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Autore: Adeia Di Elferas    29/04/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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I colpi al corpo ormai senza vita che le stava davanti risuonavano sinistri e ovattati nella cella illuminata a giorno. Non vedeva nemmeno più il viso, tumefatto e distrutto dell'uomo che aveva ucciso, ma non le importava. Voleva solo colpirlo, sentirlo inerte, punirlo per quello che le aveva fatto.

La Tigre diede ancora un calcio alla carcassa che aveva ai suoi piedi e poi, con un gesto secco, rivoltò il cadavere per guardarlo meglio. Quando si accorse che invece del solito Ludovico Marcobelli, a essere caduto sotto i suoi colpi era stato il suo Giacomo, si svegliò di colpo e senza fiato.

Caterina si rigirò nel letto, la confusione che l'aveva colta nell'ultima parte dell'incubo appena finito che si mescolava con l'aria umida e calda di quella notte. Anche se avevano lasciato la finestra spalancata, quella camera assomigliava a un forno.

Si tolse con una certa noncuranza dalle braccia del suo amante. Anche il suo corpo caldo la infastidiva. Giovanni da Casale non si svegliò, andando avanti a dormire come un sasso. Quella sua propensione spiccata al sonno pesante, pensava la Sforza, avrebbe potuto essere un limite, in un soldato, ma a lei, in occasioni come quella, faceva comodo.

Sentiva ancora la sensazione viscida e sorda dei pugni che aveva dato nel sogno sulle nocche delle mani e, massaggiandosele lentamente, si chiese come potessero essere tanto vividi quegli incubi che la tormentavano da anni.

Cercava di scacciare dalla mente l'immagine terribile e abbruttita del suo Giacomo tumefatto e sventrato, con una gamba ridotta a sfilacci di carne e schegge d'osso, ma più si sforzava di pensare ad altro, più i ricordi del suo corpo ricomposto – per quanto era stato possibile – dai Battuti Neri la tormentava.

Con il respiro lento di Pirovano accanto a lei, si mise lentamente seduta e si prese il volto tra le mani. Mancava meno di un mese al quarto anniversario dell'assassinio del suo secondo marito. Se ci ragionava, le sembrava passato molto, ma molto più tempo.

Si voltò un istante verso il milanese. Era scoperto, prono, il viso in parte affondato nel cuscino e un braccio ancora proteso verso di lei. Si erano addormentati abbracciati, quella notte. Quando lei lo aveva cercato, rientrata dopo il rapido scambio di battute con il castellano, aveva chiuso tutto fuori dalla loro camera. Le preoccupazioni, le ansie e anche la rabbia, per quanto le era riuscito di farlo.

E così, passato il momento di passione, l'aveva voluto stretto a sé, a darle conforto e calore, e lui non si era fatto pregare.

Non gli aveva fatto cenno della pozione finita, né dell'ansia che quel fatto le aveva messo in corpo.

Non aveva voluto agitare anche lui, né rischiare di scatenare un litigio. Aveva solo bisogno di sentirlo vicino a lei. L'aspettavano giorni, settimane e mesi d'inferno, lo sapeva da tempo, e non poteva permettersi di perderlo.

Capì subito di non essere nelle condizioni di rimettersi a dormire. Anche se il consiglio del suo medico – e anche quello di sua figlia – era stato di riposarsi il più possibile, Caterina era certa di non poter fare meglio di così.

Si alzò in silenzio, controllando sempre che il suo amante dormisse ancora. Si prese un momento, prima di vestirsi, per guardarlo alla luce pallida della luna che passava dalla finestra aperta.

La sua schiena, chiara e muscolosa, le sue gambe forti, e i suoi capelli corti e neri la stavano quasi richiamando tra le lenzuola. Avrebbe potuto svegliarlo e reclamarlo per sé ancora una volta, ma non lo fece.

Infilò il suo abito di raso tanè e poi, colta da un'idea improvvisa, lasciò la stanza, sapendo benissimo dove dirigersi.

Attraversò la rocca quasi in punta di piedi. A parte le ronde sui camminamenti, sapeva che a quell'ora non c'era nessuno in giro, ma si mosse comunque come se dovesse stare attenta a non disturbare nessuno.

Passò accanto alla stanza del figlio. Fu tentata di entrare, ma poi lasciò perdere. Se fosse cambiato qualcosa, si disse, Galeazzo sarebbe subito corso ad avvisarla.

Così prese le scale, passò dal cortiletto e uscì, lasciando detto alle due guardie del portone che sarebbe tornata presto.

Passò il ponte levatoio, sentendo i suoi passi fare un rumore cadenzato e quasi rassicurante sul solido legno. Attraversò lo spiazzo, senza sollevare lo sguardo verso la statua di Giacomo e poi, pur prendendo la strada più lunga, arrivò infine al Paradiso.

Era una notte luminosa, e la Contessa fu grata per quella coincidenza, che le permise di far quel che doveva senza ausilio di torce o candele.

Tenne lo sguardo basso, più per non inciampare che per altro, finché non raggiunse il nuovo portone del Paradiso. Aveva dato disposizioni molto precise, per la sua decorazione e, finalmente, voleva controllare se fossero state o meno rispettate.

Con un sospiro, la donna sollevò lo sguardo e le labbra le si schiusero subito in un'espressione di meraviglia.

Un po' per le ombre immobili che sembravano scavare ancora di più nel legno e un po' per il clima quasi irreale che la circondava, la vista di quel che era stato intagliato nel portone la stregò per qualche lunghissimo minuto.

Nel centro, enorme, bipartito tra i due battenti, c'era il suo stemma, quello della sua famiglia: la vipera viscontea che aveva offerto la sua effige anche agli Sforza. Le spire erano state curate nei dettagli, il moretto, che si divincolava tra le zanne della bestia aveva un'espressione disperata, era praticamente perfetto e l'insieme dell'araldo mostrava non solo forza, ma anche sicurezza.

Con un calore nel petto che non provava da molto tempo, la Tigre si convinse ad abbandonare per un momento l'osservazione di quel primo – e più importante – stemma, passando a quello che stava alla sua sinistra.

La rosa d'oro dei Riario. Molto più piccola, più dimessa, decisamente meno sontuosa e suggestiva, ma aveva voluto che ci fosse. Al suo posto avrebbe preferito mille volte poter mettere un simbolo che ricordasse il suo Giacomo, se fosse esistito, ma quella rosa d'oro le serviva. Le serviva come l'aria che respirava, in quel frangente. Tutti dovevano ricordarsi che quelle terre, le stesse che Alessandro VI le aveva tolto sulla carta e che stava per strapparle anche con le armi, le erano state date da un papa.

Il prezzo di quella rosa d'oro lei l'aveva pagato da tempo, continuava, anzi, a pagarlo, e quindi voleva almeno trarne qualche beneficio. Le era costata troppo, per non sfruttarla come poteva.

Poi, dopo una brevissima esitazione, i suoi occhi verdi vagarono un istante nella luce diafana della luna e, alla destra dell'enorme stemma sforzesco, trovò le sei palle medicee.

Anche quelle dovevano essere viste da tutti. Giovanni non era stato solo un momento, la follia di una stagione. Era stato suo marito, era il padre del suo ultimogenito, era stato il suo secondo grande amore.

Anche se si trattava solo di uno stemma scavato in un portale di una cittadella, per Caterina era importante averlo lì. Era un po' come se il Medici fosse ancora al suo fianco, a combattere con lei.

Quella, pensò all'improvviso, era la maggior differenza tra il suo terzo marito e quelli che erano stati i suoi due amanti più importanti. Se Giovanni avrebbe combattuto con lei, fianco a fianco, alla pari, sia il povero Manfredi, sia Pirovano avevano invece sempre e solo combattuto per lei. Ai suoi ordini.

Per non lasciarsi andare a pensieri troppo cupi, la Leonessa diede un ultimo sguardo alla vipera che la rappresentava e si chiese cos'avrebbe detto suo padre, se avesse visto quello sfoggio delle sue origini.

“Mi avete voluto dare il vostro cognome – sussurrò la Contessa, tra sé – e io lo voglio difendere fino all'ultimo dei miei giorni.”

Sperando che quella dichiarazione potesse in qualche modo arrivare alle orecchie dell'uomo che l'aveva voluta legittimare, con tutti i pro e i contro di quella condizione, Caterina voltò le spalle al portone e, con passo lento e un po' restio, tornò alla rocca.

 

“Se vi foste arresi subito – disse Paolo Vitelli, fissando i sei uomini che stavano davanti a lui, inginocchiati e legati – sarebbe stato tutto più semplice.”

I pisani catturati non osavano alzare lo sguardo su di lui. La resistenza, in realtà, era durata molto poco. Subito dopo le primissime luci dell'alba, il comandante aveva dato ordine di attaccare la torre di Asciano e i difensori si erano arresi quasi immediatamente.

Gli unici che non avevano voluto abbassare le armi erano proprio i sei che aveva davanti. A modo suo, li ammirava per il loro coraggio e per la loro dedizione, tuttavia non poteva che ritenerli anche un po' degli sciocchi, per come stavano buttando via la loro vita.

“Tagliate loro le mani.” decise, non avendo voglia di procedere con un impiccagione di massa.

I sei condannati ebbero un moto di incredulità che li percorse come fossero stati un sol uomo. La loro vita era salva. Nessuno di loro si era atteso una simile dimostrazione di magnanimità dai fiorentini.

Tuttavia, com'è nell'umana natura, scampato il pericolo maggiore tutti e sei cominciarono a pensare alla pena a cui sarebbero andati incontro e così, nel giro di pochi istanti, si misero a gridare, a implorare, a piangere, a maledire e a bestemmiare.

Paolo si grattò un orecchio, distogliendo da loro i suoi occhi tondi e, dirigendosi verso una delle finestre che davano su Pisa, disse a Ranuccio, che stava poco lontano da lui: “La vista da questa torre è ottima. Appena ci arriveranno le bombarde, attaccheremo.”

L'altro annuì e poi, infastidito come non mai dalle grida dei sei prigionieri, chiese al Vitelli: “Ma perché non li facciamo uccidere e basta?”

“Non mi piace punire un uomo perché ha creduto fino in fondo in quel che faceva. Risparmiare loro la vita è un modo come un altro per rendere onore al loro coraggio.” rispose a voce molto bassa Paolo.

Ranuccio non riusciva a capire quella visione così filosofica della guerra. Per lui combattere significava o uccidere o essere ucciso e basta. Era chiaro che con il comandante generale aveva molto poco in comune.

Tuttavia sapeva di dovergli obbedienza e così, rifilando comunque un calcio di rabbia a uno dei prigionieri, esortò i quattro soldati che erano nella sala con loro gridando: “Avanti! Avete sentito il comandante Vitelli! Tagliate loro le mani!”

Paolo non si voltò, mentre sentiva il suono sgradevole delle ossa che venivano tranciate di netto. Si limitò a restare alla finestra, le braccia allacciate dietro la schiena e lo sguardo lontano.

Quando le urla di dolore dei condannati si affievolirono – come capitava sempre, quando si infliggeva quel tipo di pena – per lasciar il posto a un pianto dimesso e quasi senza forze, si girò e, scavalcando il sangue che copioso si era riversato in terra, ordinò: “Fermate loro il sanguinamento, che restino in vita. E poi cercate di ripulire...”

 

Caterina era stata la prima ad arrivare nella sala della Guerra. Era stato forse un po' fuori luogo, decidere di tenere quel tipo di Consiglio ristretto lì, ma era una delle ali della rocca che la Sforza amava di più.

Aveva deciso, infatti, di richiamare lì tutti gli uomini che avrebbero dovuto riferirle circa i sospetti casi di peste, e anche il Governatore e altri personaggi di spicco del governo che avrebbero dovuto appoggiarla e aiutarla in modo pratico a far fronte a un'eventuale nuova epidemia.

Per ingannare l'attesa, si mise a valutare la mappa d'Italia che stava sul tavolo centrale. Benché cercasse di concentrarsi sulle sue terre, l'occhio continuava a caderle su Milano. Il segnalino che portava il simbolo del re di Francia era stato posizionato appena fuori dal confine della città. Forse era troppo eccessivo, calcolando anche che Luigi aveva ordinato una momentanea ritirata ad Asti, ma era meglio essere pronti al peggio.

Mentre passava con attenzione in rassegna tutte le forze schierate in campo, la donna ricominciò involontariamente a pensare a guai di natura molto più personale.

Era passato da poco mezzogiorno e quel giorno le pareva che ci fosse ancor più afa del solito. La finestra era coperta da tende chiare, ma abbastanza pesanti da lasciar entrare la luce, ma poco calore, eppure anche nella sala della Guerra si respirava a fatica.

Lasciata la stanza di Giovannino, prima di recarsi lì, la Sforza aveva fatto un rapidissimo salto dal suo erborista di fiducia, ma le aveva detto che per quel che chiedeva servivano ancora un giorno o due.

Faceva del suo meglio per non pensarci. Si diceva che in altri periodi della sua vita, in assenza di pozioni e pur rischiando concretamente una gravidanza non voluta, le era sembra andata bene. Non era quindi il caso di abbandonarsi a facili allarmismi. Se era filato tutto liscio in passato, perché non poteva filar tutto liscio anche quella volta?

Accigliata, spostò di poco il segnalino di Firenze, avvicinandolo di più a Pisa. Sapeva che ormai doveva essere questione di giorni, se non di ore, prima che Vitelli scagliasse il suo attacco finale. La riteneva una mossa inutile, frutto di un orgoglio malato, che non avrebbe portato altro, alla Repubblica, se non spese e lutti. Ma non stava a lei giudicare le decisioni della Signoria.

“Non c'è ancora nessuno?” Giovanni da Casale era entrato tanto silenziosamente che, nel sentirne la voce, la Contessa quasi sussultò.

“Sono io che sono in anticipo.” tagliò corto lei, continuando a osservare la mappa.

Pirovano era per lei un motivo di tormento, in quei giorni. Una tentazione costante che l'aveva portata a rischiare anche quando non avrebbe dovuto.

Fosse stato come Giovanni Medici – ma, da quel lato, anche come Giacomo – non le sarebbe stato difficile parlargli in modo disteso delle sue preoccupazioni e spiegargli tutta la faccenda della sua pozione. Invece con Giovanni da Casale... Era sempre come se certi argomenti non si potessero affrontare.

Anche se dividevano il letto e anche se lui si era dichiarato più di una volta innamorato di lei, a loro mancava l'intimità necessaria per poter parlare di tutto.

“Prima ti ho vista rientrare... Dove sei stata?” chiese Giovanni, tanto per far conversazione, arrivandole accanto.

Al contatto con la spalla del suo amante, la Tigre si ritrasse in automatico e, molto sulla difensiva, rispose: “Non sono affari tuoi.”

Avvertendo una tensione diversa dalla solita indisponenza della Leonessa, Pirovano si arrischiò a domandare: “Stai bene?”

“Io non voglio mandare mai più mio figlio Ottaviano a Loreto.” disse piano lei, seguendo il filo dei suoi pensieri, poco interessata a far sì che il milanese la capisse.

“Come?” chiese infatti subito l'uomo.

“Non voglio più dover rimandare Ottaviano a Loreto, come l'altra volta.” ribadì lei, passandosi una mano sulle labbra, sapendo che il suo amante non si sarebbe accontentato di quella misera frase, senza capirne il significato.

Ormai aveva gettato il sasso e non voleva nascondere la mano. Avevano un po' di tempo, prima che arrivassero gli altri ed era il momento giusto per provare a parlargli.

“Non capisco... Spiegati, ti prego.” fece Giovanni, facendosi più serio, subodorando qualcosa.

Aveva sentito parlare del pellegrinaggio del Riario a Loreto e aveva avuto modo di vagliare tutte le chiacchiere che lo riguardavano. Si erano attribuiti a quello strano viaggio i più svariati significati, dalla richiesta alla Madonna di un aiuto economico al tentativo di esser perdonata per la strage del 1495, ma Pirovano, in fondo, non ne aveva ritenuto corretto nemmeno uno.

“L'avevo mandato perché temevo di aspettare un figlio da Manfredi.” spiegò allora la Sforza: “Ne avevo il terrore. Non voglio passarci di nuovo.”

Con un brivido gelido lungo la schiena, Pirovano sussurrò: “Ma pensi di..?”

“Io non penso nulla.” lo zittì subito la donna, fronteggiandolo, dando sfogo all'ansia nel peggiore dei modi, ovvero con l'aggressività: “Ma ho finito la mia pozione e...”

“Non te ne sei fatta una nuova bottiglia?” chiese lui, con ovvietà.

“Non avevo ingredienti, perché l'ultima volta ne ho finiti un paio...” fece lei, adirandosi poi di nuovo, nel vedere l'espressione del suo amante, che tutto sembrava, fuorché comprensiva: “E sono giorni che non la prendo! E anche stanotte... Tu..!”

“Ti ricordo che sei tu quella che mi cerca di continuo.” si schermì Pirovano, alzando entrambe le mani, come a prendere le distanze da ogni possibile responsabilità diretta.

“Sì, ma se tu...” iniziò a controbattere la Tigre.

“Sei sempre tu quella che lo vuole..!” provò a inveire l'uomo, ma anche quella volta fu la Sforza a gridare di più.

“Devi solo stare zitto! Se sono in questa situazione, la colpa è tua!” l'aggredì: “Se non fosse per te..!”

“Quindi sarebbe davvero così grave – si aizzò allora il milanese sentendosi toccare in un punto così sensibile da non averne mai davvero discusso con la sua donna – se ti trovassi ad aspettare un figlio da me?!”

Scaldata dalla voce alta di Giovanni e dal suo inatteso attacco, la Contessa ribatté: “Sì, eccome se lo sarebbe! Io non ne voglio, figli da te! Né oggi, né mai!”

“Ebbene – fece allora lui, allargando un po' le spalle, il viso che si arrossava sotto la barba nera, un po' per la vergogna per la propria intraprendenza nel parlare e un po' per la delusione di quel rifiuto tanto netto e rabbioso – se non vuoi rischiare di aver figli, dovresti imparare a tenere le cosce chiuse!”

Caterina sollevò una mano, pronta a colpirlo, ma dalla porta entrò il Governatore Ridolfi e così il braccio della donna restò a mezz'aria, per poi abbassarsi lentamente.

Simone aveva sentito solo l'ultima parte del discorso, e, per quanto abbastanza in imbarazzo, aveva deciso di entrare per farli smettere. Arrivando alla Sala della Guerra aveva infatti visto come anche altri partecipanti al piccolo Consiglio stavano per giungere al piano, e quindi voleva evitare alla Sforza di fare una scenata in pubblico, quale che fosse il motivo.

Pirovano e la Leonessa si stavano ancora fissando con lo sguardo pieno di rancore e delusione. Per motivi diversi, si stavano chiedendo che cosa li portasse a cercarsi ancora l'un l'altro, e nessuno dei due, in quel momento, riusciva a trovare una risposta.

“Contessa...” cominciò a dire il Governatore, schiarendosi la voce, nel disperato tentativo di smorzare, prima dell'arrivo degli altri, la tensione che si era creata: “Ho saputo che state decidendo chi mandare a Firenze come vostro portavoce presso la Signoria, per contrattare il Beneplacito per vostro figlio Ottaviano.”

“E quindi?” chiese la Tigre, spostando finalmente lo sguardo dall'amante al fiorentino.

“E quindi – rispose Simone, le mani lungo i fianchi e gli occhi sfuggenti a indicare tutto il suo disagio per quella situazione – volevo dirvi che io a Firenze ho ancora delle conoscenze e che forse potrei riuscire a mettere una buona parola con Lorenzo e arrivare a ottenere per voi un buon compromesso.”

L'idea era tutt'altro che malvagia, e la Sforza, probabilmente, in un altro frangente avrebbe accettato di buon grado. Anzi, si chiese come avesse potuto non pensarci da sola fin da subito.

Però la collera che le faceva ribollire il sangue e la spinta dell'istinto, capace di renderla impulsiva come la belva feroce che tutti descrivevano, le fecero dire: “No. Ho già deciso chi mandare.”

“Posso sapere di chi si tratta..?” domandò Ridolfi, accigliandosi.

Parlandone anche con Numai e con il castellano, si era convinto che la Contessa fosse ancora in alto mare, nella scelta di un ambasciatore temporaneo da mandare a Firenze. Sentirla ribattere con tanta sicurezza, quindi, l'aveva sorpreso e non poco.

“Sì.” annuì lei, e poi, indicando con l'indice Giovanni da Casale, decretò: “Mando lui.”

Il milanese sbiancò all'istante. Quella decisione cadeva come un fulmine a ciel sereno, per lui. Era una punizione, questo gli era chiaro. Non capiva bene per che cosa, ma era così. Però temeva che potesse rivelarsi un malus anche per la sua amante. Lui non era un diplomatico, non era mai stato adatto alle trattative. Era bravo con una spada in mano, in sella a un cavallo, ma la via delle parole non era mai stata la sua strada prediletta.

Finalmente stavano entrando i primi partecipanti al Consiglio, in testa il medico personale della Leonessa e i cerusici che l'avevano seguito nell'ispezione dei casi sospetti di peste.

Caterina, allora, fece del suo meglio per sbollire e, fingendo di essere intenta a ricontrollare un'ultima volta la mappa d'Italia, sibilò a Pirovano: “Dovrai essere pronto tra un giorno o due al massimo. Più tardi ti spiegherò meglio cosa dovrai fare.”

“C'erano altri modi per punirmi, se è questo che volevi.” sussurrò di rimando l'uomo, mentre la sala cominciava a riempirsi.

“Io non voglio punirti. Voglio tenerti lontano per un po'. È una cosa diversa.” rimbeccò lei, senza guardarlo.

Giovanni, a quel punto, rinunciò a capire e poi, con uno sbuffo, le chiese: “Devo restare per questa riunione o posso andare dai soldati?”

“Fai come ti pare.” soffiò lei, appena udibile.

L'uomo fu tentato, allora, di lasciarla al suo destino, dato che pareva così desiderosa di allontanarlo da sé. Poi, però, pensò che sarebbe stato un segnale più forte restare e così, con il volto grigio e la fronte aggrottata, si mise nel suo angolo, in attesa che il Consiglio cominciasse a discutere.

 

Lorenzo Medici guardava Niccolò Machiavelli con una sorta di broncio inveterato che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa.

Il Segretario di Stato, tornato quel giorno a Firenze, dopo un viaggio disagevole e troppo lungo, per i suoi gusti, aveva prima di tutto riferito ogni cosa alla Signoria e poi, come da accordi presi prima della sua partenza alla volta di Forlì, si era recato al palazzo in Via Larga, per riportare dettagli molto diversi, da quelli che aveva esposto al Palazzo Vecchio.

Tuttavia la reazione del Popolano lo stava spiazzando. Gli aveva raccontato, ovviamente, della straordinaria organizzazione militare dello Stato della Tigre, magnificando, suo malgrado, la sua efficienza e l'ordine, che lasciava veramente stupiti, se si pensava che la maggior parte di quei soldati erano solo contadini strappati ai campi.

Poi era passato a descrivere i grandi lavori di fortificazione che la donna stava facendo sia lungo la cinta muraria cittadina, sia alla cittadella che tutti chiamavano Paradiso.

Infine, poi, evitando di mostrarsi troppo scottato dagli scontri verbali avuti con la Tigre, aveva fatto cenno alla malattia del piccolo Giovanni, spiegando anche come la Contessa avesse addirittura rifiutato di incontrare lui, pur di seguire la salute del piccolo.

Proprio su quel punto il Medici si era come spento. I suoi occhi bovini si erano fatti più appannati e le sue labbra, già incurvate da una naturale smorfia perennemente insoddisfatta, si erano incrinate ancora di più.

In tutta sincerità, Niccolò non capiva se la notizia della malattia del nipote avesse addolorato o meno il suo interlocutore.

“E fanno il caso pericoloso di morte?” chiese Lorenzo, come risvegliandosi, dopo qualche minuto di silenzio.

“Sì.” confermò Machiavelli, che avrebbe tanto voluto poter andarsene a casa.

Era stanco, si sentiva ancora impolverato e sudato dal viaggio, e cominciava ad avere una fame incredibile. Desiderava solo poter mettere i piedi sotto al tavolo e riempirsi la pancia.

Era stato tanto il sollievo, nel rivedere il profilo della sua Firenze, dopo quelle settimane d'inferno, che non aveva avvertito la fame fino a quel momento. La gioia di essere di nuovo a casa aveva confuso tutto il resto.

“Allora bisogna far in fretta...” commentò tra sé il Popolano, alzandosi dalla scrivania e incrociando le braccia sul petto.

Niccolò non fece domande. Fondamentalmente non gli interessavano i progetti del Medici. Voleva solo farsi strada nel governo e sapeva che ingraziarsi un uomo come Lorenzo poteva fargli comodo.

“C'è altro?” chiese quest'ultimo, con un sospiro.

“Direi di no, messer Medici. Il piccolo Giovannino ha queste febbri, di cui nessuno capisce le origini e niente di più.” ribadì il Segretario di Stato.

Giovannino..!” sbuffò il Popolano, con la voce graffiata dalla stizza: “Ludovico. Così l'ha chiamato quella strega. Ludovico. Come quel maiale di suo zio. Adesso lo vuol far chiamare come mio fratello solo per convincere tutti della sua buonafede. Come se potesse davvero essere certa che quello è figlio di mio fratello, con tutti gli uomini che sono passati per il suo letto..!”

Niccolò non disse nulla. Quel discorso non gli piaceva. Il tono del Medici non gli piaceva. Non voleva più parlare della Sforza, non voleva più aver nulla a che fare con lei.

Però voleva far carriera. Il fine giustificava i mezzi. E quindi fece un sorriso il più possibile affabile e chinò un po' il capo.

“Messer Medici – gli disse, accomodante – sono sicuro che saprete usare questa informazione a vostro vantaggio. Certo che mi pare strano, che la Tigre di Forlì non vi abbia scritto per informarvi della condizione in cui versa il piccolo...”

Aveva volutamente detto 'Tigre di Forlì' e non 'vostra cognata' al solo scopo di non adirare di più il suo interlocutore.

Inconsciamente Lorenzo apprezzò quella finezza e così parve rabbonirsi un po'. Pescò una moneta dalla tasca del suo giubbetto e la porse a Niccolò.

“Tenete, Macchia...” gli disse, non resistendo alla tentazione di chiamarlo di nuovo con il suo vecchia soprannome: “Per il vostro disturbo.”

Il sorriso sul volto di Machiavelli si irrigidì, ma prese comunque la moneta e ringraziò. Solo quando si trovò fuori dal palazzo dei Medici, sotto il sole infuocato di quel primo giorno d'agosto, ebbe il coraggio di dire quello che pensava.

“Una moneta. Come fossi un mendicante...” borbottò, mettendosi in marcia, diretto, finalmente, verso casa: “Maledetti Medici, rovina della nostra Firenze...”

 
 
   
 
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