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Autore: Adeia Di Elferas    27/04/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Era ormai notte inoltrata, e Caterina si era allontanata dalla stanza di Giovannino per un unico motivo. Anche se si era persa la partenza dei balestrieri a cavallo che avevano lasciato la città qualche giorno addietro, non voleva mancare a quella dei cinquanta cavalleggeri che sarebbero corsi subito alla volta di Milano per dare manforte a suo zio.

Aveva scelto come loro guida Giorgio Attendolo. Benché fosse a Forlì fin dai funerali di Manfredi, la Sforza aveva avuto di rado modo di parlargli e l'aveva conosciuto poco. Tuttavia la sua abilità con le armi e la sua furia sul campo erano di dominio pubblico e il sangue che gli scorreva nelle vene bastava, per quanto le riguardava, a garantire la sua fedeltà tanto a lei quanto al Moro.

Così, all'ora prestabilita per la partenza, la Contessa si era assentata un momento dal capezzale del figlio, lasciando la sua serva personale, Argentina, a vegliare sul piccolo Medici. Aveva attraversato in silenzio la rocca, imbattendosi solo in un paio di soldati che stavano raggiungendo i baraccamenti e in Ottaviano che, col giubbetto slacciato e un'andatura non propriamente da sobrio, la salutò con un cenno del capo, andandosene abbastanza in fretta da non incappare in domande scomode.

Per la Tigre era stato un bene, che il primogenito non le avesse dato modo di riversare su di lui un po' del suo nervosismo. Se avesse ceduto a quell'impulso – sempre vivo, quando se lo trovava davanti – si sarebbe solo sentita peggio.

Aveva poi raggiunto i camminamenti e si era appostata sul lato che dava verso la città appena in tempo per scorgere la colonna di cavalleggeri che prendeva la via per Milano.

Così da lontano erano poco più che puntini neri spersi nel buio della notte, ma per Caterina significavano tanto. Era un orgoglio, per lei, malgrado tutto, poter fornire alcuni tra i migliori soldati d'Italia per la difesa di Milano, la sua terra natale.

Intravedeva anche il gonfalone e, benché non potesse scorgerlo alla pallida luce della luna, sapeva benissimo cosa vi era dipinto sopra: la vipera sforzesca. Non la biscia addomesticata, che portava con delicatezza un fanciullo tra le fauci, voluta da suo zio come simbolo di una rinnovata Milano, ma la temibile vipera, pronta a divorare un moretto, che aveva rappresentato sui campi di battaglia i suoi nonni Francesco e Bianca Maria e suo padre Galeazzo Maria.

Restò ancora qualche minuto a fissare il punto in cui erano apparsi i cavalleggeri prima di sparire oltre le mura, inghiottiti dalla notte, e poi, in parte distratta dalle voci degli uomini di ronda, si mise a osservare la città che dormiva.

Era sempre uno spettacolo capace di catturarla. E il profilo di Forlì, con le poche luci ancora accese e quella sorta di silenzio ovattato, le ricordava sempre un po' quello di altre città che aveva visto con il buio, dall'alto di un camminamento. Milano, Pavia, Imola, Roma...

Istintivamente, tornando a estraniarsi da quello che la circondava, si trovò a ricordare di quando aveva Roma in suo pugno, con i cannoni puntati contro i porporati che avevano creduto di poterla sconfiggerla. Si ricordò di come Livio fosse nella sua pancia, mentre lei valutava le prossime mosse, sentendosi potente, così pronta a tutto da non temere nulla, se non la stupidità di suo marito Girolamo.

E poi si ricordò di quando aveva corso la piazza, lì a Forlì, appena pochi anni prima dei fatti di Castel Sant'Angelo. Quella volta con lei c'era Bianca. Ripensare a distanza di diciotto anni a quel giorno le mise quasi i brividi. E pensò anche che se quella volta il cavallo avesse fatto anche solo una bizza in più del necessario, disarcionandola, probabilmente sua figlia non sarebbe mai nata.

Senza volerlo davvero, Caterina, appoggiata alla pietra dura delle merlature, ancora tiepida per tutto il sole preso quel giorno, si trovò a rivivere in parte la nascita di tutti i suoi figli, uno dopo l'altro. Non poteva negare con se stessa che solo la nascita di Bernardino e quella di Giovannino erano state, per lei, una fonte di gioia. E se per il secondo era stato facile poi amarlo subito incondizionatamente, con il primo invece era stato tutto più complicato.

Tuttavia, cercava di dirsi, con il tempo aveva imparato ad accettare e perfino ad apprezzare tutti i suoi figli. Eccezion fatta, andava detto, per Ottaviano e in parte per Cesare.

Nel ragionare a quel modo sui suoi figli, mentre con lo sguardo vagava sulla statua bronzea di Giacomo – che appariva scura e quasi minacciosa, come un monito – Caterina venne colta da una consapevolezza improvvisa che le fece raggelare il sangue nelle vene.

Da quando Giovannino si era ammalato, lei si era completamente scordata di prendere la sua pozione per ridurre la probabilità di restare incinta. Non ci aveva più fatto caso, era stata così sommersa da altri problemi da dimenticarsi del tutto di quella che era diventata un'abitudine.

Anche se aveva diviso il letto con Pirovano qualche volta, non le era più passato di mente quanto fosse necessario quell'accorgimento. Anche se non aveva prove schiaccianti della sua efficacia, per il momento sembrava funzionare e dunque era necessario continuare a prenderla, prima di finire in qualche pasticcio.

Mettendosi una mano sulle labbra e facendo due conti, si disse che non era il caso di lasciarsi prendere dal panico. Sarebbe bastato ricominciare subito ad assumere il suo intruglio e, con buona probabilità, avrebbe arginato ogni rischio.

Così, repentinamente, lasciò i camminamenti e, invece di andare alla stanza del figlio, fece una deviazione verso la propria camera.

 

Giovanni da Casale stava finendo di scrivere una lettera che riteneva doverosa, indirizzata al Moro.

La stessa Caterina gli aveva chiesto di riferire, con parole però ben diverse, quello che era intercorso tra lei e Machiavelli, e così il suo senso di colpa era quanto meno dimezzato.

Anche se ormai si riteneva un uomo al soldo della Tigre, di fatto aveva un debito di riconoscenza nei confronti del Duca immenso e non poteva voltargli le spalle in modo tanto plateale. In più, il che non era trascurabile, era convinto che quella missiva non avrebbe fatto alcun danno.

Dopo aver riassunto molto in breve come la Contessa si fosse detta disponibile ad accettare il rinnovo della condotta per Ottaviano nel caso in cui Firenze le si fosse obbligata e come, invece, non si fosse poi giunti a un accordo che la soddisfacesse, Pirovano scrisse: 'Ad che la prefata illustre Madona disse che non era per rispondere de presente ad tale loro deliberatione, ma resoluta li faria intendere per uno de suoy proprij, qual fusse l'animo suo'.

Stava per cominciare la frase seguente quando la porta della camera si aprì, facendolo sobbalzare.

“Come mai sei ancora sveglio?” chiese la Sforza, che pur aveva cercato di entrare in silenzio proprio per non svegliare il suo amante, che immaginava addormentato da almeno due o tre ore.

E invece l'uomo era alla scrivania, scalzo e con addosso solo le brachette da notte, intento a scrivere a chissà chi.

“Io...” cominciò a dire Giovanni da Casale, tanto sorpreso di trovarsi davanti la Contessa da non saper cosa dire.

La Leonessa, che era entrata in camera al solo scopo di recuperare la sua bottiglia di pozione e poi tornare da Giovannino, fu tentata di lasciar perdere, ma l'occhio le cadde sulla lettera che il milanese aveva davanti.

Distintamente, ben illuminata dalla candela sulla scrivania, spiccava l'intestazione: era diretta al Duca di Milano.

Dimentica di tutto il resto, Caterina non tentò nemmeno per un istante di resistere alla rabbia che le stava montando in corpo e, avvicinandosi con un solo passo, afferrò il foglio e lesse quanto il suo amante aveva scritto fino a quel momento.

“Che significa questo?!” sbottò, rigettandogli addosso la missiva.

L'uomo non sapeva come difendersi. Non si era aspettato di vedersi arrivare lì la Sforza. Era certo che non l'avrebbe vista almeno fino all'alba. Così, l'unica cosa che seppe fare fu alzarsi e, allargando un po' le braccia, cercare di avvicinarla, senza dire nulla.

Caterina capiva le sue intenzioni. Stava cercando di distoglierla da quello che aveva visto e letto, le si proponeva, un po' come tante volte aveva fatto il suo Giacomo per appianare le loro divergenze.

“Perché non mi hai detto che sei ancora in contatto con lui? Perché non mi hai detto che gli scrivi ancora lettere senza farmele leggere?!” chiese lei, tenendolo lontano con uno spintone.

“Gli stavo solo scrivendo di com'è finita con Machiavelli... Io credevo che...” iniziò a dire lui, ma la donna non aveva alcuna voglia di sorbirsi scuse tanto insipide.

“Scrivi, scrivi pure al tuo Duca.” gli disse, tornando subito alla porta: “Ti dici tanto innamorato, mi dichiari la tua fedeltà, ma lo so benissimo che torneresti molto volentieri nelle schiere del Moro!”

“Ma io sono qui...” provò a schermirsi Pirovano, allargando di nuovo le braccia.

“Lo sappiamo tutti e due che cosa ti tiene qui.” commentò a voce bassa la donna, una mano già sulla maniglia e la testa che indicava il letto in modo significativo: “E, visto che è solo per questo forse faresti meglio ad andartene. Di donne ne troverai ovunque, non è necessario che tu resti qui.”

“Ma io voglio solo te.” ribatté il milanese.

Però la Tigre era già uscita in corridoio, mandandolo a quel paese con un paio di improperi particolarmente volgari e offensivi e così a Giovanni non rimase che finire comunque la lettera che stava scrivendo e aspettare che – come in fondo faceva sempre, con lui – la Leonessa lo perdonasse.

Solo quando fu all'altezza della camera di Giovannino, Caterina si rese conto di non aver poi preso la pozione. In quel momento, però, le interessava solo fino a un certo punto.

Mentre si sistemava accanto al piccolo Medici, che dormiva silenzioso, ancora sudato per il recente attacco febbrile, si trovò a pensare che aveva così tanta collera addosso che nessun figlio avrebbe potuto sopravviverle, quindi tutti gli altri accorgimenti le parvero momentaneamente superflui.

 

“Rispondi a questa lettera.” fece Caterina, arrivando davanti a Pirovano nella sala dei banchetti all'ora di colazione, brandendo una missiva: “L'hanno appena portata. Io l'ho già letta e adesso tu scriverai la risposta sotto mia dettatura.”

Giovanni, che stava intingendo un pezzo di pane nero nel latte caldo che aveva davanti, sollevò lo sguardo verso di lei e, poi, dopo aver lanciato uno sguardo a Galeazzo e Bianca, che stavano a poche sedie di distanza, chiese: “Posso sapere almeno cosa dice la lettera del Duca?”

“Nulla di interessante. Ci chiede uomini, ecco cosa. Vuole che tu mi faccia pressioni per mandargli più soldati, perché ha paura.” rispose la donna, abbassando un po' la voce.

Mentre i due figli – Bianca con maggior rapidità che non Galeazzo – tornavano a concentrarsi sul cibo che avevano davanti, la Tigre fece un cenno all'amante, affinché si alzasse in fretta e la seguisse.

Senza dirsi nulla, andarono a passo svelto fino alla camera da letto della Contessa e lì, non riuscendo più a trovare il coraggio di fare domande o commentare, Giovanni cominciò a scrivere sotto dettatura, come la sua signora gli aveva ordinato.

Dopo le prime righe, con cui si informava il Moro del fatto che le prime truppe fossero già partite e con ottimi comandanti a guidarle, il messaggio cominciò ad assumere un tono molto più deciso, quasi un tentativo – per il momento ancora blando – di scrollarsi di dosso Ludovico e le sue scomode pretese.

Tenendo a stento il passo con le parole che uscivano rapide dalle labbra della Leonessa, Pirovano scrisse: 'Quanto ali altri cinquanta balestrieri et hominidarme se vano mettendo in ordine, ma lentamente per la penuria del dinaro, senza li quali non credo che la S. V. li possa fare gran fondamento.'.

Dopodiché Caterina cercò di smorzare quella stoccata facendogli aggiungere che comunque lei, se avesse potuto, avrebbe fatto di tutto e di più, pur di aiutarlo. Rinnovava la sua dichiarazione di fiducia nei suoi confronti e di fedeltà, e poi lasciò intuire che avrebbe alla fin fine accettato la condotta fiorentina, anche a condizioni non ottimali, proprio perché in forte difficoltà economica.

Giovanni da Casale stava ormai firmando la missiva e così la Sforza, ritenendo già conclusa quella parentesi, andò al mobile per cercare la bottiglia con la sua pozione. Se quella notte si era dimenticata di prenderla, quella mattina era il suo pensiero predominante.

Tuttavia, quando finalmente la trovò, si ricordò di colpo di come, in effetti, l'avesse quasi finita. Ne restava appena un sorso. Si era completamente scordata di prepararne di nuova.

Tanto per arginare, bevve subito quel poco che ne rimaneva e poi, senza dire nulla al milanese, che le stava chiedendo se dovesse far partire la lettera immediatamente o se potesse attendere di accorparla a qualche altro messaggio, la donna lasciò la stanza, diretta alla sua spelonca da strega.

 

Arrivata nel suo laboratorio, la Sforza cominciò a radunare tutti gli ingredienti necessari, ma si frenò molto presto, accorgendosi dell'assenza di un paio di componenti estremamente importanti.

Cercò negli scaffali, raspò in entrambe le cassapanche colme di pacchetti e bottigliette con erbe ed essenze di ogni tipo, ma alla fine dovette ammettere la verità: le sue scorte avevano delle carenze che, in quel periodo tanto travagliata, non si era data pena di rimediare.

Grattandosi il collo, in difficoltà, la donna si chiese come fare per reperire in breve tempo quello che le serviva. Forse era un eccesso di prudenza, il suo, ma con una guerra alle porte, non voleva rischiare una gravidanza indesiderata e, anche se quello era un metodo di sicurezza non del tutto provata, le sembrava comunque meglio di niente.

Così, lasciati sul tavolo tutti gli ingredienti che aveva preparato, lasciò la spelonca. Voleva andare subito dal suo erborista di fiducia, Ludovico Albertini, per fare un ordine urgente. Dubitava, infatti, che in quella stagione avesse a portata di mano quello che le serviva.

“Mia signora!” le fece voce il castellano, incrociandola appena prima del cortiletto d'ingresso: “Vi stavo cercando per dirvi che i lavori al Paradiso stanno per...”

“Non ho tempo, adesso.” lo zittì Caterina, senza fermarsi, né tanto meno rallentare un po' il passo.

Cesare Feo non osò aggiungere altro, benché fosse certo che quella notizia avrebbe rallegrato abbastanza la sua signora. Era da tempo che la Contessa aspettava di vedere ultimate le porte della cittadella, e proprio quella mattina, quando sarebbero state incardinate, pareva avere di meglio da fare.

La Tigre attraversò quasi di corsa il ponte levatoio. Sentì battere l'ora dalle campane della chiesa vicina e si disse che doveva muoversi. Voleva tornare da Giovannino presto, perché quel giorno sembrava in via di miglioramento, e voleva essere accanto a lui, quando avesse ripreso conoscenza in modo pieno.

Giunse alla bottega di Albertini quando l'uomo ancora stava aprendo le imposte. Senza annunciarsi in alcun modo, la donna gli passò accanto, entrando nell'erboristeria mentre lui ancora toglieva i pannelli di legno dalla porta.

“Mia signora...” la salutò lui, seguendola dentro non appena ebbe finito il suo lavoro.

Senza tanti giri di parole, la Leonessa riferì il suo ordine e attese che l'erborista controllasse nella sua dispensa. Ci stava mettendo un tempo infinito e la Sforza sapeva a cosa fosse dovuto, quel ritardo tanto irritante. Le era chiaro che Ludovico non avesse quel che lei cercava, ma che stesse facendo finta di scandagliare fino all'ultimo ripiano, per farle capire che davvero era sprovvisto di quanto le servisse.

“Non perdete altro tempo, e fate partire l'ordine per i vostri fornitori, se voi non ne avete e non potete trovarne per conto vostro.” gli ordinò a un certo punto, stanca di vederlo affannarsi inutilmente.

L'erborista, allora, annuì e, prendendo il necessario per scrivere, si appuntò l'ordine, spiegando, con un filo di voce: “Potrebbero volerci anche due o tre giorni, però...”

“Appena avrete quel che mi serve, vi ordino di portarmelo alla rocca, fosse anche piena notte. Mi avete capita?” domandò la Contessa, puntando i suoi occhi verdi in quelli scialbi di Albertini.

Questi annuì e, portandosi una mano al petto, confermò: “Non vi farò perdere nemmeno un minuto, mia signora.”

Caterina sbuffò. Era un imprevisto che si era rifiutata di prendere in considerazione, ma doveva fare i conti con la realtà dei fatti. Non poteva che attendere e sperare che non fosse già troppo tardi.

Mentre la sua signora usciva, l'erborista riguardò il piccolo elenco di ingredienti che gli erano stati commissionati. Era un grandissimo estimatore dei rimedi della Tigre e riconobbe subito la pozione che sarebbe nata dall'insieme di quelle erbe, benché si trattasse solo di una misera porzione della ricetta.

Mordendosi il labbro, comprese l'ansia della Contessa e, richiudendo in fretta a due mandate la porta dell'erboristeria, con l'ordine in mano, corse subito a cercare un messaggero rapido, che portasse quella pagina tanto importante a uno dei suoi più affidabili e puntuali fornitori.

 

A dispetto di quanto si era attesa Caterina, Giovannino non aveva dato segni di concreto miglioramento.

Quando era tornata nella sua stanza, affiancandosi a Bianca, che continuava a detergere la fronte del fratellino con una pezza fresca, aveva capito subito di quanto la sua valutazione fosse stata troppo ottimista.

Era passato poi un giorno intero e stava scendendo di nuovo la sera. Il 31 luglio era alle porte, ormai, e il piccolo Medici era in condizioni critiche da una settimana.

“Andate a riposarvi...” disse piano Galeazzo, arrivando alle spalle della madre, quando ormai era scesa la notte: “Vi prego. Adesso tocca a me.”

La Sforza, che era rimasta più del solito accanto al suo ultimogenito – ritirandosi solo per mangiare qualcosa – si sentì improvvisamente così stanca da non riuscire a credere di essere in grado di stare ancora sveglia.

Ringraziò il Riario stringendogli un po' la mano e poi, con passo lento e un po' rigido, per via di tutte le ore di immobilità che aveva passato, raggiunse la porta. Prima di uscire lanciò uno sguardo alla stanza. Era avvolta in un'oscurità che nulla aveva a che fare con la notte appena iniziata.

Guardò Galeazzo sedersi accanto al fratello e sfiorargli la fronte con la mano, per poi sistemargli le pezze sui polsi. Malgrado tutto, si trovò a pensare la Contessa, Giovannino era fortunato. Anche se stava rischiando la vita, non era da solo. Oltre a lei, anche i suoi fratelli, specie Bianca, Galeazzo e spesso Bernardino, non perdevano occasione di fare la loro parte per stargli vicino e proteggerlo, per quanto era loro possibile.

Chiusasi la porta alle spalle, la Leonessa attraversò il corridoio cercando di risvegliare poco per volta i muscoli, facendo entrare aria fresca nei polmoni – benché in quella notte di fine luglio ci fosse tutt'altro che fresco – e si chiese come avrebbe gestito Giovanni da Casale, quella notte.

Si sentiva tesa come una corda di violino, temeva di finire a litigare, però aveva anche voglia di sentirsi abbracciare da lui, di dormirgli accanto, di lasciarsi per qualche ora cullare dal suo calore.

Più ancora che del cibo o del vino, era di quel tipo di conforto che aveva bisogno.

Tuttavia, la paura di non riuscire a trattenersi, di riversare addosso a lui, tutto sommato innocente, la sua frustrazione e la sua ansia, le fece decidere per una scorciatoia. In fondo, pensò, aveva bisogno di dormire, nulla di più. Poteva farlo benissimo anche da sola.

Così, arrivata davanti alla porta della sua stanza, fece ancora qualche passo e mise una mano sulla maniglia di quella della sua tana.

Stava per abbassarla, quando sentì la voce del castellano richiamarla. Si voltò di scatto, domandandosi cosa fosse successo di così importante da andarla a disturbare a quell'ora.

Il Feo, trovandosela davanti così trafelata, i capelli lunghi e bianchi che rilucevano in modo strano alla luce della torcia, per prima cosa abbassò il capo, in segno di rispetto e sottomissione e poi le disse: “Mia signora, vi stavo cercando per dirvi una cosa importante...”

“Se è per il portone del Paradiso, me l'hanno già detto oggi due balie.” tagliò corto la donna, desiderosa di andare a sdraiarsi.

“No, non quello, mia signora...” sospirò Cesare, sollevando lo sguardo verso di lei ed esitando quell'istante di troppo che le fece perdere la pazienza.

Rompendo il silenzio quasi irreale di quella notte con la sua voce, piena e potente come quando guidava i suoi soldati, la Sforza sbottò: “Per Dio! Parlate, Cesare, o giuro che vi taglio la gola da parte a parte!”

Il castellano deglutì e ribatté, veloce e cercando di non inciampare nelle proprie parole: “Mia signora, ci sono voci concrete di casi di peste nelle campagne. Si dice che un artigiano che è stato a Forlimpopoli da poco sia tornato stando poco bene e che nel giro di poche ore sia lui, sia la sua famiglia siano caduti ammalati e stiano morendo già del morbo nero...”

La reazione della Leonessa stranì non poco il Feo. Si era atteso di vederla gridare di nuovo, o di mettersi a correre chissà verso dove per porre rimedio a quell'occorrenza. Invece accolse le sue dichiarazioni con una perfetta immobilità.

Quella notizia, molto più concreta – almeno pareva – delle precedenti chiacchiere finite poi in nulla, aveva avuto il potere di svuotare tutto d'un colpo la mente di Caterina. Le sembrava quasi un accanimento gratuito del fato. Non bastava la situazione critica tra lei e Firenze, Milano a un passo dall'invasione, il papa che minacciava di spazzarla via, suo figlio in pericolo di vita e la spada di Damocle a cui la mancanza della sua pozione l'aveva sottoposta. Ci mancava solo la peste.

“Io...” sussurrò la Sforza, sentendosi come paralizzata.

Stava provando la stessa identica sensazione di attonita impotenza che l'aveva colta molti anni addietro, quando per la prima volta Tommaso Feo era andato a cercarla, per metterla in guardia su Zaccheo, allora castellano di Ravaldino. Si chiese se, anche adesso, con accanto un uomo come Tommaso avrebbe saputo prendere in mano la situazione e volgerla a suo favore.

Tommaso, però, era lontano e lei non l'aveva più avuto sua notizie, da quando era ripartito. Si sentiva sola, così profondamente sola da riprovare sulla pelle gli stessi brividi che l'avevano colta il giorno infausto in cui l'avevano venduta a Girolamo Riario. Nessuno sarebbe corso in suo aiuto, nessuno avrebbe alzato un dito per difenderla. Poteva solo cercare di difendersi da sola.

Cesare Feo ancora aspettava una sua reazione e stava quasi per aggiungere qualcosa, nel tentativo di smuoverla, quando la Tigre ruggì: “Domani farete andare il mio medico di fiducia e tutti i cerusici di Forlì a controllare questi ammalati e tutti i casi ritenuti sospetti. Se si tratta di peste, agiremo di conseguenza.” e, senza più guardare nemmeno per sbaglio il suo castellano, la donna entrò nella sua camera, abbandonando sul nascere l'idea di passare la notte da sola.

 

Nel buio della notte il lavorio dei soldati fiorentini faceva un rumore quasi spettrale. Perfino Paolo Vitelli, che pure aveva assistito decine di volte a operazioni come quella, non poteva sottrarsi al fascino un po' sinistro di quello spettacolo.

Erano le tre di notte. Stavano montando il campo. Ormai a pochissima distanza da loro si vedevano le mura di Pisa.

Tra loro e la città restava la torre di Asciano. E poi la rocca Staimpace. Paolo, di comune accordo con Ranuccio da Marciano, aveva deciso che per prima cosa avrebbero preso la torre, non appena fosse sorto il sole.

I suoi uomini stavano sistemando il campo, come tante piccole formiche. Non avevano acceso torce, era vietato ogni rumore che non fosse inevitabile. Anche se il Vitelli era sicuro che i pisani li avessero già visti, era fondamentale che i nemici non capissero quanti fossero davvero, né dove si stessero piazzando di preciso.

“Alle prime luci dell'alba.” gli ricordò Ranuccio, passandogli accanto.

Paolo annuì e gli puntò addosso gli occhi tondi, confermando: “Attaccheremo subito e non ho intenzione di fermarmi finché non sarà caduta.”

“Quella torre è davvero così importante?” chiese allora l'altro, mettendosi a stringere gli occhi nel buio, cercando di individuarla.

Vitelli trattenne un moto di indignazione. Si sentiva preso sottogamba, quando l'altro comandante faceva simili osservazioni. Era come se gli volesse far notare quanto le sue idee fossero ormai retrograde, troppo caute e per nulla adatte a un armigero del loro tempo.

“Le torri, come le rocche, sono il cuore della difesa di una città.” fece piano il comandante generale delle truppe fiorentine, posandosi una mano sull'elsa della spada e distogliendo lo sguardo dal suo commilitone, che, a sua differenza, vagava in abiti civili e non in armatura: “Prendiamo la torre e la rocca e prenderemo Pisa.”

Ranuccio fece un'espressione scettica, ma si tenne per sé i suoi pensieri. Fosse stato per lui, avrebbe sfondato le porte e da lì avrebbe preso con la forza i palazzi del potere e solo allora si sarebbe concentrato sulla torre e sulla rocca. Tuttavia, non era lui al comando.

“Conviene mettersi addosso un po' di ferro...” notò, con apparente vaghezza il Vitelli: “L'alba sarà qui presto e non aspetterò i comodi di quelli che devono ancora farsi vestire dai loro scudieri...”

L'altro incassò la stoccata con una smorfia che avrebbe voluto essere divertita e, borbottando tra sé, andò verso il suo padiglione – uno tra i primi a esser stato preparato – chiedendosi come accidenti avrebbe fatto a farsi preparare senza poter accendere nemmeno una candela di sego.

 
 
   
 
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