Capitolo terzo
I like to
make-believe with you
Da, da, da, da, do, do, do
That we always speak the truth
I like how we pretend the same
Da, da, da, da, do, do, do
Play this silly little game. Hey!
I've got some
things to say
'Cause there's a lot that you don't know
It's written on my face
It's gonna be hard to swallow
(Everybody's got a secret)
I got some things to say
(Everybody's got a secret)
(“Secrets” – Pink)
Le parole di Albizzi avevano operato
proprio quello per cui erano state concepite, ossia insinuare l’ombra del
dubbio in Giovanni. Il ragazzo fino a quel momento aveva nutrito una fiducia
illimitata in Cosimo de’ Medici, l’uomo che stava riportando Firenze alla sua
grandezza, l’uomo che anche suo padre ammirava tanto… ma quello che Rinaldo
Albizzi gli aveva detto non voleva uscirgli dalla testa.
Se avesse soltanto fatto allusioni alla
disonestà dei Medici, al fatto che fossero dei lanaioli arricchiti e degli
usurai, Giovanni non lo sarebbe stato nemmeno a sentire: aveva visto Albizzi
due volte, ma gli era bastato per capire che era fondamentalmente invidioso del
potere e del prestigio dei Medici.
Eppure quell’accenno a un atto meschino
da parte del padre di Cosimo, un atto che aveva danneggiato la famiglia
Albizzi…
Giovanni era, come si può ben
immaginare, molto sensibile riguardo a simili argomenti. Del resto era venuto a
Firenze proprio per riabilitare il nome della sua famiglia, osteggiata,
calunniata, cacciata e oltraggiata per nient’altro che l’invidia di una
famiglia rivale, che poi aveva trascinato con sé tutte le altre. Possibile che
il padre di Cosimo avesse fatto una cosa simile alla famiglia Albizzi?
Quel dubbio tormentava talmente Giovanni
che alla fine, qualche sera dopo, andò a parlare proprio con Cosimo per
togliersi il pensiero una volta per tutte.
Nel frattempo a Firenze si era scatenata
la peste (sì, in quei giorni non si facevano mancare proprio niente, ogni
giorno una novità!) e Cosimo e la sua famiglia si stavano preparando a partire
per trasferirsi nella loro villa di campagna con la speranza di
sfuggire al contagio.
Giovanni scelse
proprio quella sera per fare la sua domanda indiscreta al Medici.
“Messer Cosimo, sono
giorni che mi tormento per una cosa che mi è stata detta, una cosa che non
riesco a credere sia vera perché vi conosco e vi stimo come uomo avveduto e
corretto, che mi ha accolto con grande generosità pur non conoscendomi. Eppure
questa storia mi fa pensare e ripensare e non so…” esordì il ragazzo. Un altro,
al suo posto, sarebbe stato imbarazzato, insicuro, ma Giovanni degli Uberti?
Per niente!
“Va bene, dimmi pure
che cosa ti angustia tanto e cercherò di aiutarti” rispose Cosimo, incuriosito.
“Vi prego di non
fraintendermi, ma io devo capire” riprese Giovanni. “Cos’è successo tra voi e
Messer Albizzi quando eravate ragazzi? E’ vero che vostro padre ha cercato di
rovinare la sua famiglia?”
“Questa storia te l’ha
raccontata Albizzi, non è così?” fece l’uomo, rabbuiandosi. Si chiese anche, per
inciso, come Rinaldo avesse trovato il tempo e il modo di mettere in testa al
ragazzino quell’idea… ma, evidentemente, le sue vie erano infinite come quelle
di Nostro Signore!
“Mi ha detto soltanto
che non dovevo fidarmi di voi, che non farete niente per aiutare la mia
famiglia perché, anzi, voi Medici
siete capaci solo di distruggerle, le famiglie. E di chiedere a voi per saperne
di più. E io appunto mi sono chiesto se vostro padre potesse aver agito
scorrettamente con gli Albizzi, se potesse aver fatto qualcosa di così meschino,
così come i Donati fecero con la mia famiglia. Voi lo capite che io questa cosa
devo saperla, vero?” e sì, si capiva benissimo che per Giovanni la faccenda
stava diventando fin troppo personale.
“Purtroppo quello che
Albizzi ti ha detto è vero” ammise Cosimo, con lo sguardo perso nei suoi
pensieri. “Vent’anni fa io e lui eravamo diventati amici, tanto che Rinaldo mi
parlò di un affare importante che la sua famiglia aveva per le mani,
chiedendomi un parere da amico. Si fidava di me, voleva un mio consiglio…”
Si vedeva proprio
quanto il ricordo di quella storia tormentasse ancora il Medici.
“Mio padre iniziò a
farmi tante domande su Rinaldo e sugli affari della sua famiglia, fino a
spingermi a raccontargli tutto” riprese, affranto. “A quel punto lui usò le
informazioni che aveva avuto da me per mandare a monte l’affare degli Albizzi,
fargli perdere molti soldi e farli estromettere dalla Signoria. So che il vero
responsabile di tutto ciò è mio padre, ma io penso tuttora che non avrei dovuto
farmi manipolare così da lui, fui un ingenuo… e Rinaldo non me l’ha mai
perdonato. Tutto il male che sta cercando di fare ora alla mia famiglia e i
disordini che crea in Firenze, alla fine, nascono da questo e io non posso non
sentirmene in parte colpevole.”
Giovanni era
pensieroso.
“Sì, posso
comprendere il rancore di Messer Albizzi. In effetti quello che vostro padre ha
fatto è stata, con il dovuto rispetto, una gran carognata” commentò con la
consueta schiettezza che molto spesso sconfinava nella sfacciataggine. “Comunque
mi rincuora sentire che voi non volevate affatto danneggiare quella famiglia e
che, quindi, ho avuto ragione a fidarmi di voi fin dal principio. Mio padre
faceva bene a credere in voi e ad ammirarvi.”
Cosimo sorrise. La
disamina di Giovanni lo faceva sembrare più maturo della sua età, aveva saputo
comprendere la situazione e viverla dal punto di vista di entrambe le parti, in
modo equilibrato. Sicuramente questo gli veniva dai saggi insegnamenti di suo
padre e suo nonno, che lo avevano cresciuto nel culto della famiglia Uberti e
dell’antenato Farinata. Il Medici cominciò a pensare a un progetto, ancora
piuttosto vago nella sua mente, ma abbastanza forte da insediarvisi: e se
avesse cercato di sfruttare la capacità di empatia di Giovanni per ricucire lo
strappo tra lui e Rinaldo? Forse l’intervento di una persona estranea ai fatti
e tuttavia in grado di provare solidarietà per entrambi avrebbe potuto
migliorare le cose e questo sarebbe stato un grande guadagno anche per Firenze,
che di certo non aveva bisogno di lotte intestine (no, aveva già abbastanza
guai per conto suo…).
“Ti ringrazio,
Giovanni. Mi rimprovero spesso di essere stato troppo fiducioso e non riesco a
perdonarmi per essermi fatto usare da mio padre, penso che avrei potuto fare di
più, ma ora le tue parole mi fanno capire che potrebbe esserci un’altra strada
per risolvere questa ostilità e riportare la pace a Firenze” concluse Cosimo,
senza meglio precisare quale potesse essere questa altra strada.
Giovanni, però, non
se ne preoccupò minimamente perché, con tutta evidenza, non pensava che la cosa
lo coinvolgesse più di tanto. Era invece contento di poter contare sul Medici e
di aver avuto risposta a quegli interrogativi che lo avevano tanto turbato. Per
lui la cosa finiva lì.
Che ingenuo!
Il giorno dopo, la
famiglia Medici partì per la campagna, mentre Giovanni e Marco Bello, il
servitore personale di Cosimo (e sicario a tempo perso…), scelsero di restare a
Palazzo Medici per monitorare la
situazione. In realtà, il problema principale era monitorare Albizzi.
L’uomo aveva deciso
di approfittare dell’assenza dei Medici da Firenze per mettere a segno alcuni
colpi che gli permettessero di rovinarli. Aveva iniziato con l’accusare Cosimo
durante un Consiglio dei Priori, sottolineando che stava sprecando le risorse
della città per l’edificazione di quell’inutile cupola e che, tanto per
cambiare, era un usuraio e non aveva il diritto di far parte della Signoria. Il
Gonfaloniere Guadagni, però, che aveva sentito quel discorso già un milione di
volte, aveva respinto tutte le accuse al mittente, lasciando Albizzi alquanto
indispettito.
Vista l’impossibilità
di convincere il Gonfaloniere e i Priori, Albizzi aveva avuto la brillante idea
di andare direttamente sulla scena del
crimine, ossia nella Cattedrale dove gli operai stavano continuando a
costruire la cupola che ormai, a quanto sembra, vedeva come una nemica
personale.
“La Signoria non fa
nulla” pontificava davanti a tutti coloro che erano disposti a starlo a
sentire, ancora parecchio alterato perché, appunto, il Gonfaloniere gli aveva
risposto picche. “Non ha a cuore gli
interessi del popolo di Firenze e preferisce proteggere il tiranno che ha
scatenato questa peste sulla nostra città. Cosimo dice che la cupola è per Dio,
ma in realtà è chiaro che è per lui, che sta cercando di comprare Dio esattamente
come compra gli uomini.”
Gli operai avevano
interrotto i lavori e stavano a guardarlo e ad ascoltarlo, qualcuno pure
coinvolto, altri probabilmente si chiedevano se questo non si fosse messo in
testa di essere il nuovo Messia.
“Cosimo finanzia con
l’usura questa atrocità” continuò, riferendosi alla cupola. Beh, sarebbe
rimasto male se avesse saputo che, nei secoli a venire, la cupola del
Brunelleschi da lui definita atrocità
sarebbe diventata meta ambita per i turisti di tutto il mondo… “Io vi imploro,
gettate a terra i muri di questa empia cupola, denunciate Cosimo de’ Medici
davanti a Dio e Dio vi salverà da questa piaga. Io stesso sfamerò e pagherò
ogni uomo che lo farà!”
Rinaldo Albizzi non
sapeva di avere due ospiti indesiderati in mezzo agli spettatori del suo show così ispirato, tipo predicatore di
qualche setta: uno era Marco Bello che, avendo ascoltato abbastanza, si
affrettò a raggiungere Cosimo nella villa di campagna per avvertirlo delle
manovre del rivale.
L’altro era Giovanni.
Giovanni, che aveva
le sue ragioni personalissime per volere l’edificazione della cupola e che
sembrava aver preso gusto a contraddire pubblicamente Rinaldo Albizzi ogni
volta che si imbatteva in lui, nemmeno fosse diventata la missione della sua
vita.
Quando decise che la
misura era colma, sbucò fuori dal gruppo di operai in mezzo ai quali si trovava
e, con un’invidiabile disinvoltura, si rivolse alla folla di gente proprio come
aveva fatto Rinaldo fino a pochi attimi prima.
“Cittadini di Firenze”
esordì con una certa qual teatralità, probabilmente messa su appositamente per
ridicolizzare l’enfasi di Albizzi, “vi sembra normale che la nostra patria sia
priva di un Duomo di grande importanza, come invece hanno altre città come
Milano o Roma? Questa Cattedrale è un capolavoro e potrebbe essere il vanto e
il prestigio della Repubblica… ma non potrà esserlo finché non sarà consacrata,
e non potrà essere consacrata se manca la cupola.”
Il ragionamento di
Giovanni non faceva una piega, sebbene mancasse dei toni drammatici e dell’atmosfera
apocalittica del discorso di Rinaldo Albizzi, e parecchi operai distolsero lo
sguardo dall’uno per posarlo sul ragazzo giunto così inaspettatamente alla
ribalta.
“Messer Albizzi dice
che questa cupola è maledetta e che per questo Dio ci ha mandato la peste”
obiettò un tale, a quanto sembrava particolarmente suggestionabile.
Giovanni assottigliò
lo sguardo. Quello era un punto sul quale non intendeva transigere.
“Io diffido già per
principio di tutti coloro che si arrogano il diritto di parlare per conto di Dio”
replicò senza tanti giri di parole. “Io discendo dagli Uberti e la mia famiglia
è stata calunniata e poi cacciata da Firenze per false accuse di eresia, messe
in giro da altre famiglie nobili che erano invidiose del potere e del prestigio
dei miei antenati. Nessuno può essere tanto presuntuoso da sentirsi il
portavoce di Dio, a meno che quel qualcuno non sia Mosè o Abramo o qualcun
altro dei Profeti, intendo!”
A quelle parole, diversi
tra gli operai iniziarono a sghignazzare: in effetti Albizzi, durante il suo
discorso, aveva tutta l’aria di Mosè quando alza il bastone e separa le acque
del Mar Rosso…
Rinaldo era rimasto
impietrito per qualche minuto. Non poteva essere. Quel ragazzino stava
diventando il suo incubo peggiore. E, oltretutto, adesso si permetteva pure di
ridicolizzarlo davanti alla gente di Firenze?
Eppure c’era qualcosa
in quel ragazzo, qualcosa che lo attirava, forse proprio quel suo carattere
impertinente e arrogante, quella sua spavalderia e spregiudicatezza che un uomo
come lui non poteva fare a meno di ammirare e che gli risvegliava degli strani
impulsi, che andavano dallo strangolarlo con le sue proprie mani al fargli
molte altre cose che, per decenza, non starò ad elencare…
Così la sua reazione
fu veemente in tutti i sensi.
“Adesso mi hai
veramente seccato, tu!” esclamò, afferrandolo per un braccio e trascinandolo
fuori dal Duomo senza troppe storie. S’infilò nel primo vicoletto deserto che
trovò, imprigionò Giovanni contro il muro e… e lo baciò con un’intensità e una
forza che non si sarebbe mai immaginato nemmeno lui.
Quando, finalmente,
lo lasciò andare, si sentì pure in dovere di spiegare quell’atto impulsivo a un
Giovanni per una volta rimasto davvero senza parole (e che non aveva ancora
nemmeno capito bene la dinamica degli avvenimenti!).
“A quanto pare ho
trovato il modo per farti stare zitto” disse, mentre il ragazzo lo fissava con
un paio d’occhi sgranati, pensando con ogni evidenza che l’uomo avesse perso
totalmente la ragione. “Ti diverti tanto a sfidarmi, eh? Ma non è nel tuo
interesse, te l’ho già detto. Non hai capito che solo io ti posso aiutare a riabilitare il nome della tua famiglia?
Non aspettarti che quell’usuraio di Cosimo possa fare qualcosa per te, lui è
capace soltanto di usarle, le persone.”
“Gli ho parlato di
quella storia che mi avete raccontato, Messer Albizzi, e lui mi ha spiegato
come sono andate realmente le cose” replicò Giovanni che, nonostante tutto, non
poteva restarsene zitto più di tanto. “Quello che ha fatto il padre di Messer
Cosimo è una carognata bella e buona, ma lui non ha colpe, è stato raggirato e
usato. E io capisco benissimo come vi sentite, la mia famiglia ha sperimentato
inganno e tradimento sulla sua propria pelle, ma Messer Cosimo non è quel
vigliacco di suo padre.”
Suo malgrado, ad
Albizzi scappò un sorrisetto.
“Immagino che tu non
ti sia fatto scrupoli a dire in faccia a Cosimo quello che pensi di suo padre”
commentò, divertito. “Carogna, vigliacco… confesso che mi sarebbe piaciuto
essere presente.”
“Certo che gliel’ho
detto, non penserete mica di avere l’esclusiva, non me la prendo con voi per
partito preso, solo quando dite qualcosa di irragionevole e questo, purtroppo,
capita spesso ma…”
“Non un’altra parola,
ragazzino impertinente. Per oggi sono stato fin troppo paziente con te e ti
assicuro che non è la mia dote migliore” lo interruppe Albizzi.
“Ah, su questo non ho
dubbi” scappò detto a Giovanni, che però si bloccò subito quando vide lo
sguardo truce dell’uomo posarsi su di lui. Era vero, quel giorno aveva sfidato
fin troppo la sorte!
E il vero problema
era che non aveva la minima idea di ciò che quella sua sfacciataggine suscitava
in Rinaldo Albizzi…
“Ad ogni modo, ti
ripeto che non puoi fidarti di quel Medici” riprese l’uomo. “Se veramente vuoi
che il nome della tua famiglia venga riabilitato, devi appoggiare me. Sarebbe
la scelta più logica in ogni senso, cos’ha a che spartire un
Uberti con una famiglia di lanaioli del
Mugello? Le famiglie nobili devono stare unite per non perdere il
predominio su Firenze a favore di questi arricchiti senza morale!”
“Uniti come i Donati
con gli Uberti?” obiettò Giovanni. Beh, qualche sassolino dalle scarpe se lo
voleva togliere anche lui…
“Io non sono un
Donati, ragazzo, questo tienilo bene a mente. E, tanto perché tu lo sappia, la
casata dei Donati e quella degli Albizzi non sono mai andate molto d’accordo,
per usare un eufemismo” ribatté Rinaldo. “Te l’ho già detto e te lo ripeto:
rifletti bene a proposito del partito da appoggiare, e poi torna a cercarmi
quando avrai fatto la scelta giusta.”
Detto questo, Albizzi
girò i tacchi e se ne andò.
Santa
pace, ma a Firenze bisogna per forza stare dalla parte di qualcuno? Io voglio
soltanto riabilitare il nome della mia famiglia,
pensò Giovanni, guardandolo andar via.
Era sempre, sempre
più confuso…
Fine capitolo terzo