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Autore: Adeia Di Elferas    03/05/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Adesso devo andare a vedere come sta mio figlio. Più tardi, però, torno per scrivere la tua lettera di accompagnamento.” disse piano Caterina, alzandosi dal letto, dopo aver dato un leggero bacio al suo amante.

L'uomo, ancora assonnato, aprì un occhio e si accorse che la stanza era ancora immersa nel buio e capì che doveva essere ancora molto presto.

“Va bene. Intanto preparo i miei bagagli...” disse strascicato lui, riabbandonandosi un momento sul guanciale, le braccia allargate a toccare il punto del materasso, ancora caldo, su cui fino a pochi istanti prima era stata la sua amante.

“Vedi di viaggiare leggero.” gli consigliò la Sforza, mentre si vestiva in fretta: “Voglio saperti a Firenze presto, e di ritorno ancor più presto.”

Il milanese non disse nulla, rivoltandosi, avviluppandosi nel lenzuolo e affondando il viso nel cuscino.

La donna riconobbe quel suo modo di fare. Ormai dividevano la stanza da abbastanza tempo per renderle quel genere di reazioni familiari. Fece un breve sorriso e, mentre andava alla porta, gli diede ancora un'occhiata.

In quella stanza, in cui quasi tutto le ricordava Giovanni Medici, c'erano momenti in cui Pirovano a tratti stonava. Giovane, bello, con quell'accento che le ricordava casa, a volte le sembrava quasi una tentazione diabolica, messa lì apposta per distrarla dal ricordo del suo terzo marito.

Tuttavia, nella penombra che precedeva l'alba, avvolto nelle lenzuola, le spalle larghe ben in vista, i capelli scuri che spiccavano sul guanciale bianco, Giovanni da Casale le sembrava perfetto, al posto giusto, come se non esistesse per lui collocazione migliore se non quel letto.

“Se vuoi dormire ancora un paio d'ore puoi farlo.” disse piano la Tigre, andando alla porta e aprendola: “Tanto non partirai se non nel primo pomeriggio.”

 

Paolo Vitelli aveva controllato le bombarde almeno quattro volte. Appena erano arrivate, le aveva piazzate subito. Aver preso la torre d'Asciano gli aveva dato un grandissimo vantaggio e non aveva intenzione di sciuparlo.

Ranuccio da Marciano si agitava per il campo come un puledro infastidito dalle mosche. Era in armatura da un paio d'ore e sembrava insofferente all'attesa. Aveva trentasette anni, ma a Paolo pareva un ragazzino di dieci, per come non si dava pace.

“Non capisco perché non sferriamo subito l'attacco...” fece, Ranuccio, arrivando alle spalle di Vitelli.

“Perché dobbiamo aspettare il momento giusto.” spiegò il comandante generale delle truppe fiorentine.

Il primo sole cominciava a lambire le mura della città e, a parer suo, era necessario attendere che il sole fosse sorto. I suoi uomini – almeno così confidava – erano riposati e avrebbero sopportato bene una lunga battaglia nelle ore più calde del giorno.

Gli assediati, invece, stremati fisicamente ed emotivamente, probabilmente malnutriti e in preda al panico, sarebbero crollati uno dopo l'altro sotto il solleone di quel 3 agosto.

Non poteva permettersi di dare loro la possibilità di battersi a quell'ora, quando ancora faceva abbastanza fresco e dopo una notte in cui, probabilmente, avevano cercato di dormire un po'.

“Decide chi comanda.” fece secco Ranuccio, scuotendo il capo e tornando verso il suo padiglione, troppo indispettito per poter proseguire il discorso senza perdere le staffe.

“Decide chi comanda.” fece eco Paolo, con un sospiro, stringendo gli occhi verso i primi pallidi raggi di sole e sentendo già, quasi con soddisfazione, il calore furente dell'estate infiammargli il viso.

 

Il Capitano Rossetti entrò con discrezione nella camera di Giovannino e, avvicinatosi abbastanza alla Tigre, le sussurrò: “Mia signora, lo speziale Albertini vi attende nel cortiletto, per consegnarvi quel che gli avete ordinato.”

Caterina, che stava osservando da un po' il figlio, immersa nei suoi pensieri, più che concentrata su di lui, fece un sospiro e annuì: “Grazie. Arrivo subito.”

Argentina era con lei, pronta a eseguire ogni qualsiasi ordine e così, non appena capì che la sua signora stava per alzarsi, le chiese se fosse il caso di andare a chiamare qualcuno della famiglia, affinché prendesse il suo posto al capezzale del bambino.

“No... No...” fece la Contessa, accarezzando lentamente la fronte del piccolo Medici e trovandola ancora calda: “Ormai è mezzogiorno e Galeazzo ha detto che avrebbe preso il mio posto appena dopo pranzo e lui mangia presto, ultimamente...”

La serva annuì, allora, e, più per mostrarsi solerte che non perché ce ne fosse un reale bisogno, si avvicinò un po' al lettuccio di Giovannino.

La Leonessa lasciò la stanza con un senso di ottundimento difficile da spiegare e da capire. Si sentiva frastornata, benché non fosse successo un granché, quella mattina.

Si meravigliava, tra le altre cose, della propria reazione alla notizia dell'arrivo dell'erborista alla rocca. Solo il giorno prima, pensava, si sarebbe catapultata da lui come una molla, mentre quella mattina, forse complice il caldo asfissiante o la mera stanchezza, si incamminò verso il cortiletto con passo lento e cadenzato.

“Tutto bene, madre?” chiese Bianca, incrociandola sulla scale.

La donna fece segno di sì e poi le notò, tanto per fare conversazione: “Credevo che a quest'ora fossi a riposare. Sei stata tutta la notte da tuo fratello...”

“Non sono così stanca...” si schermì la ragazza, seguendo la madre fino in fondo alle scale: “E poi stanotte ho anche dormito un po'. Giovanni era tranquillo e la balia l'ha vegliato mentre ero assopita... Così adesso sono stata da Sforzino, per sentirlo ripetere la sua lezione, e sono passata a mangiare qualcosa.”

La Sforza annuì e poi, mentre stavano per raggiungere il cortiletto, fu tentata di congedare la Riario. Non aveva voglia di rispondere a domande scomode e immaginava che, nel momento stesso in cui la figlia avesse visto Albertini, sarebbero arrivate.

“Ma quello non è il vostro erborista?” chiese infatti subito Bianca, non appena riconobbe l'uomo.

Optando per la risposta meno impegnativa di tutte, la Tigre fece solo: “Sì.”

“Mancavano ingredienti per la pozione per la febbre, nella dispensa?” chiese corrucciata la giovane, facendo un inventario mentale di quello che aveva trovato l'ultima volta nella spelonca da strega della madre.

Non volendo portare la ragazza a domandare altro, la Sforza le disse in fretta e a denti stretti: “No, mi mancavano delle cose per la pozione per non avere figli.”

La Riario all'improvviso capì e ricollegò quell'informazione alla schermaglia che aveva sentito tra sua madre e Ridolfi.

Così, ricacciando indietro la vergogna, mentre ormai Albertini era loro prossimo, la giovane disse piano: “Potevate dirlo a me e vi avrei dato la bottiglia che ho in camera.”

“Quella è tua e voglio che la tenga tu e basta.” tagliò corto la donna, concentrandosi poi sullo speziale, salutandolo: “Vi ringrazio per la vostra disponibilità. Passate dal castellano, vi darà quanto vi spetta.”

L'uomo le porse il pacchetto che portava con sé e chinò il capo: “Siete sempre molto gentile, con me, mia signora.”

“Vuoi aiutarmi a prepararla?” chiese Caterina, tornando verso le viscere della rocca, sempre con Bianca al seguito.

Era stata tentata, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, di chiedere alla figlia di lasciarla sola, ma il modo in cui la ragazza le stava appresso le faceva capire quanto avesse bisogno di passare del tempo con lei.

La Riario annuì all'istante, ma, appena prima che potessero avviarsi al laboratorio della Tigre, Cesare Feo le raggiunse, con una mezza corsa, mostrando una lettera: “Mia signora!” esclamò, arrivando davanti a loro: “Una missiva urgente da Firenze, da vostro cognato, mandata per staffetta velocissima, che è ancora qui fuori.”

“Staffetta che, da come parlate, deve ancora essere pagata.” strinse i denti la donna, afferrando il messaggio.

Il castellano confermò e, mentre Bianca cercava di occhieggiare verso la lettera ancora chiusa, ma su cui spiccavano le sei palle medicee, la Leonessa sbuffò: “Dategli quello che chiede, anche se mi sembra un'assurdità, con tutti i soldi che ha mio cognato, che debba essere io a pagare per le sue staffette!”

Cesare si disse d'accordo e ripartì subito per andare a saldare il conto con il messaggero. Nel frattempo la Contessa si era fatta indecisa se rompere subito il sigillo o meno. L'urgenza, pensava, poteva non significare nulla. Non era un documento ufficiale, su questo non c'erano dubbi, visto il piccolo formato, e dunque poteva essere stata solo una trovata di Lorenzo per farle sborsare inutilmente qualche moneta.

“Occupatevi pure della corrispondenza.” le propose la Riario, comprendendo, almeno in parte, quello che passava per la mente della madre: “La pozione, se volete, posso prepararvela anche da sola.”

“Sicura di esserne capace?” chiese allora Caterina, guardandola con attenzione: “Si tratta di una ricetta delicata.”

“Lo so, ma ho imparato da voi. Ho imparato bene.” affermò la giovane.

La madre doveva ammettere che Bianca aveva sempre dimostrato una certa destrezza, con l'alchimia e l'erboristeria. E si fidava di lei abbastanza da affidarle un compito tanto importante.

“Va bene.” accettò e, dandole un buffetto sulla spalla, aggiunse: “Appena è pronta, ti prego, portamela. Sarò nella mia camera.”

La ragazza annuì, prese il pacchetto con gli ingredienti appena portati da Albertini e, salutata la madre con un cenno del capo, andò subito in direzione del laboratorio, chiedendosi, con un filo d'ansia, quanto davvero quella pozione servisse a sua madre, se le aveva addirittura chiesto di portargliela subito appena pronta.

 

“Avanti!” gridò Paolo Vitelli, in sella al suo cavallo, la celata alzata e la spada alta, ritta quasi a puntare il sole, che poi si abbassava repentinamente a indicare lo squarcio nelle mura di cinta che difendevano Pisa: “Avanti! Entrare! Di qui! Avanti!”

Come un sol uomo, tutti i soldati fiorentini seguirono l'ordine del loro comandante generale e, scavalcando i calcinacci, i morti, i feriti e tutto quello che aveva fatto del fossato una misera pozzanghera, varcarono il confine della città.

Vitelli non rimase in testa. Lasciò che i suoi gli scorressero tutt'attorno, restando come una freccia a puntare verso la breccia che le sue bombarde avevano creato.

Era stata un'azione pressoché perfetta, a suo modo di vedere. Erano sotto il sole beffardo e cocente del mezzogiorno, ma erano ancora relativamente freschi, mentre i nemici, avendo fatto fronte al bombardamento fino a poco prima, erano già disfatti.

Era stato un risuonare di bombarde continuo, quasi una tempesta di tuoni. Il fracasso del colpo che partiva e poi l'impatto contro la pietra che, impatto dopo impatto, si disfaceva, diventando fragile come sabbia, aveva assordato gran parte dei presenti, ma al Vitelli era parsa musica.

Il fumo che si sollevava dalle bocche da fuoco che avevano appena sparato era per lui l'immagine stessa del trionfo.

Quell'uso, ancora così osteggiato e poco capito, dell'artiglieria gli sarebbe valso una medaglia al merito, quanto fosse tornato a Firenze, ne era più che certo.

Le mura avevano subito un danno enorme. Almeno quaranta braccia di cinta erano saltate in aria e altrettante, appena a lato, minacciavano di fare la medesima fine.

Tuttavia, mentre ancora gridava incitamenti e mostrava ai suoi la via per la vittoria, Paolo si rese conto di una cosa. Forse, pensò, quella era stata l'unica pecca del suo piano. Un errore prevedibile solo in parte, un aspetto dell'assedio che nemmeno Ranuccio – convinto sempre di sapere tutto meglio di lui – aveva considerato.

Fin da quando le prime decine di fiorentini avevano attraversato lo squarcio nelle mura era stato evidente come i pisani – e perfino gli stranieri che ancora militavano alla loro difesa – avessero deciso di combattere fino allo stremo.

Questa decisione li aveva resi coraggiosi, intraprendenti e violentissimi. Vitelli cercava di non fare stime, ma il suo occhio allenato da una vita passata in battaglia, gli stava facendo capire che per un nemico che cadeva sotto le loro spade, morivano almeno tre fiorentini.

Di quel passo avrebbero probabilmente vinto per la grande differenza numerica che correva tra i due eserciti, ma a che prezzo?

Come paralizzato, mentre guardava impotente i suoi che correvano verso la morte, il comandante generale delle truppe della Repubblica cominciò a veder sfumare la menzione al merito, le medaglie e i riconoscimenti. Se anche avesse preso Pisa, a quel prezzo, nessuno l'avrebbe ringraziato, nessuno si sarebbe ricordato la vittoria, nessuno l'avrebbe accolto come un salvatore della patria.

L'avrebbero additato come un assassino, uno sconsiderato, un incapace che aveva condannato a morte la miglior gioventù di Firenze.

“Avanti, Vitelli!” la voce di Ranuccio lo ridestò dalla sua debolezza improvvisa e, nel vederlo andare alla carica, anche Paolo si riscosse.

“Per Firenze!” gridò e, seguendo il suo commilitone, lasciò il suo posto, mettendosi a sua volta a varcare la breccia nelle mura, pronto a dare tutto, pur di far sua la giornata.

 

Caterina entrò in camera senza annunciarsi. Giovanni da Casale, capendo da modo in cui la porta si era spalancata, che si trattava di lei, non si voltò nemmeno per salutarla e continuò a occuparsi dei propri bagagli.

“Viaggi troppo pesante.” lo riprese la donna, guardando di striscio la grossa bisaccia già pronta e il bauletto che il suo amante stava finendo di riempire: “Riduci il carico, devi essere leggero e veloce.” gli ricordò.

Pirovano allargò un po' le braccia, e, mentre la Tigre si metteva alla scrivania, fece notare: “Ma sono cose che mi serviranno...”

“Non starai lì per più di un paio di settimane, se farai le cose per bene.” scosse il capo lei: “Un vestito discreto, nel caso dovessi partecipare a un ricevimento elegante, un paio di ricambi, l'armatura e le armi. Non vedo che altro ti possa servire. Al massimo, un paio di libri, per ingannare il tempo, se dovessi avere qualche ora morta.”

“Non mi piace leggere...” ribatté in un soffio il milanese, e poi, borbottando, cominciò a svuotare il bauletto e anche a rimettere mano alla bisaccia, per far quello che la Sforza gli aveva suggerito.

Caterina non commentò quella sua ultima frase. Ricordava ancora come il suo terzo marito fosse arrivato a Forlì con appresso più libri che vestiti. Era stata una cosa che l'aveva affascinata, per quanto non fosse mai stata capace né di farglielo capire, tanto meno di dirglielo apertamente.

Con un sospiro pesante, la Contessa si concentrò sulla lettera che aveva per le mani e ruppe il sigillo, cercando di estraniarsi dalla confusione che Pirovano stava facendo alle sue spalle. Più che un soldato disciplinato e preciso che si preparava per una missione, le pareva tanto un ragazzino che faceva di malavoglia una borsa per andare a scontare una punizione in qualche posto che odiava.

La lettera di Lorenzo, come la Sforza aveva immaginato, in realtà non aveva nulla di urgente, né di importante da dirle. La ragguagliava su cose che lei già sapeva. Si chiedeva retoricamente come mai il suo carissimo figlio Cesare non avesse ancora preso il suo posto a Pisa, chiedendosi se per caso c'entrasse qualcosa l'ultimo assalto che Firenze aveva deciso di dare ai propri nemici.

Si accennava appena al ritorno di Machiavelli in città e si sfiorava con molta casualità la situazione di Milano, tanto in bilico da potersi considerare persa o salva a seconda di come tirasse il vento del momento.

Solo in chiusura il Medici arrivava a quella che, la Leonessa lo capì subito, doveva essere stata la vera spinta che l'aveva portato a prendere la penna in mano.

Lasciando intendere di quanto gli fosse dispiaciuto avere notizia della malattia del nipote per vie traverse e non direttamente da lei, il fiorentino le chiedeva accoratamente come stesse il piccolo Ludovico.

Ludovico.

Non era stata una scelta casuale. Caterina aveva capito fin troppo bene cosa stava sotto a all'apparentemente innocuo uso di quel nome.

Imprecò a voce bassa, usando parole tanto volgari che Giovanni da Casale, che aveva completamente smesso di interessarsi a lei già da qualche minuto, si voltò di scatto per guardarla e chiederle: “Tutto bene?”

“Ludovico...” sibilò la donna, prendendo la lettera di Lorenzo, accartocciandola e gettandola in un lato della stanza.

“Tuo zio..?” chiese Pirovano, senza capire.

“Mio figlio.” lo corresse lei, tentando invano di calmarsi: “Giovannino, il mio più piccolo.”

Il milanese si accigliò, cercando di capire il motivo della rabbia della sua amante, ma rendendosi conto di non averne i mezzi. Conosceva troppo poco del suo passato, affettivo e familiare, per poter sperare di comprendere a fondo la sua reazione. E, dopo tutto, le rarissime volte in cui lei aveva cercato di parlargli del suo ultimo marito – o di uno qualsiasi degli altri suoi uomini – lui l'aveva sempre messa a tacere subito.

“Guarda!” esclamò la Leonessa, indicando la missiva gettata in terra: “Leggi, leggi come finge che gli stia a cuore mio figlio! Ludovico..!”

Un po' titubante, l'uomo si chinò a raccogliere il messaggio e ne lesse una parte, cercando subito con lo sguardo il nome Ludovico. Letta senza sapere tutti i retroscena, quella poteva essere vista come una lettera normale, tranquilla, quasi affettuosa. Era chiaro, però, dal viso contratto dalla rabbia della Sforza, che tale non fosse.

“Ma è davvero così grave che l'abbia chiamato a questo modo?” domandò il milanese, riappoggiando con cautela il messaggio sulla scrivania.

“Certo che lo è.” fece Caterina, la voce che si spegneva un po', come se tutta la furia cominciasse a lasciare di nuovo il posto all'abbattimento: “Lo chiama così per fargli prendere le distanze da suo fratello. Crede che l'abbia fatto ribattezzare solo per sottolineare il suo legame con i Medici... Non ha neanche capito che l'ho fatto solo perché...”

La voce della Tigre si ruppe, e il suo amante, scorgendo negli occhi di lei un velo, fu sul punto di protendersi verso di lei per darle conforto in qualche modo, magari anche solo posandole una mano sulla spalla, o, ancor meglio, abbracciandola.

Tuttavia gli mancò la prontezza di farlo. La scarsa familiarità che ancora sentiva di avere con lei, malgrado tutto, l'aveva frenato.

Alla Sforza non era sfuggito, il tentennamento del milanese, e quel suo non essere pronto nemmeno in quella circostanza non fece altro che farla arrabbiare di più. Il continuo e involontario confronto che faceva tra lui e Giovanni – spesso anche Giacomo – ancora una volta le mostrava quanto fosse carente, insicuro e, banalmente, immaturo per lei.

O forse, pensò, afferrando la boccetta di inchiostro e la penna, era lei a pretendere troppo e a essersi abituata troppo bene, nel breve periodo in cui aveva avuto accanto a sé il Medici.

“Non importa – disse, più a se stessa che non a Pirovano – farò esattamente come sta facendo lui, lo chiamerò Ludovico, se preferisce così. In fondo, mio marito, quando lo stringeva tra le braccia e lo cullava, così lo chiamava: Ludovico. Se crede di farmi un dispiacere a chiamarlo così, si sbaglia.”

Sentendola parlare a quel modo, Giovanni da Casale rinunciò a dire la sua. Sapeva che qualsiasi opinione avesse espresso, non avrebbe fatto altro che gettare altra legna nel fuoco. Così, annuendo in silenzio, tornò a concentrarsi sui propri bagagli.

“Questa lettera – spiegò Caterina, grattando sulla pagina con la punta della penna – è la tua lettera di presentazione. La consegnerai personalmente nelle mani di Lorenzo. Poi scriverò anche una breve per la Signoria. La farò partire con una staffetta veloce, prima di te. Arriverà solo qualche ora prima, magari una mezza giornata abbondante, ma mi auguro che, vista la situazione, il mio adorato cognato non la prenda come una mancanza di rispetto nei suoi confronti.”

Anche stavolta l'amante non commentò, facendo appena un cenno con il capo, sempre più deciso a non fornire alla donna altri motivi di dare in escandescenze.

'Mando il spectabile Messer Ioanni mio Auditore exibitore de la presente a quelli Exc. Sig. vostri per la casone che la M. V. intenderà da lui, al quale ho commisso conferisca prima cum epsa il tucto.' scrisse la Leonessa: 'Priegola li presti indubitata fede circa le cose del beneplacito del Sig.re Octaviano mio fiolo et de la protectione adimandata, non altrimente facesse a mi propria si personalmente parlasse cum la Magn.tia V.'.

“E vuoi smetterla di fare rumore?!” sbottò la Contessa, smettendo per un momento di scrivere, voltandosi verso l'amante che, indaffarato a selezionare quale cinturone dalle finiture metalliche portarsi appresso, non era riuscito a mantenere il silenzio di poco prima.

Pirovano sollevò le mani, smettendo subito di trafficare e pensò che fosse meglio attendere inerme che la sua donna finisse di scrivere, prima di fare qualsiasi altra cosa.

'De Ludovico nostro – riprese la Sforza, calcando sul foglio più di quanto non volesse – non scio quello ma ne dire horamai. Hozi la febbre gliè anticipata de le hore circa dodeci, et è stata magiore che l'altro parosismo precedente corespondente a questo.'

La Tigre si prese un istante. Si chiese che faccia avrebbe fatto suo cognato, nel leggere quelle poche righe. Sarebbe stato sotto sotto felice di pensare che il piccolo stava così male, oppure avrebbe sentito il cuore mancare un colpo, al pensiero che il tempo per cercare di prenderlo in custodia e arraffare la sua eredità stesse scarseggiando?

Dopo essersi premuta la punta delle dita sugli occhi, la donna concluse: 'Quella serrà contenta far fare oratione per lui, aciò Idio cel salve si è per il meglio. Secondo succederà, così ne advisero la M. V. que bene valeat. Forlivi 3 Augusti 1499.'.

Firmata la missiva, la Contessa prese una pagina nuova e scrisse in fretta un messaggio per la Signoria in cui informava che, rimandato per vari motivi Machiavelli a Firenze, faceva partire lei stessa un suo portavoce, al quale rivolgersi come se si stessero rivolgendo a lei stessa.

Chiuse con cura quest'ultima e poi, rileggendo in fretta quella per Lorenzo, sigillò pure quella. La porse a Giovanni che, vedendola intenta a lasciare la scrivania, si era rimesso a sistemare i suoi bagagli.

“Cerca di esserci, quando la leggerà, voglio sapere come reagisce.” disse in fretta la Leonessa e poi, con uno sguardo di insofferenza, indicò la bisaccia e il bauletto e lo riprese: “Sei un uomo cresciuto e, dovendo partire oggi, non hai ancora finito di impacchettare le tue cose...”

Pirovano stava per ribattere, facendole notare che aveva poche cose di sua proprietà e che aveva dovuto aspettare per forza l'ultimo minuto, per preparare le sue borse, ma l'amante non gliene diede il tempo.

Quando infatti l'uomo aprì bocca per parlare, la lettera per Lorenzo ancora stretta tra le dita, Caterina era già uscita dalla stanza.

 

Senza indugio, dopo aver consegnato la missiva per la Signoria di Firenze al castellano, con l'ordine che la facesse partire immediatamente, la Tigre era andata verso la stanza di Giovannino.

Sapeva che Giovanni da Casale non sarebbe partito prima di almeno un paio d'ore e quindi voleva passare un po' di tempo con suo figlio per calmarsi.

Non aveva voglia di veder partire il milanese, ma voleva esserci, quando avrebbe lasciato la città.

Troppe volte, nella sua vita, aveva dovuto salutare un uomo per lei importante senza rivederlo mai più. Era relativamente tranquilla, per quanto riguardava la missione da ambasciatore, ma non si poteva mai sapere cosa sarebbe successo lungo la via, o a Firenze.

Anche Ottaviano Manfredi, pensò con uno stiletto piantato nel petto, era partito per Firenze, con l'idea di starci pochi giorni, ed era tornato in una cassa di legno.

Con la mente che si affollava di ricordi che avrebbe tanto voluto cancellare, la donna varcò la soglia della stanza del figlio e, avvicinandosi lentamente al letto, raggiunse Galeazzo, che vegliava silenziosamente il fratello.

Il ragazzino la salutò con uno sguardo, i suoi occhi di un verde pieno che incrociavano quelli ramati della madre. Aveva il viso tirato, preoccupato e alla Sforza pareva chiaro il motivo.

Giovannino, steso a letto, scottava ancora di febbre. Era rosso in viso e agitato. Il Riario, seduto accanto al letto, con una mano vicina a quella del Medici – Caterina pensò che probabilmente, prima del suo arrivo, gliela stesse stringendo per dargli forza – sembrava intenzionato a non lasciare il suo posto, e così la Contessa si mise semplicemente dall'altro lato, senza chiedergli di andarsene o di lasciare a lei quella postazione privilegiata.

Senza dire nulla, la Tigre si mise a osservarli entrambi. Galeazzo si stava trasformando, un giorno dopo l'altro, in un adolescente di bellissimo aspetto. In lui l'influenza somatica dei Riario aveva portato solo caratteristiche positive e il sangue sforzesco gli aveva donato forza fisica e un aspetto sicuro di sé che, un giorno, una volta diventato un uomo di potere, gli sarebbe di certo tornato utile.

Anche Giovannino, per quanto devastato dalla febbre che non gli lasciava quasi requie da giorni, era indiscutibilmente bello.

La Contessa si chiese se non fosse lei a vederlo migliore di quanto non fosse, ma poi dovette riconoscere la propria obiettività in quel genere di giudizi, specie se rivolti ai figli, e così si rincuorò.

Lo osservò a lungo e, mentre ripercorreva il taglio dei suoi occhi, così particolare, allungato e flessuoso, e mentre accarezzava con lo sguardo i suoi morbidi ricciolini castani, si trovò a pensare che se Lorenzo Medici avesse potuto vederlo, anche in quello stato, non avrebbe avuto più dubbi circa la paternità di Giovanni.

In un lampo, che le mise in corpo una sorta di panico improvviso, la donna rivide proprio nel volto sofferente del bambino quello del Popolano. Le tornò in mente l'aspetto distrutto e sofferente del suo terzo marito, quando era corsa da lui a San Pietro in Bagno e per qualche istante sudò freddo al pensiero che quel parallelismo fosse nato dalla sua paura di vederlo morire, esattamente come aveva dovuto veder morire il Medici meno di un anno addietro.

“Non voglio che muoia come Livio...” sussurrò Galeazzo che, evidentemente, aveva fatto dei collegamenti analoghi a quelli della madre, nell'osservare il piccolo corpo del fratello squassato dalla febbre.

“Non morirà.” fece Caterina, quasi che quell'affermazione potesse bastare a preservare il suo ultimogenito da quell'eventualità.

Il Riario la guardò un momento. Era portato per istinto a credere a tutto quello che sua madre gli diceva. E, anche se la logica lo portava a capire che la donna non potesse avere davvero una risposta tanto sicura alla realtà dei fatti, decise di crederle pure quella volta.

“Non morirà.” confermò lui, prendendo la mano del Medici nella sua e chiudendosi in un silenzio tanto impenetrabile che, la Sforza immaginò, doveva essere dettato dalla preghiera e dalla paura.

Passarono circa due ore e il castellano arrivò nella stanza di Giovannino per annunciare alla sua signora che Giovanni da Casale era quasi pronto per partire: “Dice che vuole vedervi un attimo ancora in camera vostra.” soggiunse, cercando di non lasciar trasparire in alcun modo il proprio giudizio in merito a una simile richiesta.

La Contessa intercettò lo sguardo del figlio, ma anche lui, proprio come Cesare Feo, pareva poco incline a mostrare i propri pensieri.

Così, scrollandosi di dosso la spiacevole sensazione di essere sotto accusa, la donna disse solo: “Sì, tra un attimo sarò da lui.”

 
 
   
 
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