Come promesso, tornata dalle vacanze, eccovi un nuovo capitolo!
Perdonatemi ancora per l'attesa!
Ve lo lascio... sperando che possa piacervi, anche se personalmente non lo reputo una cosa fantastica. Nutro invece particolari speranze per il prossimo... :P
Ok, basta! evitiamo anticipazioni... XD
Enjoy it!
Era
una fresca serata primaverile. Il sole stava per abbandonare cielo,
mentre
ancora si poteva sentire l’umidità della pioggia
appena caduta sovrastare la
zona.
Il rumore di una macchina accesa rompeva la silenziosa atmosfera del
giardino dietro la clinica psichiatrica, mentre si udiva perfettamente
il suono
di passi pesanti a contatto con l’erba bagnata.
L’uomo aprì il bagagliaio della macchina con fare
disinvolto, mettendoci
dentro tutto il necessario. Lo richiuse velocemente, voltandosi poi a
dare un
ultimo sguardo alla clinica alle sue spalle.
Il palazzo era imponente nel suo complesso, articolato in mille e
più
stanze.
Quanti brutti ricordi stava abbandonando lì
dentro… troppi probabilmente.
Ma adesso, a distanza di quattro mesi, stava per dire addio a quel
palazzo.
Essere felice o meno per questo, adesso, dipendeva tutto da lui.
“Dimentichi nulla?” la voce di una donna
attirò la sua attenzione mentre,
deviando velocemente lo sguardo dall’edificio, Gregory House
andava a prendere
posto all’interno dell’auto.
“No. – bisbigliò, quasi emozionato
– Andiamocene.”
CHAP
8
Così come si provocano o si
esagerano i dolori dando loro
importanza, nello stesso modo questi scompaiono quando se ne distoglie
l'attenzione.
(Sigmund
Freud)
Gregory
House sentì quasi un brivido nel girare la chiave nella
serratura
della porta che aveva di fronte. Aprì la porta di casa con
lentezza, mentre il
cigolio di questa accompagnava il suo sguardo verso il cupo interno.
Ricordò casa sua con una nostalgia che mai avrebbe pensato
di provare.
Varcò l’entrata, andando a cercare
l’interruttore della luce. Quando le
lampade si accesero ed illuminarono il salone, si poté
vedere il disordine che
vi regnava all’interno. Era normale, per lui del resto quello
era sempre stato il
vero ed assoluto ordine.
Fece qualche passo, entrando nel salone e bloccandosi al centro di
questo. Il suo sguardo vagò libero, posandosi prima sulla
fredda superficie del
pianoforte, su quei tasti bianchi e neri ancora scoperti
dall’ultima volta che
l’aveva suonato. Le sue chitarre erano ancora sulla parete,
tranne una: quella
classica. Ricordava ancora la melodia che aveva composto quella volta
quando,
stanco di una giornata lavorativa, si era deciso a comporre qualcosa di
nuovo.
Fu colto da mille ricordi, nostalgie.
La sua amata tv, il divano dove faceva dormire Wilson nei giorni
più bui
per l’oncologo, ma divertenti per lui.
Entrò zoppicando in cucina, accendendo anche lì
la luce della lampada.
Aprì il frigorifero, notando che ormai
l’apparecchio era spento e vuoto. Capì
subito che Wilson era stato a casa sua dopo il suo ricovero, per
sistemare ciò
che doveva esser sistemato. Il minimo indispensabile.
Rimase a guardare lo spoglio interno di quel frigorifero mentre la
mente
andava a ricercare ricordi passati.
Ormai non sentiva Wilson da molto tempo.
Più di una volta era tornato a trovarlo in clinica
nell’ultimo mese ma
lui aveva sempre rifiutato di vederlo o di parlare con lui,
categoricamente. In
realtà non sapeva nemmeno il perché. Il fatto che
l’ultima volta che si erano
visti l’oncologo gli aveva rinfacciato i suoi
non-progressi… l’aveva spinto a
non voler più farsi vedere nemmeno da lui. Odiava essere
commiserato. Odiava il
fatto che qualcuno gli sbattesse in faccia la vera e cruda
verità. Anche se era
strano da parte sua pensarlo, del resto quella era la cosa che aveva
sempre
fatto lui con tutti.
Eppure, solo ora si rendeva conto di quanto potesse essere dura e di
quanto i sentimenti potessero influenzare tanto un’amicizia.
Ci vogliono anni per coltivare una relazione con qualcuno, per renderla
una amicizia come quella che c’era stata tra lui e James
Wilson. Eppure, non ci
vollero nemmeno 10 minuti per distruggerla. Poche parole da parte
dell’oncologo
e lui aveva mandato all’aria tutto ciò che Wilson
per lui simboleggiava: un
amico.
Ma adesso era a casa.
Era tutto finito.
E forse sarebbe tornato tutto alla normalità.
Forse.
“Wow, non ti avevo mai visto così concentrato
nella contemplazione di un
frigorifero...”
Una voce lo destò dai suoi pensieri, costringendo a voltare
lo sguardo
“Effettivamente mi mancava il mio vecchio frigo.. ah, quanti
bei ricordi…”
“Già, non oso immaginarli. - la donna si
avvicinò a lui, chiudendo lo
sportello del frigo e guardandolo con aria sospettosa – Tutto
a posto?”
“Avevo fame, il frigo è vuoto… ma non
lo classificherei ancora come un
trauma. Aspetterei qualche ora per questo.”
Jenny Dawson gli sorrise divertita, andando ad aprire il rubinetto
della
cucina per vedere se l’acqua scendeva “Ok. Allora
aspetterò fino a questa sera
per rifarti la domanda.”
House la vide voltargli le spalle e uscire dalla cucina.
Cielo, quanto detestava quella psicologa quando non si impegnava a
rompergli le scatole!
“Non avrai intenzione di rimanere qui fino a questa sera,
spero.” la
seguì nel salone, chiudendo il rubinetto
dell’acqua che pochi istanti prima la
donna aveva aperto.
Jenny si voltò verso di lui, con aria sorpresa
“Sono già le 20.00. Se
vuoi che me ne vada… non ci sono problemi.”
House si sorprese nel vedere quanto la donna di fronte a lui avesse
preso
sul serio quelle parole.
“No.” la guardò ovvio.
Jenny sorrise amichevole, capendo, in quel momento,
l’importanza del suo
ruolo.
“Allora….- si mise le mani ai fianchi, inclinando
leggermente il capo –
Andiamo a mangiare qualcosa?”
House aprì l’armadio a muro, iniziando a rovistare
“No.”
“Credevo avessi fame.”
“Ho detto che il problema si sarebbe presentato tra qualche
ora…- spiegò
il diagnosta con ovvietà, mentre continuava a rovistare tra
vari scatoloni – Se
poi il tuo concetto di ora è così limitato, il
problema non è mio.”
“Che diavolo stai combinando?”
House sbuffò seccato, continuando la sua ricerca.
“Greg?!”
“Non dirmi che Wilson ha fatto sparire pure il
Whisky?!”
Jenny si avvicinò perplessa al diagnosta “Tu tieni
il Whisky dentro l’armadio
con le scarpe?”
House si voltò titubante, poi fece spallucce
“Storia lunga.”
“Ok, credo che il tuo amico abbia fatto, come mi sembra
doveroso che
qualcuno faccia ogni tanto, un po’ di piazza pulita in
casa.”
Gregory House sbuffò nuovamente, staccando da una cruccia un
cappotto
leggero e buttandoci dentro la giacca che teneva addosso.
“Che fai?”
“Andiamo”
“Dove di preciso?”
“A bere qualcosa.”
*
* * * * *
Gregory
House e Jenny Dawson entrarono in un piccolo locale abbastanza
frequentato, a metà strada tra casa di House e
l’ospedale di Princeton.
Luogo vicino e poco impegnativo, spesso frequentato dal diagnosta nei
primi anni lavorativi in quella città.
Eppure, nonostante la folla all’interno del locale, i due riuscirono presto a trovare
un tavolino dove
sedersi.
House ordinò subito un bicchiere di Whisky mentre Jenny
preferì qualcosa
di più leggero. Se c’era una cosa in cui lei ed
House non si assomigliavano per
niente, quella era il vizio di bere.
House beveva alcol come fosse acqua.
Jenny beveva alcol come se fosse droga, ergo: proibita.
“Ti senti meglio adesso?” sospirò
rassegnata, nel vederlo mandar giù il
terzo bicchiere di Whisky.
“Cameriere, un altro prego!” annuì
House, intonando un modo di parlare
non molto tipico della sua persona.
“Piantala o puzzerai di alcol per un mese intero!”
“Rilassati. – la rassicurò lui,
inclinando il capo nella sua direzione – È
tutto a posto. Ci vorrebbero almeno due barili di alcol puro per
rendermi
brillo.”
“Beh, non è una giustificazione per farlo! Non sai
che l’alcol fa male al
fegato?”
“Tu piuttosto, prendi qualcos’altro. Offro
io.” la ignorò lui.
Jenny scosse il capo, scossa da quel suo atteggiamento.
Il cameriere non tardò ad arrivare e nel giro di poco ad
House venne
servito anche il quarto bicchiere. House fece un sorrisino soddisfatto
nel
vedere il bicchiere posarsi sul tavolo e inarcando le sopracciglia in
un
espressione di gioia lo prese e fece per portarlo alla bocca quando,
improvvisamente, lo sentì appesantirsi.
Jenny Dawson aveva messo la mano sul bicchiere, facendo pressione in
modo
che il diagnosta fosse costretto a riposarlo sul tavolo.
“Non posso vederti fare così. –
esclamò poi – Non è tutto a posto, lo
sai
benissimo. Te lo si legge in faccia.”
House la guardò rassegnato, mollando la presa dal bicchiere.
Sbuffò.
Come al solito, Jenny aveva colpito un punto debole.
La donna si rilassò, sospirando “Cosa pensi di
fare?”
“Domani vado in ospedale. Devo riprendere a lavorare o
impazzirò
veramente.- le rispose House, assumendo un tono ed uno sguardo
piuttosto serio
– E quattro mesi di ospedale psichiatrico mi son bastati,
grazie.”
“Vuoi che ti accompagni?”
“Non
c’è bisogno. L’ho già fatto
altre volte.- la rassicurò ironico il diagnosta –
Anzi, grazie per il passaggio
a casa. Non penso avrei osato chiamare Wilson per farmi venire a
prendere.”
La psicologa lo guardò titubante, indecisa se dargli retta o
meno
“Sicuro?”
“È ora che io torni.” si
limitò a dire l’uomo.
Jenny sospirò, guardando l’ora
sull’orologio che portava al polso.
“Si è fatto tardi, devo tornare a sistemare le
ultime cose a casa. – bisbigliò,
alzandosi dalla sedia. Poi prese la giacca e, voltandosi verso House,
con un
sorriso sussurrò – Tu invece perché non
passi da Wilson? Gli farebbe piacere
sapere che sei stato dimesso.”
Il diagnosta fece spallucce “Gli farà lo stesso
piacere se mi vede
domani”
“Si ma se lo vai a trovare ora, assume tutto un altro
significato.”
“Ah, questo certamente! Soprattutto se sente che ho
bevuto!” ironizzò
House, strabuzzando gli occhi con fare disinvolto.
Jenny scosse il capo, rassegnata all’evidenza che House era
House… e che
nessuno poteva farci nulla. Anche se, e le dispiaceva, con la sua
cocciutaggine
stava allontanando tutti coloro che fino ad allora gli erano stati
vicini.
E questo, per lui, non era affatto un bene.
“Ci vediamo!” lo salutò con un cenno,
allontanandosi dal tavolino.
Sorrise nel vedere che al posto di rispondere al saluto House era
rimasto
con lo sguardo fisso sul bicchiere di Whisky ancora pieno, perso nei
suoi
pensieri.
Quello era un buon segno che fece capire subito alla psicologa
ciò che
stava passando per la testa al diagnosta.
House
rimase a fissare l’alcol contenuto nel bicchiere con insolito
interesse.
Il liquido sembrava voler scendere giù dai bordi da un
momento all’altro,
tanto ne era colmo l’oggetto di vetro.
“Fare visita a Wilson.” sorrise divertito,
prendendo finalmente in mano
il bicchiere e portandoselo alla bocca.
Bevve un sorso, poi lo riposò sul tavolo.
“Wilson.” ripeté tra sé e
sè.
La verità era che gli mancava troppo la figura
dell’amico. Gli mancavano
le serate passate a mangiare pizza, a bere e a sparlare le infermiere
più
antipatiche… o quello che l’oncologo riusciva a
portarsi a letto. Gli mancavano
i suoi rimproveri, le ramanzine, le lavate di capo che gli facevano
venire le
idee più assurde per risolvere i casi clinici più
impossibili.
Gli mancava il suo lavoro.
I suoi sottoposti.
Gli mancava lei: Lisa Cuddy.
Ebbene si, durante quell’ultimo mese che aveva passato nel
tentativo di
dimenticarla… non ne era stato capace.
L’unica cosa che l’aveva aiutato a venirne fuori
era stato il fatto di
riuscire a controllare i sentimenti per lei.
Perché per Gregory House, dimenticare Lisa Cuddy, era come
ammettere di
non sapere nulla di medicina.
Scostò la sedia con fare improvviso, ricacciando indietro
quei pensieri e
deciso in quel che doveva fare.
Si mise in piedi, prendendo in mano la giacca e posando sul tavolo un
paio di banconote.
Jenny aveva ragione.
Jenny aveva sempre ragione.
Si diresse con passo spedito verso l’uscita del locale,
salendo i due
scalini che immettevano nell’ingresso dove vi stava il
bancone.
“Me
ne dia un altro bicchiere.”
Un
sussurro.
Una voce familiare.
House bloccò il passo, sul pavimento il tonfo del bastone
rimbombò quasi
delicatamente.
Si era forse sbagliato?
Si voltò verso il bancone, notando la figura di una donna,
seduta di
spalle, mandare giù velocemente il liquido contenuto nel
bicchiere che pochi
attimi prima il barista le aveva riempito.
Era vestita con dei pantaloni scuri e una camicia color panna, mentre
dei
capelli castano scuro le scendevano un po’ sotto le spalle.
Sentì un brivido percorrergli la schiena al pensiero che
quelle spalle
potessero appartenere a Lisa Cuddy.
No, impossibile.
Lei non era il tipo da stare in locali del genere la sera tardi, da
sola poi.
Si stava sicuramente sbagliando… infondo aveva mandato
giù un bel po’ di
Whisky quella sera, no? Sa quante donne possono avere quel tipo di
capelli e la
voce identica alla sua!... mica era unica nel suo genere!
Strinse il manico del suo bastone con insolito nervosismo, senza
nemmeno
rendersi conto di essersi fermato nel bel mezzo del locale a fissare
una donna
seduta di spalle.
E destino vuole che ogni volta che una persona fissa qualcuno in
maniera
così intensa, quel qualcuno è sempre arcanamente
chiamato a voltarsi.
E questo fu quel che accadde in quell’istante.
Vide il suo viso voltarsi debolmente a guardare in dietro, gli occhi
stanchi.
No, non si era sbagliato.
Era proprio lei.
Era Cuddy.
Sentì l’impulso irrefrenabile di ignorare il suo
sguardo e di uscire
prima che lei potesse rendersi conto della sua presenza…
ciononostante rimase
immobile nella sua posizione.
La dottoressa guardava proprio nella sua direzione adesso, sul viso
un’espressione confusa. Poi, improvvisamente, il terrore.
Si era resa conto di chi aveva di fronte.
Si era resa conto che di fronte a sé ci stava Gregory House.
La vide sussultare mentre le sue labbra andavano aprendosi in un
espressione attonita.
“House?!”
…sarebbe stato in grado di ignorarla ed uscire
dal locale?
To
be continued…