.” lo frenò all'istante la Contessa, congedando, intanto, il castellano con uno sguardo.

Mentre Cesare Feo si allontanava, la donna si prese un momento per osservare il Riario. Le era capitato, in passato, che dopo un breve periodo di separazione l'immagine del suo primogenito le risultasse un po' meno sgradevole.

Quella volta, però, la lontananza non era servita a nulla. Nei suoi capelli inanellati e resi quasi rigidi dalla cura ossessiva che sapeva riservare loro, nel suo viso allungato, così simile a quello di Girolamo e nel suo fisico molle e già in parte sfatto dai vizi, benché avesse appena vent'anni Caterina vedeva solo l'immagine del fallimento.

Il giovane, allargando e chiudendo i pugni lungo i fianchi, preso un po' alla sprovvista dal diniego della madre, provò a domandare: “Potrò vederlo più tardi?”

“Come se ti interessasse davvero vedere come sta...” commentò a denti stretti la Tigre, già pentita di aver richiamato Ottaviano a Forlì.

Il Riario preferì non approfondire il discorso. Sua madre non riusciva a capire, o forse non voleva, che per lui Giovannino era un fratello a tutti gli effetti, a differenza di Bernardino. Il figlio di Giovanni Medici, proprio perché con lo stesso sangue di uomo che con lui era stato sempre così disponibile e presente, per Ottaviano era una presenza preziosa. Per quanto gli fosse possibile, desiderava fare la sua parte per proteggerlo.

Non era come con Bernardino, che, invece, ai suoi occhi sarebbe stato sempre e solo un fastidio, l'emblema vivente di un passato che avrebbe tanto voluto poter dimenticare.

Tuttavia, non avendo le capacità dialettiche, né il coraggio, per affrontare la madre su una questione del genere, preferì svicolare su altro e dire: “Mi avete richiamato perché l'ambasciatore di Firenze se n'è andato, vero?”

La Sforza, che era sul punto di congedarlo e tornare dall'ultimogenito, fece un cenno secco il capo, abbastanza sorpresa da quell'interessamento da parte di Ottaviano. Era così abituata a vederlo apatico, incline a farsi scivolare addosso qualsiasi cosa senza porsi la minima domanda, che quella richiesta la colpì positivamente.

“Avete rinnovato la condotta per me?” proseguì lui, facendosi più teso, il pomo d'Adamo che saliva e scendeva nervosamente nel collo lungo.

Finalmente la Contessa capì il motivo di tanto interesse e in un lampo l'apprezzamento si tramutò di nuovo in irritazione: suo figlio era solo preoccupato per se stesso, temeva solo di dover tornare in guerra e mettersi in pericolo.

“Per il momento – spiegò lei – non abbiamo ancora deciso nulla.”

“E l'avete lasciato ripartire prima di trovare un accordo? È una cosa saggia?” fece il giovane, accigliandosi.

“Non siamo riusciti a trovare un punto di contatto e dunque confido di aver maggiore fortuna quando invierò un mio ambasciatore presso la Signoria.” ribatté piccata la Tigre: “Le condizioni che aveva proposto Machiavelli erano quelle di un contratto capestro e non mi pareva saggio, per dirlo con parole tue, accettare.”

“Ma...” cominciò a dire il Riario, le mani dalle dita lunghe che si chiudevano sul petto, in un atteggiamento di preoccupazione.

“Tu che avresti fatto al mio posto, se ti avessero proposto dodicimila fiorini, senza vincolare Firenze alla protezione di Imola e Forlì, quando invece la nostra richiesta era di almeno dodicimila ducati, con obbligo di Firenze e richiesta di mantenimento del nostro Stato?” riassunse la donna, inclinando appena la testa di lato.

Il Riario boccheggiò. A mala pena aveva capito quello che gli era stato detto, figurarsi se fosse stato in grado di esprimere la sua opinione in merito.

Il silenzio del figlio alla Leonessa bastò: “Ecco, bravo. Non dire nulla. E adesso vattene...”

Il giovane deglutì e, rinunciando a cercare di nuovo di convincerla a lasciarlo entrare un momento nella stanza di Giovannino, cercò di salvare un po' di amor proprio dicendo: “Sì, mi hanno detto che Sforzino sta seguendo una lezione interessante sui protomartiti... Credo che lo raggiungerò nella sala delle letture...”

Evitando di abbandonarsi a uno scatto d'ira per quel misero e ipocrita tentativo del figlio di ritagliarsi un angolo di iniziativa personale, Caterina non disse più nulla, limitandosi a guardarlo mentre si allontanava.

Avrebbe voluto tornare subito nella stanza di Giovannino, ma prima voleva calmarsi un po'. Sapeva che il suo ultimogenito era in buone mani e non voleva dedicarsi a lui mentre era così scossa.

Come sempre, la schermaglia, per quanto breve, avuta con Ottaviano aveva avuto il potere di sfinirla.

Così, nel tentativo di calmarsi, andò a una delle finestre che dava sul cortile d'addestramento e guardò di sotto, per controllare che fosse tutto in ordine. In fondo, in quegli ultimi giorni, aveva delegato parecchio e trovava che qualche ispezione casuale avrebbe solo giovato ai suoi soldati.

Aprì anche i vetri, permettendo all'aria pesante di quel 27 luglio di riempirle i polmoni e alle voci degli uomini che stavano tirando di spada in cortile di riecheggiarle nelle orecchie. Si sporse un po', per controllare che fosse tutto a posto e per qualche minuto si perse a osservare i movimenti degli armigeri.

In mezzo a loro, impossibile non notarlo, a spiccare tra tutti era Giovanni da Casale. Senza rendersene conto, l'attenzione della Tigre venne attirata sempre di più da lui, fino a che gli altri si ridussero a mero sfondo.

Pirovano, per far fronte al caldo afoso di quel pomeriggio, non aveva indossato protezioni e si era anche tolto il camicione, restando a torso nudo. Malgrado ciò si tuffava nei duelli con un coraggio e una ferocia notevoli e alla Sforza piaceva visceralmente vederlo muoversi sotto al sole, sudato e affannato, quasi un'immagine capace di rievocarle lo stesso uomo intento a confrontarsi con lei tra le lenzuola.

Restò ancora un po' a fissarlo, sentendo man mano crescere dentro di sé una fame che conosceva benissimo e che, in fondo, non era mai riuscita a sopire, nemmeno nei peggiori momenti della sua vita. Il suo sangue caldo, dopo la morte di Girolamo, non aveva smesso un attimo di ribollire. Era stato Giacomo il primo a risvegliarla, e da allora non era mai più riuscita a far riassopire l'animale che si rigirava famelico nella sua anima, spesso anche a costo di mettere a rischio se stessa e chi le stava a cuore.

Si passò con lentezza una mano sulle labbra, cercando di forzarsi a lasciare la finestra e tornare dal figlio.

Tuttavia, quando in effetti si allontanò dal davanzale, invece di dirigersi verso la porta chiusa, camminò rapida fino alle scale, scendendole poi quasi di corsa. Arrivata al piano terra, attraversò il porticato e, dopo qualche secondo ancora di esitazione, richiamò con una certa discrezione il suo amante.

Giovanni, appena battuto un avversario, si asciugò il sudore della fronte con il braccio e le si avvicinò, riparato finalmente dall'ombra di una delle colonne.

“È successo qualcosa?” chiese, riprendendo fiato.

Trovarselo tanto vicino non fece altro che abbattere anche l'ultimo muro che Caterina stava tentando di tenere in piedi e così, mordendosi il labbro, gli disse solo: “No, non è successo nulla, ma devi venire con me.”

“Va bene...” fece lui, aggrottando un po' la fronte, non capendo fino in fondo le intenzioni della donna: “Un momento che recupero la camicia e...”

“No, quella non ti serve. Vieni.” lo richiamò all'ordine lei, afferrandolo per una mano e cominciando a portarlo verso le scale.

Finalmente Pirovano comprese e, dandosi un'occhiata alle spalle per controllare se qualcuno avesse visto la Contessa prenderlo per mano a quel modo, si affrettò a seguirla.

Avevano appena fatto in tempo a entrare in camera, che già la Sforza aveva cominciato a mettergli addosso le mani, affrettandosi a levargli i pochi abiti che ancora indossava. Giovanni non si faceva domande, seguendola con fiducia cieca e con desiderio sempre crescente.

Dalla notte in cui Giovannino era stato male all'improvviso, non aveva più potuto averla per sé e moriva dalla voglia di poter finire quello che avevano cominciato ormai così tanti giorni addietro.

Dando sfogo ai loro istinti, che riconoscevano per l'uno e per l'altra motivazioni diverse, ma che si manifestavano allo stesso modo, cominciarono a cercarsi ancora prima di arrivare al letto e, come due furie, si presero in fretta, senza riguardo, quasi che non ci fosse tempo per fare le cose con più calma.

Caterina sentiva il sentore forte e avvolgente dell'uomo che stringeva a sé, ancora sudato per il tirar di spada, la pelle che aveva ancora il sapore del sole, e le sue mani che la indagavano con minuziosità, come se stessero ripercorrendo un sentiero che avevano paura di aver dimenticato.

Pirovano si sentiva completamente soggiogato alla donna che stava amando, dipendeva interamente dai suoi respiri, dal suo corpi pieno e flessuoso che si muoveva attorno a lui, circondandolo e accogliendolo come mai aveva fatto prima.

Solo alla fine, stanchi e quasi frastornati per la passione bruciante che li aveva trascinati fino a lì, la Sforza e Giovanni si coricarono l'uno accanto all'altro, per riprendere le forze e godersi qualche attimo di pace, prima di tornare ai problemi della vita.

L'uomo le stava accarezzando con delicatezza una spalla, l'altra mano che le passava sul ventre e poi sulla coscia, ma la Tigre, sfamata la belva che albergava in lei, aveva già quasi voglia di andarsene da quella stanza.

Il suo amante era stato perfetto, aveva risposto a tutti i suoi bisogni senza deluderla, ma, passata la buriana, la donna aveva già ricominciato a pensare a suo figlio, a Machiavelli, a Milano e a tutto il resto.

“Ah...” fece a un certo punto Pirovano, smettendo di accarezzarla, e puntellandosi su un gomito per poterla guardare in viso: “Già che siamo qui... Mi è arrivata una lettera da Milano che potrebbe interessarti molto.”

Quella notizia, così inattesa e detta con un tono quasi leggero, raggelò il sangue nelle vene della Sforza.

Agendo d'impulso, afferrò immediatamente il guanciale che teneva accanto a sé e lo usò per colpire il suo amante: “E perché non me l'hai detto subito?!” scattò, mettendosi in piedi e cominciando a vagare per la camera in cerca delle sopracitata lettera.

“Pensavo di parlartene stasera, quando fossi uscita dalla stanza di tuo figlio per mangiare qualcosa...” si scusò Giovanni, che, non avendo avuto la prontezza di difendersi subito dalla cuscinata, si trovava ancora in parte coperto dal guanciale.

Caterina gli dedicò uno sguardo inceneritore, e poi, osservandolo meglio, si trovò a pensare che malgrado tutti i suoi muscoli, tutto il suo ardore, la sua barba nera e le sue labbra esigenti, il suo amante altro non era se non un ragazzo. Avevano quasi quindici anni di differenza e, in momenti come quelli, la Contessa li sentiva tutti.

“Fammela leggere, muoviti.” ordinò lei e così Pirovano, saltando giù dal letto a gran velocità, recuperò la missiva e gliela porse.

La Leonessa lesse in fretta. Era un messaggio abbastanza stringato del Moro, ormai vecchio di quasi una settimana. Era chiaro che le comunicazioni si stessero facendo sempre più lente, per colpa degli spostamenti di uomini lungo la via Emilia e non solo.

In pratica suo zio spiegava che l'esercito francese, per il momento, sembrava ritiratosi ad Asti e, in più, commentava l'arrivo di Machiavelli a Forlì e anche la sua opinione circa le proposte fiorentine, rammaricandosi di essere giunto troppo tardi, rispetto alla Signoria, nell'offrire una condotta al nipote Ottaviano.

“Gli hai parlato di Machiavelli?” chiese Caterina, guardando in tralice il milanese.

Giovanni, che si era risieduto a letto, alzò appena le spalle: “Gli avevo solo detto che stava arrivando, ma ancora dovevamo scoprire con quali proposte, quindi di fatto il Duca non sa praticamente nulla.”

La Contessa ci pensò un momento e poi, grattando in terra con le gambe lignee della scrivania, spostò il mobile verso il letto. Pirovano restò attonito, davanti a quel gesto, ma preferì non commentare in nessun modo.

“Dobbiamo rispondergli.” disse la donna, mettendosi accanto all'amante, spalla contro spalla: “E tu scriverai quello che ti detterò io.”

Prima di tutto la Sforza scrisse la propria missiva, ringraziando lo zio delle offerte per Ottaviano, dicendosi addolorata, per il momento, di non poter accettare in quanto già quasi accettate le proposte di Firenze. Lasciò intendere che probabilmente avrebbe accettato quanto offerto dalla Signoria, ma lasciò un lieve spiraglio, tanto per vedere cosa e se il Duca avesse risposto.

“Avanti, adesso scrivi quello che ti dico...” fece poi, indicando una pagina bianca a Pirovano e cominciando a dettare.

'Ma perché nulla più securezasi può havere delo inimico suo che estimarlo, con ogni humile e debita reverentia questa prefata Madona ricorda ala Cels. V. se la vole essere senza paura la pensa de estimare ogni minutia deli inimici soy, perché così quella non serà trovata ala scoperta, et in ciascuno evento le paura seranno divise.' gli fece scrivere, dopo le felicitazioni per la momentanea ritirata dei francesi: 'Restami solo recommandarmi ala Ill. S. V. cum pregarla fazi partecipe deli progressi la prefata Madona, perché non potria sentire cosa li fusse più a core, dolendosi che 'l non li sij licito et permisso il potere seguire personalmente la S. V. etr voglie sue, come la fa con l'animo et desiderio.'.

Caterina, da sopra la spalla di Giovanni, leggeva tutto quello che lui metteva nero su bianco e, abbastanza soddisfatta, detto anche la frase seguente: 'Li 50 balestreri suy serano ali 28 a Bologna, e credo satisfarano.'.

“Benissimo...” concluse lei: “Poi aggiungi anche tu qualcosa su Firenze, digli che sono indecisa se accettare o meno, ma sottolinea che mi è stata offerta sia la condotta, sia la protezione del mio Stato.”

Pirovano fece come gli era stato detto, firmò e chiuse la lettera. Fu tentato di alzarsi per risistemare la scrivania al suo posto, ma la Tigre non gliene diede il tempo.

Attirandolo a sé, gli diede un bacio sulle labbra, scendendo poi al collo e, con un breve sorriso, gli sussurrò all'orecchio: “Sei un soldato molto efficiente.”

L'uomo si schiarì la voce, sentendo di nuovo le mani della sua amante cercarlo e, un po' incerto, ribatté: “Sei sicura che a tuo zio questa lettera servirà a qualcosa?”

“Gli ho dato un buon consiglio.” fece lei, smettendo subito di toccare il milanese, riportata ai crudi affari di Stato, quando, invece, si sarebbe volentieri concessa un secondo momento di svago: “E poi queste lettere devono servire a me. Non a lui.”

Giovanni pareva convinto solo a metà, ma quando la donna si alzò, mostrandosi di nuovo davanti a lui in tutta la sua avvenenza, fu proprio lui a prenderla per un polso e ritirarla a sé, con intenzioni abbastanza bellicose.

Abbandonandosi a lui, Caterina fece una risata bassa e disse: “Chissà che faccia farebbe mio zio, se sapesse che queste lettere gliele abbiamo scritte gomito a gomito, senza vestiti addosso, seduti sul nostro letto, tra un assalto e l'altro...”

“Credo sia meglio per entrambi che non se lo immagini nemmeno...” ridacchiò Pirovano, sottintendendo però una realtà molto seria.

“Molto meglio...” convenne la Contessa e, imponendosi sul suo uomo senza la minima difficoltà, gli fece presente: “Dobbiamo fare in fretta... Devo tornare da mio figlio...”

Giovanni da Casale sospirò, e, invertendo rapido le loro posizioni assicurò: “Sono un soldato molto efficiente. Come la mia signora comanda.”

 
 
   
 
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