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Autore: Adeia Di Elferas    05/05/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Perché mi hai fatta chiamare?” chiese Caterina, entrando in camera e chiudendosi subito la porta alle spalle.

Pirovano, che finalmente aveva il suo bagaglio – molto ridotto rispetto a prima – pronto, e che già indossava gli abiti da viaggio, non le disse nulla, ma le andò incontro, stringendola a sé: “Non voglio partire pensando che abbiamo litigato.”

La Sforza ricambiò il suo abbraccio, ma appena poté, lo allontanò: “Non abbiamo litigato...” lo ridimensionò: “Abbiamo avuto una discussione, sono cose che succedono. Basta che adesso fai quello che ti dico.”

Il giovane, un po' mortificato dal modo in cui l'amante aveva smorzato la sua stretta, annuì in silenzio e poi prese la sua borsa, come a dire che se le cose erano a posto, allora era pronto a partire.

“Anche stanotte ho diviso il letto con te. Credi che l'avrei fatto, se fossimo stati davvero in guerra l'uno con l'altra?” gli chiese la Tigre, che, improvvisamente, si era trovata a valutare tutti i possibili rischi di far partire per Firenze un innamorato scontento.

Conosceva Giovanni da Casale solo fino a un certo punto. Anche se istintivamente si fidava di lui, c'erano stati alcuni piccoli episodi che l'avevano un po' fatta ricredere sulla sua lealtà adamantina.

Non era mai stato nulla di grave, ma cose come lo scoprire che l'uomo scriveva ancora, di nascosto da lei, al Moro, l'avevano messa in guardia.

“Sì, sì, hai ragione... Sono io che... Insomma, non ho mai avuto qualcosa di stabile, in vita mia e quindi non so come...” provò a dire lui, imbarazzato.

“Va tutto bene.” lo tranquillizzò lei, dandogli un bacio veloce e posandogli una mano sulla guancia coperta di peli fitti e nerissimi: “A me piaci con la barba, però in viaggio può dimostrarsi più un'attrazione per i pidocchi che non per le donne... Avresti potuto passare da Bernardi, prima di andare...”

“Meglio di no... Se proprio avrò bisogno di una spuntatina, mi sono portato appresso le forbici, così posso fare da me.” fece lui, un po' distratto, mentre si dava una rapida occhiata attorno per vedere se avesse dimenticato qualcosa: “Ultimamente in quella barberia si fanno discorsi che non mi piacciono, e il tuo amico barbiere s'è fatto un po'... Antipatico, diciamo, nei miei confronti...”

La Leonessa, colpita da quella considerazione, calcolando che non passava dal Novacula da tempo, era sul punto di fare altre domande, ma proprio quando stava per aprir bocca, qualcuno bussò alla porta.

“Avanti.” disse la Contessa, e quando si trovò dinnanzi la figlia, con una bottiglia della pozione che le aveva chiesto di preparare in mano, si ricordò di colpo di averle affidato quel compito.

Senza che lo volesse davvero, con il passare delle ore, si era scordata sempre di più di quel problema. Tuttavia, andandole incontro e ringraziandola, prese subito il prezioso bottiglione dalle sue mani.

“Se avete ancora bisogno di me, sono da Giovannino...” fece la Riario, rossa in viso, senza guardare Pirovano.

“No, non è necessario...” fece la madre, appoggiandosi alla scrivania e sorbendo subito una dose abbastanza abbondante della sua pozione, quasi volesse supplire quelle saltate: “C'è Galeazzo con lui, e quando Giovanni sarà partito, tornerò anche io lì. Quindi fai pure quello che preferisci, adesso: riposati, leggi, studia, cuci...”

La ragazza fece un mezzo inchino e poi, rivolgendosi al milanese, gli disse: “Vi auguro un buon viaggio, messer da Casale.”

L'uomo ringraziò con un cenno del capo e così la giovane si sentì davvero libera di andare. Era da giorni che non passava un po' di tempo con le sue amiche della cucina e aveva un gran desiderio di recuperare un po' di tempo perduto.

Anche se non amava i pettegolezzi, né le chiacchiere grasse che a volte facevano le serve, il senso di calore che provava nello stare in mezzo a loro, come se si trovasse circondata da sorelle, era impagabile.

Pirovano, aspettato che uscisse Bianca, si mise a fissare la Tigre, che stava sistemando la bottiglia di pozione al sicuro, controllando di averla chiusa a dovere: “Quella roba ti servirà anche mentre sarò via?” le chiese.

Il tono, distintamente accusatorio, portò la Sforza a un passo dall'esplodere. Fino a quel momento non aveva pensato in modo lucido a come si sarebbe comportata, in assenza del suo amante. Voleva cercare di resistere alle tentazioni, di aspettarlo, ma dopo quella domanda, così aggressiva e indisponente, improvvisamente si trovava a valutare anche altre possibilità.

“Sì, è probabile.” rispose così, restando di spalle, per evitare di incrociare lo sguardo di lui: “Dopo tutto... So che effetto faccio agli uomini, e so che effetto fanno i begli uomini a me.”

Giovanni strinse i denti, assumendo un'espressione sofferente che la donna notò solo quando, perplessa per il lungo silenzio, si arrischiò a guardarlo.

“Non ti ho mai promesso nulla.” mise in chiaro lei, pensando a come, al posto di Pirovano, Ottaviano Manfredi avrebbe semplicemente fatto una risata beffarda, annunciandole che nemmeno lui sarebbe rimasto solo, durante la loro separazione.

Ma il milanese non era il faentino. Il volto rabbuiato e le labbra strette a formare un filo sottile, indugiò con gli occhi scuri sul corpo della Leonessa per qualche istante e poi, come a volersene staccare a forza, mosse un paio di passi verso la porta.

“Va bene.” disse solo, aprendo l'uscio e dedicandole un'occhiata strana da sopra la spalla: “Tanto che altro posso fare?”

Caterina avrebbe voluto saper rispondere nel modo giusto, ma poiché non trovava parole per quietare Giovanni, malgrado si fosse ripromessa di non farlo partire arrabbiato, gli si avvicinò e gli passò una mano sulla schiena. Era quasi un gesto di incoraggiamento e l'uomo, benché facesse il sostenuto, apprezzò quel tocco, accogliendolo come qualcosa di raro e prezioso.

“Avanti...” fece la Contessa, seguendolo in corridoio: “Andiamo. Tra poco devi partire e...”

“Verrai nel cortile per salutarmi?” chiese lui, quando erano ormai alle scale.

“No. Ti guarderò dai camminamenti.” rispose la Tigre.

“Allora devo farlo adesso...” sussurrò lui, quasi soprappensiero.

La Leonessa non capì subito che intendesse, ma poi, vedendolo posare in terra la bisaccia, iniziò a comprendere. Evidentemente il bacio veloce e un po' freddo che lei gli aveva dato poco prima non gli era bastato.

Stringendola con forza, una mano che seguiva l'onda dei suoi fianchi e l'altra che la premeva con decisione contro di sé, Pirovano si chinò un po' su di lei e la baciò. Lo fece senza ammettere repliche, in una sorta di affermazione della sua presenza, della sua esistenza, un po' come se volesse farle capire che lui c'era e che ci sarebbe stato anche dopo, che non doveva né dimenticarlo, né sostituirlo.

Quando finalmente la lasciò, riprendendo la sua borsa, le disse: “Tornerò presto.”

“Lo so.” annuì lei e lo seguì fino in fondo alle scale.

Arrivati lì, si scambiarono uno sguardo carico di significati, e l'uomo andò verso il cortile, mentre la donna verso il cortiletto per raggiungere, da lì, i camminamenti.

Caterina cercò un posto privilegiato, da dove potesse vedere bene ed essere vista bene, e poi attese.

Ci volle quasi mezz'ora, prima che la colonna di uomini, guidata da Giovanni da Casale, uscisse dalla rocca. Non erano molti, i soldati al seguito del milanese, ma la Sforza aveva fatto sì che fossero tra i migliori.

Non voleva ripetere l'errore che aveva commesso con Manfredi. Pirovano era diverso, per molti versi più malleabile. Le era bastato ordinargli di prendere quella scorta e lui l'aveva presa.

Nello spiazzo antistante Ravaldino, c'erano un po' di curiosi. Non molti, forse per colpa dell'ora, che portava molti a cercare la frescura delle case o almeno l'ombra dei porticati, o forse perché la notizia della sua partenza era stata pubblicizzata solo fino a un certo punto. Quei pochi che erano presenti, comunque, accolsero la fila si uomini con applausi e con qualche incitamento, in un modo più adatto a un plotone che partiva per la guerra, che non a un gruppo in missione diplomatica.

Oltrepassato il ponte e aggirata la statua di Giacomo Feo, Giovanni sollevò lo sguardo verso le merlature. Alzò appena una mano, in segno di saluto.

Istintivamente, non curandosi degli occhi dei forlivesi che aveva puntati addosso, anche la Tigre sollevò una mano. Si accorse di avere il viso teso, anche se avrebbe voluto sorridere per dare un'immagine sicura e distesa, per far capire a tutti che quella mossa diplomatica era qualcosa di semplice e sotto il suo controllo.

Invece, nel vedere Giovanni da Casale abbassare di colpo la mano e voltarsi, come se vederla ancora gli facesse solo del male, alla Sforza si velarono gli occhi.

Con il suo amante ormai lontano, troppo per poterlo scorgere distintamente, la donna si asciugò una lacrima furtiva, rendendosi conto troppo tardi di quanto le pesasse separarsene proprio in quel momento.

Aveva deciso di mandare lui a Firenze in un momento di rabbia, accecata da quella che restava una delle sue grandi debolezze. Aveva poi tentato di convincersi che fosse meglio così, che entrambi avrebbero giovato di qualche giorno di lontananza. Però, nell'avvertire il vuoto che Pirovano stava già lasciando accanto a lei, si stava trovando a pensare cosa sarebbe successo, se per un motivo qualsiasi non fosse tornato più.

Appena la folla cominciò ad andarsene, e lei si ritirò dietro le merlature, nel sentirsi osservata dai soldati di ronda, che si erano fermati a osservare la scena appena accaduta, la Leonessa fece del suo meglio per ridarsi un tono e, quasi gridando di rabbia ordinò: “Tornate alle vostre occupazioni! Non c'è più nulla da vedere, qui!”

 

Ranuccio da Marciano, lo sguardo un po' offuscato dalla luce accecante di quel meriggio d'agosto, trovò finalmente Paolo Vitelli.

Il comandante generale delle truppe fiorentine era senza fiato, l'armatura chiazzata di sangue e il viso ridotto a una maschera di sporco.

“Complimenti...” gli disse, scavalcando un cadavere, nel raggiungerlo: “La giornata è nostra.”

L'altro annuì appena. In poche ore, avevano la fortezza che faceva da rinforza alle mura pisane, e avevano abbattuto le mure dalla rocchetta fino a Sant'Antonio. Era un successo quasi insperato, vista la dimestichezza tutto sommato scarsa dei suoi artiglieri con le nuove bombarde.

Non avevano ancora preso la città, mancavano alcuni punti fondamentali, come la porta Mare o la torre Staimpace. Però, almeno, potevano far avanzare il campo e mettere più pressione ai nemici.

“Certo che ce ne saranno di corpi da sistemare, prima che scenda la sera...” soppesò Ranuccio, dando una pacca sulla spalla al compare: “Tutti morti per Firenze, non pensi sia una gran cosa?”

Malgrado il tono marcatamente ironico della domanda, Paolo Vitelli non riuscì a sorridere, nemmeno amaramente. I pisani e i mercenari che ancora militavano per loro avevano fatto un lavoro egregio, sacrificandosi in nome della libertà. Molti di loro erano caduti sul campo e i reduci si erano ritirati, arroccandosi negli ultimi bastioni cittadini, ma, nel morire e perfino nel fuggire, avevano fatto sì che moltissimi fiorentini li seguissero all'inferno.

“Non è una gran cosa.” disse Vitelli, rigido, gli occhi che osservavano la distesa di corpi mescolati a calcinacci: “E per quel che mi riguarda, potevamo evitarla.”

Detto ciò, Paolo fece un profondo sospiro e si allontanò, per andare a parlare con alcuni dei suoi luogotenenti e decidere come sistemare i morti e come spostare il campo, in modo da essere in un punto adatto per gli attacchi da sferrare nei giorni a venire.

Ranuccio, invece, era rimasto immobile a fissarlo mentre se ne andava. Da un lato capiva il suo ragionamento, ma dall'altro non si capacitava di come un mercenario come lui potesse ritenere una guerra inutile, quali che fossero i motivi che l'avevano causata.

“Attento, Vitelli...” borbottò tra sé: “Che già ti credono traditore... Ringrazia che questa cosa l'hai detta a me e non a qualcuno a cui piace scrivere lunghe lettere alla Signoria...”

 

“Credetemi, mia signora, io sono d'accordo con voi...” disse Tornielli, passandosi una mano sulla fronte e sollevando le sopracciglia: “Ma le misure che chiedete di adottare hanno un costo, e al momento le casse dello Stato non possono sostenere una simile spesa.”

“Ne avete già parlato con il Governatore?” domandò Caterina.

Era la mattina del 4 agosto, la Sforza aveva passato l'intera notte a vegliare su Giovannino, trovandosi accanto per un po' la figlia Bianca e poi Argentina. Partito Pirovano, praticamente, non si era più allontanata dal suo ultimogenito. L'aveva fatto sia per paura che peggiorasse di nuovo, sia per poter ragionare in pace, senza l'assillo dei problemi quotidiani dello Stato.

Aveva delegato in modo stabile le questue a Ridolfi e a Luffo Numai, imponendo, però, che il primo continuasse anche a occuparsi della questione della peste assieme a Tornielli.

Malgrado ciò, solo quest'ultimo era andato a cercarla per discutere del piano d'azione per scongiurare l'epidemia.

“Ne ho parlato con messer Ridolfi, sì...” annuì Nicolò con un sospiro: “Ma ha detto di discuterne con voi.”

La Contessa sbuffò. Lo studiolo del castellano, dove aveva deciso di incontrare il Capo dei Magistrati, le sembrava un forno, per quanto faceva caldo. La finestra era spalancata, ma non entrava altro se non afa.

La donna era seduta dietro la scrivania e Tornielli le stava davanti. Tra loro c'erano le carte che mostravano i costi stimati per i lavori di pulizia e confinamento che la Tigre aveva progettato.

Anche a uno sguardo molto superficiale, in effetti, si capiva quanto fossero ambiziosi, visto il momento difficile in cui versavano.

“Io non ho soldi personali da investire, se non in piccolissima parte.” mise in chiaro la Leonessa, abbandonandosi contro lo schienale della sedia: “Quindi, se Forlì e Imola vogliono salvarsi dalla peste, i cittadini più abbienti faranno meglio a sottoscrivere un patto con cui si impegnano a versare allo Stato quello che possono, per aiutare la popolazione in un frangente tanto critico.”

“Molti dei cittadini più abbienti, però, potrebbero ribattere che loro hanno proprietà anche lontane dalla città e che quindi potrebbero ritirarsi lì per...” cominciò a dire Tornielli, non perché trovasse quell'eventualità auspicabile, ma perché conosceva bene le dinamiche della società.

Caterina però lo freddò subito: “Ordinerò che nessuno che abbia un parente nel Consiglio Cittadino possa lasciare la città, anche nel caso in cui le porte dovessero venire chiuse. Voglio vedere se così si interesseranno alla salute pubblica...”

Nicolò pensava che quella fosse una misura poco pratica, facilmente aggirabile e che nessuno avrebbe avuto il tempo e i mezzi per farla rispettare, quando fosse stato il momento. Malgrado ciò, fece segno di sì con la testa e si mise a raccogliere i fogli che gli stavano davanti.

“Fate in modo che venga convocato un Consiglio Cittadino prima di sera. Voglio togliermi questa seccatura subito.” concluse la Sforza, alzandosi dalla scrivania e andando verso l'uscita: “Fatemi sapere per che ora dovrò trovarmi a palazzo.”

 

Quando aveva ricevuto la convocazione presso la camera privata del padre, Lucrecia aveva cominciato a pensare ai più disparati scenari.

Sancha, seguendo l'ordine del papa, era partita subito e, salvo le sue dame di compagnia – che, come sempre, capivano le cose per metà e le riferivano a modo loro – la Borja non aveva potuto parlare con nessuno né di quello che ne sarebbe stato della cognata, né di cosa sarebbe successo ad Alfonso, se per caso fosse stato trovato.

Lucrecia era riuscita a scambiare due brevissime battute con la moglie del fratello, ma aveva capito subito che l'Aragona era rimasta troppo scottata dalla pubblica accusa del Santo Padre, per accettare i suoi consigli. La guardava come se fosse stata convinta che proprio lei avesse fatto la spia con Rodrigo, e quel dettaglio aveva gettato la giovane Borja in uno stato di sconforto indicibile.

Così, nel sentirsi reclamare dal padre, non aveva potuto far altro che lasciarsi trascinare dalla propria mente verso lidi inesplorati e terribili.

Camminando lentamente verso gli alloggi papali, la ragazza alternava preghiere a maledizioni, tenendo lo sguardo basso e le mani strette sul pancione. Il figlio che portava dentro di sé si agitava come un pazzo.

In un momento di lucido panico, proprio mentre varcava la soglia dell'alloggio paterno, Lucrecia si domandò se forse il piccolo non avvertisse il pericolo e stesse cercando di convincerla a non buttarsi volontariamente tra le fauci del leone.

“Padre...” sussurrò la Borja, trovando Alessandro VI di spalle, rivolto verso le ampie finestre, le manone strette l'una nell'altra dietro la schiena: “Mi hanno detto che volevate vedermi...”

Rodrigo sospirò. Solo in quel momento la figlia si accorse del fatto che l'uomo non indossasse gli abiti papali, ma che avesse comunque in testa la papalina, per quanto storta. Il silenzio, poi, che le riservò per lunghissimi minuti, senza degnarla di uno sguardo, le fece capire quanto dovesse essere confuso e combattuto. Però, e questo era ciò che più la teneva sulle spine, non riusciva a capire quale potesse essere il motivo di tanta inquietudine.

“Che cosa devo fare, io?” chiese il pontefice, restando rivolto alle finestre: “Che cosa? Dimmelo tu, Lucrecia.”

La giovane non capiva. Fece mezzo passo avanti, ma, appena prima che potesse chiedere delucidazioni, il padre si voltò talmente di scatto da farla quasi spaventare.

Le indicò una lettera che stava sul suo scrittoietto e la fissò: “Leggila.”

La Borja deglutì e afferrò il messaggio, scritto su quello che sembrava solo uno stralcio di pagina, e, ancor prima di iniziare a leggere, finalmente comprese. Riconobbe all'istante la grafia del marito.

Alfonso le faceva sapere che era arrivato sano e salvo a Genazzano, che aveva seminato le guardie papali, che l'amava e che l'aspettava. Aggiungeva che non sarebbe partito per Napoli prima che lei lo raggiungesse.

Con le mani che tramavano un po' e gli occhi che si inumidivano, Lucrecia strinse un momento al petto la lettera e poi, cogliendo lo sguardo rapace del padre, non si arrischiò a tenerla per sé, ma la rimise sullo scrittoio.

“Non fategli del male.” fece lei, in un soffio appena udibile.

“Eri d'accordo con lui?” chiese il Santo Padre, il volto che si faceva di pietra, contratto dalla delusione e dalla rabbia.

La Borja non rispose subito. Chinò il capo, si morse il labbro e si chiese che cosa fosse meglio rispondere. Non per se stessa, ma per Alfonso.

“Sì. È stata un'idea mia.” concluse, sentendo un nodo stringersi a livello dello stomaco.

Il papa divenne color porpora, poi violaceo e infine, trattenendo a stento la voce, che si era fatta acuta a troppo rapida, chiese: “Mi stai prendendo in giro?”

Lucrecia avrebbe voluto avere la forza di dirgli di no, di fronteggiarlo, di esercitare su di lui il l'ascendente che sapeva di avere, ma che di rado riusciva a sfruttare a proprio vantaggio. E invece si trovò debole e impaurita e quando sentì le prime lacrime scivolarle dalle ciglia comprese di non essere in grado di difendere il marito come aveva creduto.

“Ma capisci in che situazione mi trovo, io?!” sbottò il papa, irritato come non mai dalla reazione della figlia.

In quel momento, gli sembrava solo una bambina viziata e senza senso pratico. Era come se stesse giocando e si fosse accorta troppo tardi di aver rotto un giocattolo prezioso che le era solo stato dato in prestito.

Non riuscendo a placare la propria rabbia, l'uomo l'afferrò per il braccio e ripeté: “Capisci in che situazione mi trovo io?!”

Nel sentire la mano del padre sopra di sé, la Borja ebbe un moto di ribellione che nulla aveva a che fare con quel preciso scontro. Era qualcosa di antico, un divincolarsi da una stretta che risaliva a tanto tempo prima, a quando ancora faticava a capire certe cose, a quando suo padre le sembrava l'unico uomo degno di esistere sulla terra, eccezion fatta per Cesare.

Sottraendo così il braccio dalla presa salda del papa, Lucrecia gridò di rimando: “E voi capite in che situazione sono io, invece?!”

Rodrigo tacque. Guardò la figlia, trovandola sconvolta, scapigliata, in lacrime, affranta come non la vedeva da tempo. Anzi, forse come non l'aveva mai vista. Nemmeno quando si era trovata ad aspettare il piccolo Giovanni gli si era mostrata in quella condizione disastrosa.

“Lo ami..?” chiese, con un tono che lasciava intendere quanto quell'ipotesi gli paresse assurda.

“Sì.” rispose la ragazza, trovando appena il coraggio di schiudere le labbra, mentre le mani correvano al ventre gonfio, come a proteggere la piccola vita che portava con sé e che simboleggiava cosa c'era tra lei e il suo Alfonso.

Alessandro VI seguì con lo sguardo quel gesto. Dapprima avvertì di nuovo l'indomabile orgoglio di padre, anzi, di nonno, nel sapere che presto sarebbe nato un nuovo membro della sua casata. Poi, però, si ricordò subito che quel bambino sarebbe stato un Aragona e non certo un Borja.

Prima che potesse evitarlo, si immaginò sua figlia stretta ad Alfonso, sorridente ed euforica, mentre lo baciava, lo stringeva, lo amava...

Quella visione per lui fu troppo e, volendo allontanare da sé in un colpo il tormento, la tentazione e la gelosia, indicò la porta e gridò: “Adesso vattene!”

“Non fategli del male, padre, vi prego, punite me, piuttosto..!” implorò Lucrecia, non muovendosi di un passo.

Il papa dovette dar fondo a tutta il – poco – autocontrollo che possedeva per non alzare di nuovo le mani: “Farò quello che posso per arginare il danno, ma l'errore è stato vostro, tuo e di quell'idiota di tuo marito. Mi avete messo in ridicolo davanti all'Italia intera. Mio genero che mi sfugge dal sotto al naso, ti rendi conto?”

La giovane non disse nulla. Le bastava quella mezza promessa. Sapeva che suo padre, in fondo, non avrebbe saputo farle del male. Un po', forse, ma non troppo. Insomma, quale che fosse la punizione che Rodrigo aveva in mente, la Borja era abbastanza sicura che almeno la vita di Alfonso fosse salva.

“E adesso vattene.” ribadì l'uomo, indicando di nuovo la porta.

Rimasto solo, Alessandro VI misurò a lunghi passi la stanza più e più volte, ragionando. Se avesse dovuto agire secondo il proprio sentire e il proprio buon senso, avrebbe fatto ammazzare Alfonso d'Aragona, e poi, a genero morto, avrebbe dichiarato guerra a Napoli all'istante, ordinando a re Luigi di Francia di dare l'esercito promesso a suo figlio e permettergli di scendere subito contro gli Aragona. Al diavolo anche Charlotte d'Albret e la sua incapacità di restare incinta in fretta!

Però Lucrecia, se lo sentiva, avrebbe fatto qualche sproposito, se avesse saputo morto il marito. E lui non poteva permetterlo. Non poteva separarsi da lei per un motivo tanto stupido, non poteva rinunciare alla sua impalpabile aura, alla sua leggerezza, alla sua bellezza...

Così, con un sospiro pesante, si risolse sul da farsi. Mandò a chiamare un paio di suoi uomini di fiducia per discutere i dettagli e, quando fu certo di ogni cosa, preparò una convocazione per il Capitano Cervillon, comandante della Guardia Palatina.

Lo avrebbe mandato subito a Napoli, a trattare con re Federico il ritorno di Alfonso. Non aveva alcuna intenzione di rivolgersi direttamente al genero. Era troppo giovane e troppo stupido per capire che quella era una mano tesa e non una trappola. Avrebbe rovinato tutto e allora al papa non sarebbe rimasta altra scelta se non eliminarlo davvero.

“Gli faremo promesse sulla sua carriera futura – spiegò Rodrigo, ai suoi consiglieri fidati – e gli diremo che dovrà raggiungere mia figlia. Non qui a Roma, però. Non lo voglio più sotto questo tetto. A Spoleto.”

Nessuno dei presenti osò contraddirlo, dato che la carica di Lucrecia a Governatrice di Spoleto e di tanti altri paesi era già stata annunciata e presto sarebbe stata effettiva.

“Quante prove che il buon Dio dà, a questo povero papa...” sussurrò alla fine Alessandro VI, mettendosi a sedere al suo scrittorio, la papalina in mano, il viso che mostrava quanto stesse soffrendo, per tutta quella vicenda: “Ma noi siamo forti, e, per quanto ci metta alla prova, dimostreremo che il papa può essere più forte assai di Dio e di tutti i suoi Santi. Lasciamo che lui comandi in Paradiso e Lucifero in inferno: a me basta che mi lascino la Terra.”

 
 
   
 
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