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Autore: Adeia Di Elferas    30/04/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina tornò in camera assieme a Pirovano, non appena la riunione del Consiglio poté dirsi conclusa.

Sentiva ancora nelle orecchie le parole grevi del suo medico, che assicurava, senza ombra di dubbio alcuno, come il morbo da lui visto non potesse essere altro che peste.

La paura aveva subito cominciato a serpeggiare nella Sala della Guerra, e la Sforza aveva capito fin da subito che un'epidemia sarebbe stato un nemico ancor più ostico dei francesi, se avesse permesso alla peste di spargersi in tutto il suo Stato.

“Avanti, devo fare in fretta, tra mezz'ora mi devo incontrare con Ridolfi e con il capo dei magistrati Tornielli.” fece la Tigre, lasciando che Giovanni da Casale entrasse per primo in camera: “Ti spiegherò un paio di cose veloci e poi ne discuteremo meglio domani.”

Il milanese non aveva in realtà alcuna voglia di prendere lezioni su cosa dire e cosa non dire quando sarebbe stato a Firenze. Non ci voleva andare, per nessun motivo, a Firenze. Solo l'idea gli dava la nausea. Voleva stare lì, a Forlì, accanto alla sua amante, aiutandola di giorno e amandola di notte, come aveva fatto da quando era tornato in città dopo la morte di Manfredi.

Allontanarsi era per lui peggio di una condanna. Mentre al Consiglio si parlava di peste e morte, lui non aveva fatto altro che interrogarsi su cosa ne sarebbe stato di lui, se Caterina fosse morta di peste mentre lui era a Firenze. Non voleva nemmeno figurarsi l'eventualità, ma sapeva che poteva accadere.

Di contro la Leonessa non avrebbe avuto alcuna voglia di istruire Pirovano riguardo l'ambasceria che avrebbe fatto di lì a pochi giorni, ma sapeva che non c'era tempo da perdere.

Avrebbe presto incontrato Simone Ridolfi e Nicolò Tornielli per organizzare assieme a loro tutte le strategie possibili per difendersi dalla peste. Poi sarebbe dovuta tornare da suo figlio Giovannino, perché era ancora critico e non avrebbe sopportato di saperlo morente mentre lei era impegnato in altro. Quindi doveva sfruttare quei pochi minuti per cominciare a dare un'idea a Giovanni di come gestire il suo viaggio a Firenze.

Fece sedere il milanese sul letto e, cominciando a camminare nervosamente avanti a indietro, gli riassunse in breve quale fosse la sua idea. Aveva capito, ormai, che il più grande scoglio da superare fosse Lorenzo Medici. Spiegò a Pirovano quanto fosse sì importante fare discorsi chiari e precisi alla Signoria, ma come fosse altrettanto vitale cercare un piano di intesa con il Popolano.

“Comunque – concluse, sentendo risuonare le campane e rendendosi conto di aver sprecato più tempo del previsto – domani ti dirò meglio i dettagli. Adesso devo andare, che mi aspettano...”

La donna aveva già girato i tacchi ed era quasi alla porta, quando Giovanni, alzatosi in fretta dal letto, la prese per una mano, cercando di fermarla: “Aspetta...” le disse.

La Sforza non capì il suo tono. Le sembrava da un lato che la volesse indurre a restare semplicemente con lui ancora un po', e dall'altro che volesse dirle qualcosa di importante.

Il modo in cui la guardava le fece quasi venire voglia di rimangiarsi il suo ordine e tenerselo accanto, a qualunque costo. La tentazione, però, svanì non appena avvertì la mano di lui stringere la sua appena più forte. In quella presa salda, accorata, la donna lesse una richiesta a cui non voleva dare una risposta affermativa. Pirovano le stava tacitamente domandando di non farlo partire e Caterina si conosceva troppo bene, ormai, per non sapere che, se avesse fatto come voleva lui quella volta, si sarebbe trovata a cedere sempre. Dopo quello che le era successo con Giacomo, che si era rovinato per colpa della sua eccessiva permissività, non poteva permettersi di cadere di nuovo nello stesso errore.

Siccome l'uomo non si risolveva a spiccicar parola, la Contessa dopo qualche istante lo liquidò con un freddo: “Non ho tempo.” e se ne andò.

 

Bianca aveva capito che dovesse essere successo qualcosa di grave, perché, mentre raggiungeva la camera del fratello Giovannino, aveva visto una piccola processione di uomini di fiducia di sua madre raggiungere la Sala della Guerra e poi uscirne tutti confabulanti e agitati.

Aveva subito pensato a qualche fatto bellico degno di nota, ma poiché si era accorta che Galeazzo non era stato chiamato in causa, ma era stato lasciato tranquillamente nel cortile a tirar di spada, aveva cominciato a credere che si dovesse trattare di qualcos'altro.

Aveva lasciato la stanza del piccolo Medici relativamente da poco, per un piccolo bisogno fisiologico, lasciando di guardia al malatino la balia. Il piano era di tornare al suo posto subito, ma, uscita dallo stanzino di servizio, aveva intravisto la madre entrare nello studiolo del castellano e così, mossa da una curiosità tutt'altro che frivola, aveva fatto qualche passo e, piazzandosi vicino alla porta lasciata socchiusa, si era messa ad ascoltare.

“Quindi ci state dicendo che noi dovremmo girare in mezzo agli appestati?” stava chiedendo la voce di Simone Ridolfi, resa acuta dall'incredulità.

“Voi siete il Governatore e messer Tornielli il capo dei magistrati.” gli ricordò a quel punto la Contessa, il cui tono un po' abbattuto mise in allarme la Riario: “Questo è uno dei compiti che vi spettano.”

“Sono pienamente d'accordo.” disse subito Nicolò, senza esitare.

Il Governatore, invece, doveva aver fatto un'espressione inequivocabile, perché Bianca sentì la madre attaccarlo: “Vi ho già detto una volta che fare il Governatore non vuol dire solo partecipare ai banchetti e girare per la città con addosso begli abiti!”

L'uomo borbottò qualcosa di rimando e, forse paga di quelle parole farfugliate, la Tigre si mise a elencare alcune norme igieniche che già in passato avevano evitato ai suoi sudditi di subire più perdite del necessario.

La Riario ascoltava con attenzione, sia per ricordarsi bene quelle disposizioni, sia per capire quanto fosse grave la situazione. Un'epidemia di peste agli esordi era sempre una condizione difficile da gestire.

Passò almeno mezz'ora, e poi finalmente la Leonessa tacque e chiese se ci fossero domande. Né uno né l'altro interlocutore disse nulla e così la Sforza si apprestò a sciogliere quel ristrettissimo consesso.

“Mi promettete quindi entrambi che mi darete una mano, in questa cosa?” chiese alla fine la donna, la voce un po' arrochita: “Sapete che di norma sono sempre in prima fila, in questi casi, ma con mio figlio in quello stato e con la guerra, potrei non avere abbastanza tempo da dedicare a questa peste.”

“Certamente, mia signora. Potete contare su di me.” fu la pronta risposta di Tornielli.

“Temo che la peste, se colpirà anche in città, distoglierà tutti dalle altre occupazioni, perfino voi, mia signora.” fece invece Ridolfi, pungente.

“Se sarà così – lo zittì la Tigre – allora mi rimboccherò le maniche e mi troverò indaffarata almeno quanto voi, Governatore.”

Bianca poi sentì la madre congedare il capo dei magistrati e così, per evitare di essere notata, corse silenziosamente all'alcova più vicina e vi si nascoste.

Andato via Tornielli, dato che la Sforza e Ridolfi non uscivano dallo studiolo, la Riario si arrischiò a riavvicinarsi alla porta, lasciata sempre socchiusa.

“Vi tengo d'occhio, Simone, e non tollerò che mi parliate con tanta disinvoltura quando ci sono altre persone a sentirvi.” stava dicendo la Contessa.

Ridolfi fece uno sbuffo di rimando e poi esclamò: “Perdonatemi, mia signora, ma mi state dando di voi un'immagine che fatico a rispettare!”

la ragazza sentì l'uomo aggiungere qualcosa, ma a voce troppo bassa per poter capire che cosa. Il silenzio che seguì indusse Bianca a tendere ancora di più l'orecchio e proprio per questo si trovò a fare un salto sul posto, quando, di punto in bianco, sentì la Tigre gridare: “Attento a voi! Siete a un passo dall'essere portato nelle segrete!”

“Perché?!” ricambiò il grido il Governatore: “Perché dico la verità? Oh, avanti! Mio cugino Giovanni è morto da meno di un anno e voi avete paura di essere incinta di un altro! E non è nemmeno la prima volta che vi capita! Anche con Manfredi, quando...”

Il suono schioccante che seguì fece capire benissimo alla Riario cosa fosse successo. Poteva quasi vedere con i suoi occhi il Governatore, un uomo grande e grosso, portarsi una mano alla guancia arrossata dove pochi istanti prima era arrivato, inatteso e implacabile, uno schiaffo della sua signora.

“Non sono affari vostri, questi.” chiarì la Leonessa, quasi ringhiando: “Se oggi avete sentito delle cose che non dovevate sentire, fareste meglio a dimenticarle. E salutatemi vostra moglie Lucrezia, sempre che abbia tempo per leggere le vostre lettere, tra un fittavolo e l'altro.”

Bianca vide la porta spalancarsi ancora prima che si fosse resa conto che la madre stava lasciando lo studiolo.

Caterina, nel trovarsi faccia a faccia con la figlia, non riuscì a trattenere un moto di rabbia ed esclamò: “E tu non dovresti essere da tuo fratello?!”

La Riario non se lo fece ripetere e, sperando che quell'episodio non lasciasse strascichi di nessun tipo, sollevò appena il bordo della sottana e con un passo tanto svelto da poter essere considerato una vera e propria corsa, si allontanò, diretta alla stanza di Giovannino.

 

Lucrecia diede in una risata nervosissima e quasi ossessiva, come non faceva altro che fare da quella mattina presto.

Tutti, quando le riferivano che suo marito non si trovava e che il papa aveva mandato le sue guardie a cercarlo, la guardavano straniti, vedendola reagire a quel modo.

La Borja, però, aveva deciso di mantenere quella linea e quella avrebbe mantenuto: mostrarsi come oltraggiata e allo stesso tempo divertita, per come anche quel marito fosse fuggito da lei come si fugge da un mostro.

“Sono qui disarmata e debole – disse anche alle due dame di compagnia che le avevano parlato, esattamente come diceva a tutti – eppure par che gli uomini abbiano paura più di me che del Diavolo!”

Forse era un tentativo molto infantile, ma sperava, in quel modo, che tutti la credessero estranea ai piani di Alfonso. Doveva fare di tutto per indurre suo padre a crederla una vittima e non una complice, o non avrebbe saputo gestire la pressione che lui sarebbe stato capace di metterle addosso.

“Venite, presto!” esclamò un'altra ragazza che Lucrecia teneva nel suo codazzo di dame: “Il papa..!”

Nell'udire quel tono sconvolto, la Borja sorpassò tutte quante, correndo di stanza in stanza, verso il punto indicato dalla giovane.

Già prima di arrivare, sentendo le grida del padre, rallentò la sua andatura, avvicinandosi con maggior cautela e facendo segno alle altre di stare al loro posto. Non voleva che irrompessero come un esercito alla carica. Prima voleva capire che cosa stesse accadendo.

“Ebbene – stava sbraitando Rodrigo, vestito di bianco, già pronto per gli offici di quella mattina, ma evidentemente bloccato da quell'incresciosissimo inconveniente – se il re di Napoli non vuole lasciare le sue cose presso il papa, allora il papa non vuole le cose del re in casa sua!”

Lucrecia si era appena affacciata al salone e vide subito Sancha, quasi in lacrime, di fronte al Santo Padre e, tutt'attorno, una dozzina di porporati, tra cui spiccavano Raffaele Sansoni Riario che, con le mani giunte e gli occhi chiusi, sembrava in preghiera, e il cugino, Cesare Riario, dall'espressione cupa come sempre e dallo sguardo torvo e giudicante.

“Ognuno si tenga i suoi!” concluse Alessandro VI, sollevando imperioso una mano e indicando l'Aragona come se stesse per lanciarle un anatema: “Che si predisponga affinché questa napoletana riparta oggi stesso per tornare alla sua terra! Non intendo averla in questa santa casa per un giorno di più!”

Andandosene con uno scalciare di sottovesti, il papa lasciò il salone in un attonito silenzio. Poi, come se qualcuno avesse mollato le redini di un cavallo imbizzarrito, si scatenò la confusione.

I religiosi presenti cominciarono a vociare, due delle guardie che stavano accanto alla porta raggiunsero Sancha, prendendola da parte e parte, accompagnandola verso l'uscita e a Lucrecia non restò che correre via.

Schivando le sue dame di compagnia e le loro domande inutili, arrivò fino alla sua camera e si chiuse dentro, con tutte le mandate possibili e poi, con il cuore che correva, andò a sedersi sul letto, prendendosi la testa tra le mani.

Era cominciata, alla fine. Il colpo di testa di suo marito aveva fatto cadere la maschera. Alfonso aveva ragione: il papa voleva distruggere anche i napoletani e cominciava allontanando Sancha da Roma, per punirla.

Lungo la via, cominciò a ragionare Lucrecia, avrebbe potuto capitarle di tutto. Non voleva pensarci, ma conoscendo suo padre, era inevitabile prendere in considerazione anche quell'aspetto della sua cacciata.

Deglutì e si mise a ragionare. Voleva vederla, prima che partisse, e metterla in guardia. Sancha non le era mai piaciuta molto, ma non poteva lasciarle correre un simile rischio. Era pur sempre la sorella del suo Alfonso. Aveva il dovere di proteggerla.

Se solo fosse partita subito anche lei, invece di fare tanto l'orgogliosa...

 

“Non lo so, mia signora...” fece vago il medico, sfiorando di nuovo la fronte del bambino e poi tastandogli il polso: “Mi sembra che non stia meglio, anzi...”

“Sta peggiorando?” chiese Caterina, con tono di voce piatto.

Il sentirsi del tutto incapace di aiutare Giovannino la stava facendo sentire la madre peggiore del mondo. Stava scendendo la sera anche su quel 2 agosto e il piccolo Medici aveva avuto più attacchi febbrili del normale.

La Contessa, fin dal primo mattino, pur avendo passato con lui già l'intera notte, non gli si era mai allontanata. Aveva avuto troppa paura, per farlo. Il ricordo, viziato forse anche dal caldo evocativo di quei giorni, della morte di Livio, alla quale era seguita nel giro di poche ore anche quella di sua madre Lucrezia, la stava quasi facendo impazzire.

Non voleva ammettere nemmeno con se stessa che, forse, l'ultimo filo di vita che la univa al ricordo di Giovanni stesse per spezzarsi.

“Nulla è perduto, mia signora...” provò a sollevarla un po' il dottore, occhieggiando anche verso Bianca che, solerte, era arrivata in camera da un paio d'ore e aveva tutta l'intenzione di vegliare per l'intera notte: “Però dobbiamo essere cauti. Lo state sempre nutrendo? Ha la lingua un po' secca...”

La Sforza provò a parlare, ma la voce non le uscì. Era così immersa nei suoi pensieri da avere la gola stretta da un nodo serrato.

Così fu la Riario, alle sue spalle, a rispondere per lei: “Sì, sempre il miele e qualche goccia di latte, ma ormai sono troppi giorni che andiamo avanti così... Ma non riusciamo a fargli prendere di più, nemmeno quando non scotta per la febbre.”

“Il problema vero potrebbe essere questo...” si mise a ragionare a voce alta l'uomo: “Preparategli più latte e metteteci tutto il miele che si può, a patto che resti abbastanza liquido da poterglielo mettere in bocca senza che lo faccia soffocare. Continuate a dargliene, anche se dà segni di insofferenza.”

La ragazza annuì, mentre la Tigre, distante come se non fosse lì, fece solo un sospiro.

Il medico, a quel punto, si scusò e se ne andò, lasciando le due donne da sola. Bianca, prima di dire qualcosa alla madre, andò a chiamare la balia e riferì l'ordine del dottore. Tornata poi in camera, posò una mano sulla spalla della Contessa e si schiarì la voce.

“Non ha senso che restiate qui in questo stato. Ci penso io. Se succede qualcosa, vi manderò subito a chiamare.” le propose e la donna, senza opporsi, si alzò e se ne andò, dopo aver dato un rapido bacio alla fronte calda del figlio.

La Sforza arrivò nella sua camera quando Giovanni da Casale ancora non dormiva, per quanto fosse già a letto. Gli si mise accanto senza dire nulla, così stanca da non aver nemmeno la forza di svestirsi.

Pirovano, nel vederla tanto provata, provò una sensazione strana. Non era la Tigre feroce e indomita a cui era abituato. Era pesta, distrutta, tanto abbattuta che per un istante l'uomo temette che Giovannino fosse morto.

“Non migliora.” sussurrò poi lei, sollevandolo da quel dubbio, come se gli avesse letto nel pensiero: “E io non so che fare.”

Allora Giovanni fece un respiro profondo e, cingendola con un braccio, la strinse a sé e, lasciando che lei affondasse il suo viso contro la sua spalla, le disse solo: “Stai facendo tutto quello che puoi.”

 

Alfonso sentiva il cavallo che correva sotto di lui cominciare a perdere i colpi. Era dall'alba che galoppava ed era sorprendente che non avesse ceduto prima.

Lui e una misera scorta – tutti uomini fedelissimi e pronti a tutti – non si erano fermati praticamente mai, solo una volta, per non far morire di fatica le loro bestie. Avevano aspettato di avere un distacco notevole dai pontifici, e poi, appena avevano risentito l'ansia dell'inseguimento montare, si erano rimessi in sella.

Quel 2 agosto stava per volgere al termine e l'Aragona era stremato. Non aveva toccato cibo, aveva bevuto solo qualche sorso d'acqua, quando si erano fermati al fiume per far bere anche i cavalli, e la paura di essere preso e ucciso l'avevano ridotto a un fantasma.

Non voleva altro che vedere le porte di Genazzano. Confidava, come uno dei suoi soldati aveva ipotizzato, che gli sgherri di suoi suocero li avessero persi di vista almeno da qualche ora e che, quindi, non sapessero dove stessero andando.

Malgrado ciò, pensava Alfonso, non ci sarebbe voluto molto, per capire che le terre dei Colonna sarebbero state per lui un ottimo appoggio, prima del ritorno a Napoli.

Quando finalmente vide in lontananza la cinta muraria di Genazzano, si permise di sentirsi salvo.

Li stavano aspettando. La fitta rete che l'Aragona aveva intrecciato – malgrado la ritrosia e quasi l'ostilità di sua sorella Sancha, che si era a un certo punto del tutto disinteressata a quella fuga, decidendo definitivamente di rimanere a Roma – aveva funzionato.

Alfonso lasciò che fossero gli uomini del suo seguito a spiegare, a prendere accordi, a mostrare i loro documenti, e poi, non appena venne scortato in un palazzo, non avrebbe nemmeno saputo dire di chi, chiese che gli venisse portato del cibo, una bacinella d'acqua per rinfrescarsi e il necessario per scrivere.

Rimasto solo, in attesa che gli portassero quanto gli serviva, si sistemò su un divanetto imbottito, e, allentandosi il colletto del giubbino estivo, riversò il capo all'indietro, ravviandosi i capelli biondissimi e sudati.

Ancora non gli sembrava vero di avercela fatta. Lucrecia gli aveva dato i consigli più preziosi del mondo. Gli aveva spiegato che le guardie del papa avrebbero capito subito che cos'era successo e gli aveva dato qualche dritta su quali strade alternative prendere.

Se solo non fosse stata incinta si sei mesi, l'Aragona avrebbe insistito affinché anche lei prendesse un cavallo e lo seguisse, subito.

Quando gli arrivò il cibo e il resto, il giovane ringraziò e poi, congedando il servo, si cavò gli stivali, il giubbino e la camicia e rimase con addosso solo le brache. Si deterse con attenzione le mani, le braccia e il viso. Si asciugò con metodo e poi andò a vedere che cosa offriva la mensa dei Colonna.

Il vassoio che era stato sistemato sulla scrivania prometteva decisamente molto bene: carne, verdure, pane nero e una minestra bollente e profumata, il tutto accompagnato da un vino bianco che profumava come pochi. Alfonso si sentì fortunato.

Tuttavia, mentre iniziava a mangiare, si rese conto che il cibo era insipido e il vino pareva acqua e tutto solo perché accanto a lui non c'era sua moglie.

Riempito in fretta lo stomaco, più per necessità che non per gola, il giovane accantonò il vassoio e si avvicinò il necessario per scrivere.

Lui e Lucrecia si erano fatti una promessa solenne, la notte prima che lui partisse. Stretti l'uno all'altro nel letto, in attesa dell'arrivo dell'alba, si erano detti che se lui fosse riuscito ad arrivare incolume a Genazzano, le avrebbe scritto subito un messaggio per dirle dov'era e per spiegarle come raggiungerlo.

Infatti la Borja non aveva voluto sapere la destinazione del marito, per paura di tradirsi. Era certa che suo padre non le avrebbe mai fatto del male fisico per estorcerle informazioni, ma sapeva per esperienza quanto sapesse essere bravo a ferire le persone anche solo con sguardi e parole e lei non si sentiva abbastanza forte, per resistergli. Non sapendo, non avrebbe potuto confessare.

Alfonso, così, scrisse una missiva molto breve, precisa e concisa e poi, chiudendola con attenzione, in modo da renderla molto piccola e facile da occultare, la mise da parte. Sapeva che più tardi un uomo della sua scorta, come da accordi, sarebbe passato dalla sua stanza per conferire, e allora gli avrebbe affidato quel messaggio.

Forse ci sarebbe voluto un po', benché fossero appena a mezza giornata da Roma, perché arrivasse tra le mani della sua Lucrecia, ma poteva aspettare.

Anche se il buon senso gli avrebbe detto di partire immediatamente per Napoli, aveva il dovere di attendere sua moglie. Senza di lei, non avrebbe avuto senso, tornare a casa.

 

Era ancora piena notte, quando Caterina si svegliò di colpo, mettendosi a sedere sul letto. Pirovano, che, contrariamente al suo solito, non riusciva a prendere sonno, si alzò a sua volta, tenendole un braccio attorno alla schiena, e le chiese come stesse.

“Non è venuto a cercarmi nessuno?” domandò lei, gli occhi spalancati.

Si era ridestata all'improvviso e si era resa conto altrettanto improvvisamente di essere nel suo letto. Con tutta la buona volontà, non avrebbe saputo dire come c'era arrivata. La sera prima si era trovata in una tal situazione di prostrazione, da non essere abbastanza presente a se stessa per accorgersi dei propri spostamenti. Ricordava solo il viso contratto di Giovannino, i suoi occhietti allungati serrati e le sue labbra screpolate.

“No, no, dovrebbe essere tutto tranquillo.” rispose Giovanni, accarezzandole lentamente la testa.

“Domani tu devi partire.” fece lei, come ricordandosene all'improvviso.

“Sì, così hai deciso.” confermò lui, che tutto avrebbe voluto fare fuorché lasciarla.

Come se quella consapevolezza repentina le avesse messo addosso una fretta impossibile da frenare, la donna lo baciò. Lo fece come non lo faceva da tanto tempo. A Pirovano, quel bacio, ricordò i primi che gli aveva dato, riportandogli alla mente la prima volta in cui si erano amati, quando l'aveva portato nella sala della armi, reclamandolo per sé quasi senza dargli possibilità di rifiutarla.

La lasciò continuare. Sentiva le sue mani cercarlo, il suo respiro farsi veloce e, quando la donna cominciò a imporsi su di lui, Giovanni comprese che quel desiderio era legato non solo al saperlo in partenza, ma anche a tutte le ansie che la stavano dominando in quei giorni.

L'aveva già preso a quel modo. Era come se volesse affermare la sua forza, non solo cercare il sollievo per un bisogno del suo corpo. Equivaleva a uno sfoggio di potere. Era come se potesse dimostrare a se stessa di avere ancora tutto sotto il suo controllo.

Al milanese, comunque, importavano poco i motivi che l'avevano spinta di nuovo tra le sue braccia.

Avrebbe lasciato Forlì tra poche ore, quindi non voleva altro se non poterla avere ancora una volta, per potersi portare appresso un ricordo prezioso, qualcosa a cui pensare nelle notti che avrebbe passato da solo.

Così l'assecondò e basta, mettendo a tacere tutto il resto, accantonando tutto il suo amor proprio e tutte le sue domande. Perché una donna del genere, cominciava ad accettarlo sempre di più, non andava capita.

Alla fine, mentre il profumo di quell'inizio agosto entrava dalla finestra aperta, mescolandosi al loro sentore, Caterina e Giovanni si trovarono stretti l'uno all'altra, sudati e ancora provati, ma calmi come un mare dopo la tempesta.

La Tigre poteva dire di sentirsi bene. Era una stanchezza molto diversa da quella che l'aveva attanagliata la sera prima. L'unica pecca era pensare che il suo amante sarebbe partito a breve.

Anche se la sua ambasceria sarebbe, probabilmente, durata poco, lei sarebbe comunque rimasta sola per giorni, forse per settimane. Temeva ciò che il suo sangue caldo le avrebbe fatto. Ricordava molto bene i motivi che l'avevano spinta a cercare di riavere per sé Pirovano e doversene separare l'avrebbe, ne era sicurissima, messa in grossa difficoltà.

Ormai, però, non voleva e non poteva rimangiarsi nulla. Aveva deciso di farlo partire e lui sarebbe partito.

“Se mio cognato Lorenzo – disse a un certo punto, la voce arrochita e le labbra che sfioravano il petto del milanese – dovesse offrirti un alloggio nel suo palazzo, dovrai rifiutarlo tassativamente.”

Pirovano annuì in silenzio. Non avrebbe voluto parlare di quelle cose. Voleva solo godersi la pelle calda della sua amante su di lui, il suo respiro che tornava via via lento e tranquillo, le sue mani che continuavano ad accarezzargli ora il ventre, ora una coscia.

Ma sapeva che con lei gli affari di Stato e quelli personali si mescolavano di continuo e doveva accettarlo, se voleva cercare di starle vicino.

“Dirai che non vuoi gravare per nessun motivo sulle sue casse. Ti fermerai in una locanda. Non voglio per nessun motivo che tu dorma sotto il suo stesso tetto.” proseguì la donna: “Ed evita di mangiare alla sua tavola.”

“E se non riuscissi a evitarlo?” chiese Pirovano, pensando che non sarebbe stato così impossibile credere che il Popolano avesse in progetto di invitarlo almeno per una cena al suo palazzo, sapendolo in città.

“Allora dovrai mangiare solo quello che mangia anche lui.” rispose lei prontamente.

A quel punto il milanese aggrottò la fronte e, con la voce ridotta appena a un sussurrò, chiese: “Ma temi davvero che possa cercare di uccidermi?”

Caterina si puntellò sui gomiti, guardando il viso dai lineamenti regolari e la barba scura del suo amante, che, nella luce della luna, sembravano ancor più affascinanti del solito e disse: “Non vedo perché non dovrebbe provarci. Ormai mi pare ovvio che questa guerra la sta combattendo contro di me. Non contro Milano, o Venezia, o il papa o chissà chi altro. La sta combattendo solo contro di me.”

Pirovano deglutì, mentre la sua amante tornava a posargli la testa sul petto. Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma non sapeva nemmeno lui cosa.

“Uccidendo te, sa che mi destabilizzerebbe un'altra volta, come con Manfredi.” concluse lei.

Giovanni, sentendosi punto nel vivo da quell'inciso, strinse un momento i denti. Aveva saputo fin dal primo momento di essere solo un rimpiazzo, ma aveva sempre cercato di non pensarci.

“Però ti consoleresti presto, se anche mi capitasse qualcosa.” fece, come a rispondere a quella stoccata.

La Leonessa non aveva alcuna voglia di accendere un litigio. Voleva solo tenersi stretto il suo amante finché poteva. Così non disse nulla e, anzi, cercando la mano di lui con la propria e stringendola un po', cercò di indurre anche lui ad abbassare le armi.

Il milanese fu tentato di soggiungere qualcosa, ma, ben prima che potesse far in tempo a dire anche solo una parola, sentì la Tigre addormentarglisi addosso, apparentemente sicura e tranquilla, come una belva feroce che si concede un attimo di riposo, prima della prossima battaglia.

 
   
 
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