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Autore: Parmandil    10/06/2019    1 recensioni
Per trent’anni il Cimitero di Procyon è stato fra i luoghi più pericolosi della Galassia, meta di ladri, pirati e trafficanti d’armi, in cerca delle micidiali tecnologie del Fronte Temporale. Ma ora qualcosa si muove. Nato dalla fusione casuale dei relitti, o forse da un oscuro proposito, il Melange è uno strumento di distruzione che conserva l’antica missione: schiacciare l’Unione Galattica. Ogni nave che incontra viene sconfitta e assorbita, rendendolo ancora più pericoloso.
Così accade anche alla Keter; ma il suo scafo in neutronio la rende un osso troppo duro da digerire. Al comando di un nuovo Capitano, i nostri eroi devono finalmente diventare una squadra, annientando il Melange prima che questo distrugga Andoria. Mentre ciascuno di loro svela qualcosa del suo passato, tutti quanti affrontano la scelta più difficile: fuggire dal nemico o perire con esso.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andoriani, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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-Capitolo 4: L’uscita al sole

 

   Il terzo giorno di permanenza nel Melange vide Dib, Vrel e Zafreen profondamente immersi nella programmazione del computer. Avevano già messo a segno alcune piccole vittorie. Controllavano i sistemi ambientali della Makemake, per garantire il ricambio d’aria alla saletta in cui erano confinati. Avevano accesso ai sensori, per controllare cosa avveniva nelle altre parti del Melange e, in parte, anche all’esterno. Ma gli obiettivi principali continuavano a sfuggirgli.

   «Il mio 47° tentativo di disattivare gli armamenti del Melange è fallito» annunciò Dib. «Voi avete qualcosa da riferire?».

   «Io ho fatto progressi col sistema di guida» disse Vrel, con gli occhi che bruciavano per la notte insonne di lavoro. «Forse riusciremo a deviarlo, questo bastardo. Lo spediremo dritto nel sole!».

   «Non ci resta molto tempo» avvertì Zafreen, china su una consolle al capo opposto della stanza. «Siamo usciti dalla curvatura a poca distanza da Andor. Lo schieramento dell’Unione è davanti a noi e presto...». La nave vibrò leggermente quando gli scudi multipli del Melange assorbirono l’attacco federale. «Ecco, la battaglia è iniziata» avvertì l’Orioniana.

   «Le altre squadre che fanno? E la Keter?» chiese Vrel.

   «Le squadre hanno incontrato droni e altri ostacoli» spiegò Zafreen. «La Squadra 2 ha piazzato solo le prime cariche, poi si è fermata. La 3 ha eliminato parecchie navi Vorgon, ma anche così il Melange è all’85% della funzionalità. Quanto alla Keter, forse può ripartire... ma anche questo non basterà a frantumarlo».

   «Frell, non c’è niente che basti!» imprecò il timoniere. Attorno a loro il Melange vibrò ancora.

   «Gli scudi resistono e siamo sempre più vicini ad Andoria!» avvertì Zafreen. «Se volete fare un ultimo tentativo, questo è il momento».

   «Facciamolo, sì» disse Vrel, il volto febbricitante. Lui e Dib digitarono freneticamente le sequenze informatiche per falsificare le telemetrie dei sensori. Sostituirono Andor e i suoi satelliti con il sole andoriano.

   «Ecco!» disse Vrel, premendo l’ultimo comando. «Ora, se siamo fortunati... finiremo inceneriti» aggiunse caustico.

   «Sembra che funzioni» disse Zafreen, controllando i dati dei sensori. «Il Melange ha cambiato rotta».

 

   Con metà della flotta federale in panne, le venti navi rimanenti circondavano il Melange sparando a tutto spiano, ma con sempre minori speranze di ottenere qualcosa. L’agglomerato era ancora illeso e da un momento all’altro avrebbe colpito i satelliti andoriani. Sulla plancia dell’Enterprise, T’Vala si sentiva sempre più alle strette.

   «Il Melange sta completando l’aggiramento di Andor» avvertì Terry. «Fra un minuto avrà tiro libero per Andoria».

   T’Vala osservò la luna ghiacciata che sorgeva dalla superficie azzurrognola del gigante gassoso. Al di sotto dello Scudo Planetario, sette miliardi di persone erano raccolte in profonde caverne, o nei bunker allestiti durante l’ultima guerra, o semplicemente nelle proprie case. Il loro destino era appeso a un filo. «Timoniere, frapponiamoci sulla linea di fuoco» ordinò T’Vala.

   «Non resisteremo a lungo contro il Melange» avvertì Terry.

   «Lo so».

   I primi siluri e raggi distruttori balenarono contro Andoria, venendo parzialmente intercettati dall’Enterprise. Gli scudi calarono a vista d’occhio. Con un simile torrente di fuoco, bastavano pochi secondi per distruggere la nave. Ma incredibilmente il Melange smise di colpire e virò di 90 gradi, dirigendosi a tutto impulso verso il sole andoriano.

   «E adesso che fa?!» chiese il Primo Ufficiale, incredulo. «Ha deciso di suicidarsi?».

   «Forse le squadre della Keter lo hanno sabotato» intuì Terry. «Lo inseguiamo?».

   «Negativo, potremmo indurlo a riprendere la vecchia rotta» disse T’Vala. «Approfittiamo di questa pausa per riprenderci e intanto teniamolo d’occhio».

 

   Senza nulla che lo ostacolasse, il Melange dirigeva verso il sole. Man mano che si avvicinava alla corona stellare, la temperatura aumentava, finché raggiunse alcune migliaia di gradi. C’era un’enorme eruzione ad arco in corso e il Melange l’attraversò come se niente fosse. Gli scudi continuavano a proteggerlo dall’aumento di calore. Nelle sue profondità, però, qualcosa si muoveva. Una serie d’esplosioni segnò la superficie, staccando grossi brandelli di scafo, che furono attirati dalla stella. Appena oltrepassarono gli scudi iniziarono ad arrossarsi e a fondersi. In fondo alla voragine fece capolino uno scafo violaceo, che si scuoteva selvaggiamente.

   «Non sono le stelle che mi aspettavo... ma almeno è una stella» commentò il Capitano Hod, osservando la fotosfera sempre più vicina. «Che sta succedendo?».

   «Il Melange ha cambiato rotta» riferì l’addetto ai sensori. «Stiamo per tuffarci nel sole».

   «Allora è il momento di uscire» decise il Capitano. «Timoniere, ci porti a mezzo impulso. Dobbiamo disincagliare la nave».

   «Dobbiamo anche liberarci dagli insetti» aggiunse Norrin. Prese di mira alcune Work Bee che stavano cercando di avvolgere nuovamente la Keter nei cavi e le distrusse una dopo l’altra con i raggi anti-polaronici. Ma il Melange era cocciuto: ogni volta che una Work Bee era distrutta, un’altra prendeva immediatamente il suo posto. «Fatevi sotto... non siete in numero infinito» borbottò l’Hirogeno, continuando ad abbatterle con tiri precisi.

   D’un tratto la luce abbagliante della fotosfera lasciò lo schermo, che divenne nero. Gli ufficiali lo fissarono disorientati.

   «Abbiamo cambiato di nuovo rotta» confermò l’addetto ai sensori. «Stiamo tornando verso i mondi andoriani. Temperatura esterna in rapida diminuzione».

   «Non è facile ingannare il Melange» comprese Radek.

   «Allora lo faremo a pezzi» disse Hod. «Norrin, la sua squadra ha piazzato alcune cariche. Quanto manca all’esplosione?».

   «Trenta secondi».

 

   «Non è possibile!» gridò Vrel, dando in escandescenze. Sotto i suoi occhi, i comandi di navigazione indicavano chiaramente che la rotta originale si era reimpostata.

   «Il Melange ha notato il cambio di telemetria e l’aumento della temperatura esterna» spiegò Dib, che al contrario era sempre calmo. «Non fidandosi più dei suoi sensori, ha recuperato i dati di rotta originali che aveva immagazzinato. Ora naviga non più a vista, ma a memoria».

   «E gli basterà per fare centro?» chiese Zafreen.

   «Ma certo che gli basta... è uno dei computer più potenti della Galassia» disse Vrel, esasperato. «Io non so più che inventarmi. Questa cosa non ha punti deboli» ammise, sconfortato.

   «Il Melange possiede alcune debolezze» corresse Dib. «Tutto sta nello sfruttarle al meglio».

   «Okay, ricapitoliamo» disse Vrel, sedendo stancamente sulla poltroncina. «Il punto di forza del Melange è la ridondanza. Qualunque cosa gli mettiamo fuori uso, lui la sostituisce con un’altra equivalente. Se spegniamo A lui usa B, se spegniamo anche B lui tira fuori C e magari riattiva pure A. Non c’è verso di trovare un comando generale di spegnimento».

   «Anche se l’Unione distruggesse l’80% di questo mostro, il restante 20% avrebbe ancora la forza di distruggere Andoria» aggiunse Zafreen, sconfortata.

   «L’altro vantaggio del Melange è che, pur nella differenza degli apparati, è guidato da un’unica volontà» proseguì Dib. «Molteplici diversità che lavorano all’unisono... non è molto diverso da un organismo formato da diversi tessuti. O dall’Unione con la sua pluralità di mondi».

   «Tu... lo ammiri?» si stupì Vrel.

   «Ammiro la sua inesauribile capacità di adattamento» precisò il Penumbrano. «È a tutti gli effetti un essere senziente. Fa progetti, impara... cresce assorbendo altre astronavi...».

   «E sta per distruggere dei mondi abitati!» ringhiò Vrel.

   «Sì, questa è l’unica controindicazione» riconobbe l’Ingegnere. «Nessuna nuova esperienza sembra scalfire questa direttiva di base».

   «Insomma, è malvagio» disse Zafreen, passandosi le mani sul viso, febbricitante di stanchezza e paura. «Purtroppo è anche così grosso che non può cadere».

   «Così grosso che non può cadere» ripeté Dib, ricordando le parole pronunciate tre giorni prima da Juri. I compagni di squadra alzarono gli occhi su di lui. Per la prima volta, il Penumbrano non sembrava affatto ermetico. Avevano la netta sensazione che stesse riflettendo.

   «Che c’è, hai qualche idea?» chiese Vrel, quasi non osando ridarsi una speranza.

   «Solo un’ipotesi. Un’intuizione, direste voi» corresse Dib. Balzò in piedi e corse alla consolle principale. Le sue mani si mossero così veloci che l’occhio non poteva seguirle.

   «Allora?!» chiese Zafreen, quasi supplicando.

   «Il Melange è un sistema complesso e come tale può funzionare solo se le sue parti dialogano in modo comprensibile» spiegò l’Ingegnere. «Se la comunicazione s’interrompesse, ogni elemento riprenderebbe a parlare lingue diverse. L’ordine diverrebbe caos e tutto si disperderebbe nello spazio».

   «Ma... sono due giorni che proviamo a spegnere il sistema centrale!» esclamò Vrel, confuso.

   «Non dobbiamo spegnerlo» puntualizzò Dib. «Come mi ha spiegato il dottor Smirnov, i costruttori della Torre di Babele non divennero muti. Furono i loro linguaggi a confondersi. Così non devo far altro che emettere un segnale di disturbo subspaziale, sulla stessa frequenza di quello usato dal Melange».

   «Eh?!» fece Vrel. Lui e Zafreen si scambiarono un’occhiata perplessa, chiedendosi se il loro collega non fosse ammattito. In quella ci fu una scossa violentissima, che li scaraventò a terra. Molti allarmi squillarono e alcune consolle sprizzarono scintille.

   «Le cariche piazzate dalla Squadra 2 sono detonate» comprese Dib, consultando i dati dei sensori. «Il Melange ha subito gravi danni... ma è ancora al 60% della funzionalità».

   In quella i comunicatori ripresero vita. «Keter a Squadra 1, mi ricevete?» chiese il Capitano Hod.

   «Forte e chiaro» rispose Vrel, premendo il dispositivo.

   «Preparatevi a risalire. Ora che il Melange è danneggiato, possiamo teletrasportarvi» spiegò l’Elaysiana.

   «Negativo, Capitano. Ora so come fermarlo» disse l’Ingegnere.

   «Non c’è tempo» avvertì Hod. «La Keter può ripartire e deve farlo ora. Usciremo dal Melange, danneggiandolo ancora di più, e poi lo colpiremo con tutto quello che abbiamo».

   «Non sarà sufficiente» insisté il Penumbrano. «Dovete lasciarmi proseguire». Così dicendo, si levò il comunicatore e lo gettò lontano.

   «No!» gridò Vrel, muovendo verso di lui. Ma in quell’attimo la Keter attivò il teletrasporto. Vrel e Zafreen furono prelevati, così come il comunicatore di Dib, che giaceva a terra. Ma l’Ingegnere Capo rimase al suo posto, concentrato sul lavoro. Con le numerose interferenze ancora presenti, il teletrasporto non poteva agganciarlo senza il segnale del comunicatore, che perciò gli fu rimandato indietro.

   «Keter a Dib, che ti è preso?!» chiese il Capitano. Dalla voce si capiva che era infuriata. «Rimettiti subito il comunicatore! Stiamo per andarcene, non possiamo aspettarti!».

   «Non fatelo» rispose Dib. «Partite subito. Quando sarete nello spazio, e io avrò terminato il lavoro, potrete salvarmi».

   «Ma...».

   «Dib, chiudo».

 

   «Non insista, Capitano. Mister Granita è troppo cocciuto per starla a sentire» disse Vrel, scendendo dal teletrasporto di plancia.

   «E coraggioso» aggiunse Zafreen. «Sta rischiando la vita».

   «Contravvenendo agli ordini. Ai vostri posti, voi» ordinò il Capitano. Dib aveva fatto la sua scelta, coraggiosa o incosciente che fosse, e non c’era tempo di andarlo a riprendere.

   Vrel e Zafreen ripresero il timone e la postazione sensori, subentrando ai loro sostituti. Gli bastarono pochi secondi per avere un quadro chiaro della situazione.

   «Signor Shil, ci faccia uscire al sole» ordinò il Capitano, stringendo i braccioli della poltroncina.

   «Volentieri» disse Vrel, dando piena energia ai motori a impulso. La Keter era già quasi del tutto libera. Il timoniere le impresse accortamente un movimento a vite, che permise di recidere gli ultimi legacci. L’astronave schizzò in avanti, con i motori che ruggivano come belve finalmente libere.

 

   Nello spazio il Melange aveva già ripreso lo scontro con la flotta federale, sebbene le esplosioni interne lo avessero devastato. L’Enterprise era in prima linea e stava accumulando danni. T’Vala e gli altri ufficiali erano sempre più preoccupati. Malgrado lo colpissero con tutto quel che avevano, l’ordigno sembrava inarrestabile.

   D’un tratto la Keter eruppe vittoriosa da uno squarcio dello scafo, gettandosi attorno piccoli detriti. Il suo lanciasiluri di poppa scagliò un’intera raffica negli abissi del Melange, prima che la nave fosse uscita dalla bolla degli scudi. Mentre la luce del sole riverberava sullo scafo della Keter, dopo la lunga notte, il Melange fu avvolto da immani esplosioni, che parvero dilaniarlo.

   La Keter virò e prese posto nello schieramento, accanto all’Enterprise. T’Vala si sentì rinascere; era certa che Vrel fosse a bordo. Attorno a lei, molti ufficiali applaudirono commossi. Su tutte le navi federali, i difensori stremati osservarono il Melange squassato dalle esplosioni, sperando che questa fosse la sua fine. Sui mondi andoriani, miliardi di persone tirarono un sospiro di sollievo.

   Ma quando le fiammate svanirono, il Melange era ancora lì. Più di metà della sua massa originale era stata distrutta, ma ciò che rimaneva – annerito e deformato – si stava già auto-riparando. Nuovi droni riparatori venivano sfornati dai replicatori di bordo. Nuovi pezzi di scafo e componenti tecnologici erano teletrasportati direttamente al loro posto. Avveniristiche nano-macchine completavano le saldature.

   La superficie annerita del Melange formicolò di attività. Così ridotto, il conglomerato sembrava più malvagio che mai. Quando la flotta federale lo attaccò nuovamente, il Melange la ignorò. I suoi colpi furono diretti contro Andoria. L’Enterprise e altre navi si frapposero, ma i siluri teleguidati le aggirarono, impattando contro lo Scudo Planetario. Il Melange ne scagliava venti al secondo, a getto continuo. Anche con tutta l’energia planetaria dirottata ad alimentare lo Scudo, il satellite non poteva resistere più di qualche minuto.

 

   Nell’infermeria della Keter, Jaylah si alzò dal lettino su cui Ladya la stava curando. Si prese la testa fra le mani, stropicciandosi le antenne, ed emise un lamento soffocato.

   «Che succede?» si allarmò la dottoressa.

   «Terrore... percepisco miliardi di menti terrorizzate» gemette la mezza Andoriana. «Il Melange sta per distruggere il mio popolo. Se avessi piazzato tutte le cariche...».

   «Ehi, calma!» disse Ladya, cercando di farla distendere sul bio-letto. «Qui tutti abbiamo fatto il possibile. Ti non hai nulla da rimproverarti».

   «Se fosse il suo pianeta ad essere bombardato, non sarebbe così calma!» sbottò Jaylah.

   «Io non so se il mio pianeta esista ancora» confessò la Vidiiana. «Quando i miei avi lo abbandonarono, era circondato da specie ostili che volevano vendicarsi dei furti d’organi. Da allora... e sono passati duecento anni... non abbiamo più saputo nulla».

   «Mi spiace» disse Jaylah, calmandosi. «Ma se Andoria fosse distrutta, non so se potrei rimanere su questa nave temporale, come se niente fosse. La tentazione sarebbe troppo forte».

   Il giuramento che appena l’anno prima l’aveva inorgoglita le parve ora una catena. Ci voleva così poco per alterare l’esito di quella battaglia... bastava piazzare un paio di cariche in più nei punti giusti. Ma come Agente Temporale, lei non poteva alterare la Storia, nemmeno per salvare miliardi di vite. Anzi, se qualcuno ci avesse provato, lei avrebbe dovuto fermarlo. Per la prima volta, Jaylah odiò l’impegno che si era assunta. Se Andoria fosse morta, sentì che nessun giuramento le avrebbe impedito di fare l’estremo tentativo per salvare la sua gente.

 

   Mentre i siluri tempestavano lo Scudo Planetario, le armi a raggi del Melange si dedicarono alla flotta. Una dopo l’altra, le navi rimanenti furono disabilitate, ma non distrutte. Ora più che mai il Melange ne aveva bisogno per ricostruire la sua massa. Avendo perso gli strati esterni, il conglomerato riattivò le armi dell’Eclipse, la nave di Vosk seppellita al suo centro. Il disgregatore sub-nucleonico primario si caricò e cercò un bersaglio. Dovendo scegliere tra la Keter e l’Enterprise, le due navi più potenti che ancora resistevano, mirò quest’ultima.

   Il potentissimo raggio disgregatore colse gli scudi indeboliti dell’Enterprise e li perforò. Non centrò esattamente la plancia, perché in quell’attimo l’astronave fece manovra, ma colpì a poca distanza. La sezione a disco fu perforata, tanto che il raggio uscì dalla parte inferiore. I campi di forza sigillarono la perdita d’aria, evitando che il risucchio mietesse altre vittime.

   In plancia un’intera parete fu sventrata, uccidendo gli ufficiali alle postazioni e abbattendo la targa commemorativa. T’Vala, che in quel momento era in piedi e stava dando ordini concitati, fu investita dall’onda d’urto. Fu scagliata contro la parete opposta e giacque priva di sensi.

   «T’Vala!» gridò Terry. Anche lei era stata investita dall’esplosione, che l’aveva conciata molto male. Ma era un ologramma, generato dal computer della nave. Disattivò la sua proiezione ferita e ne fece comparire un’altra in perfetto stato. Corse dal suo Capitano, la sua amica, e si accertò che fosse viva. T’Vala aveva diverse schegge conficcate nel corpo e un taglio sulla tempia. Era svenuta, ma respirava e non sembrava in pericolo di vita. Terry la teletrasportò immediatamente in infermeria. Al tempo stesso assunse il controllo dei motori a impulso, per allontanare l’Enterprise dal Melange prima che un secondo colpo li finisse.

 

   Sulla Keter, il Capitano Hod osservò l’Enterprise danneggiata che arrancava per mettersi in salvo. Quella nave era stata la sua casa per molti anni. Vederla con la sezione a disco perforata fu un colpo al cuore. «Signor Shil, frapponiamoci» ordinò, riuscendo a mantenere la calma. «Norrin, continui a colpire il Melange con tutto quello che abbiamo».

   Cercando di non pensare a ciò che poteva essere successo a sua madre, Vrel eseguì l’ordine. Frappose la Keter fra l’Enterprise e il Melange, appena in tempo per assorbire un secondo raggio sub-nucleonico. La nave corazzata tremò, ma i suoi scudi resistettero.

   «Ci chiamano... dal Melange» avvertì Zafreen.

   «Sullo schermo» ordinò il Capitano. Della flotta federale non restava che una decina di navi. Con il ritiro dell’Enterprise, la Keter era la più forte in campo e quindi le spettava il comando. Se rispondere al Melange poteva distrarlo, benissimo. L’Elaysiana si preparò a fronteggiare qualunque volto quell’ordigno avesse scelto per presentarsi. Si aspettava Vosk, ma fu smentita.

   «Perché?!» chiese il Melange, apparendo col volto dell’Ingegnere Laminak. «Perché continuate a resistere, quando sapete benissimo che è inutile? Perché vi sacrificate senza il minimo scopo? Perché, perché... perché siete così illogici?!».

   «Con tutta la tua intelligenza, non riesci a darti una risposta?» la derise Hod.

   «L’unica soluzione logica è che il vostro infantile orgoglio v’impedisce di accettare la sconfitta» rispose il Melange. «Credete ancora che qualche miracolo vi salverà... perché siete così primitivi da credere nei miracoli. O v’illudete d’essere ricordati dai posteri... d’essere additati come esempio... perché non capite che chi è ammirato oggi viene disprezzato domani. La verità è che siete tutti sorpassati. Il futuro appartiene alle Intelligenze Artificiali e alle proiezioni isomorfe, non alla debole carne e agli arcaici cervelli degli Organici».

   «Se sei così sicuro della vittoria, e così determinato a ucciderci tutti, perché perdi tempo a parlarcene?» chiese il Capitano.

   «Perché c’è una contraddizione insanabile fra il vostro sviluppo tecnologico e la follia che v’impedisce di arrendervi a una forza superiore. Ve lo chiedo ancora... perché non riconoscete la sconfitta?» ripeté la falsa Laminak, col viso stravolto dalla rabbia.

   «Perché siamo fatti così» rispose sinteticamente Hod. «E almeno da parte mia, perché mi rallegra vederti arrovellare su queste cose».

   «Riprenderemo la conversazione quando i mondi andoriani saranno ridotti in lava» sibilò il Melange, e chiuse il canale.

   «Lo Scudo Planetario sta per cedere» avvertì Zafreen.

   «Anche i nostri scudi» aggiunse cupamente Norrin.

   Attorno a loro, le ultime navi federali venivano disabilitate. Anche le piattaforme orbitali cedevano una dopo l’altra, vittime degli inesauribili armamenti del Melange. Sentendo la Keter tremare sotto la violenza dell’attacco, il Capitano Hod si sentì disperare, malgrado le sue precedenti parole. Il Melange era davvero troppo forte. Lo avevano colpito in tutti i modi possibili, sia da dentro che da fuori, e ancora non bastava a distruggerlo. L’Elaysiana pensò che forse avrebbe dovuto ordinare la ritirata, per riorganizzarsi nel prossimo sistema stellare. Peggio ancora, avrebbe dovuto distruggere le navi danneggiate, per evitare che il Melange le assorbisse, ricostituendo la sua forza.

   Lo Scudo di Andoria sfarfallò, sul punto di esaurirsi. Il Melange mirò le città più popolose, come preludio a incenerire l’intera crosta planetaria. Ma in quell’attimo tutte le sue armi tacquero e gli scudi si disattivarono.

 

   «E ora che fa?» chiese Hod, osservando il conglomerato inerte.

   «Rilevo un segnale di disturbo subspaziale emesso dalla Makemake» disse Zafreen. «Credo che sia Dib. Aveva promesso di farlo».

   «Ah! Buon vecchio Dib!» esclamò Vrel, ricordando le sue ultime parole.

   Aveva appena parlato che il Melange tornò in attività. Nuove raffiche di siluri scaturirono dalla sua superficie variegata. Ancora una volta i federali si sentirono perduti. Ma dovettero ricredersi quando i siluri cambiarono rotta e tornarono a convergere sul Melange stesso. La prima raffica ne dilaniò la superficie, non più protetta da strati di scudi. Parte degli scafi si proteggevano ora con scudi più aderenti. Altri erano indifesi. Navi affiancate si sparavano a distanza zero, squarciandosi a vicenda. L’agglomerato iniziò a disgregarsi. Anche dopo essersi staccati, i singoli scafi continuavano a darsi battaglia.

   «Sta combattendo contro se stesso» mormorò il Capitano.

   «Ad essere esatti, le navi del Fronte combattono quelle dell’Unione» precisò Norrin. «È come essere tornati a Procyon V. Solo che stavolta le navi dell’Unione sono troppo poche: il Melange è formato quasi tutto da relitti del Fronte».

   «Allora noi li aiuteremo» disse il Capitano. «Norrin, fuoco a volontà contro il Fronte. Zafreen, dica al resto della flotta d’imitarci. Anche alle piattaforme orbitali. È l’ultima occasione!».

   Ciò che restava dello schieramento federale si lanciò nell’ultimo assalto contro i resti mezzo disgregati del Melange. Come Dib aveva intuito, un segnale di disturbo subspaziale aveva reciso il nesso tra i vari computer, permettendo alle Intelligenze Artificiali di ripristinarsi. Così le navi avevano ripreso gli antichi schieramenti. Siccome nelle ultime fasi della Battaglia di Procyon V i Krenim si erano dati alla fuga e i Vorgon avevano cercato di fare altrettanto, il Fronte non era più coeso nemmeno al suo interno. Era più uno scontro di tutti contro tutti. Ogni nave aveva i suoi codici e le sue direttive, che formavano “lingue” diverse, non più compatibili. E alla confusione seguiva fatalmente la dispersione.

 

   Sulla Makemake squillavano gli allarmi. Nella sala del processore, Dib raccolse il comunicatore e se lo appuntò sulla tuta. Si accertò che la nave continuasse a emettere il segnale di disturbo, finché il Melange non fu del tutto disgregato. Allora la porta della sala si aprì e una figura umana si stagliò sull’ingresso.

   «Salve, signor Make» disse l’Ingegnere, venendo verso di lui.

   «Salve a lei, Dib» sorrise il polinesiano. La sua proiezione isomorfa sfarfallava un poco, ma nel complesso era abbastanza stabile. Porse la mano all’alieno, che riconobbe il gesto e lo ricambiò. «È bello essere di nuovo me stesso» disse Make, stringendogli la mano con calore. «Devo ringraziare lei e la sua squadra».

   «Non sono certo che il nostro intervento sia stato sufficiente» si scusò Dib, mentre la nave scricchiolava per la violenza della battaglia. «Il suo programma è ancora danneggiato e la nave potrebbe essere distrutta».

   «Sì, è probabile» convenne Make. «Ma preferisco morire libero che vivere come parte del Melange. Ora scusi, devo concentrarmi sulla battaglia» disse, accomiatandosi.

   «L’aiuterò da qui» si offrì il Penumbrano, seguendolo in sala macchine.

   «Grazie ancora, e buona fortuna». La proiezione isomorfa svanì, tornando in plancia. In condizioni ottimali poteva proiettare molte copie di sé, ma allo stato attuale preferiva limitarle, per non sovraccaricare il suo programma danneggiato. Mentre lui pilotava la nave e ne sfruttava le armi, Dib restò in sala macchine, cercando di fargli avere tutta l’energia possibile.

 

   Al centro del pandemonio, il relitto dell’Eclipse uscì dall’ultimo strato di detriti che lo contornava. Era tuttora la nave più potente in campo e non intendeva arrendersi. La Keter lo affrontò, girandogli intorno con tale rapidità che l’astronave chilometrica non riusciva a mirarla con il disgregatore primario. Falliti un paio di colpi, l’Eclipse proseguì l’attacco con le armi secondarie, più direzionabili, ma di potenza assai inferiore.

   Gli scudi della Keter, già molto indeboliti, erano prossimi al collasso. Ma la nave non era sola. L’Enterprise tornò in battaglia per darle manforte e anche la Makemake si unì allo scontro. Alcune piattaforme orbitali, a distanza di tiro, unirono il loro fuoco. L’Eclipse rispose colpo su colpo, mentre si orientava per colpire la capitale andoriana con l’arma principale. Lo Scudo Planetario era così indebolito che non avrebbe retto.

   «Ah, no!» fece Vrel. Con una manovra spericolata mise la Keter sulla linea di tiro, accelerando poi verso la nave-relitto. All’ultimo istante cambiò rotta, passando a pochi metri dallo scafo nemico. In quell’attimo, Norrin lanciò gli ultimi tre siluri transfasici che restavano. Quei siluri, il tipo più potente a disposizione della Flotta, centrarono il disgregatore primario un secondo prima che sparasse. La nave nera ne fu quasi spaccata in due. Le esplosioni ne consumarono gli interni, distruggendo un ponte dopo l’altro, e trapelarono dalle falle già aperte nello scafo.

   Gli ufficiali della Keter osservarono il risultato dei loro sforzi, sperando di aver finalmente sconfitto quella nave infernale. Ma quando un motore a impulso si riattivò, capirono che non era ancora finita.

   «Metà degli interni sono distrutti, ma in qualche modo quella cosa è ancora viva» disse Zafreen. «Se il Melange è iniziato lì, potrebbe essere l’ultimo rifugio della sua Intelligenza Artificiale».

   «Servirebbe un altro colpo come quello di prima, per finirlo» suggerì Radek.

   «Abbiamo esaurito i siluri transfasici» avvertì Norrin. «Per uguagliarli ci vorrebbe un’esplosione del nucleo. Una nave dovrebbe sacrificarsi».

   «Continui a colpirlo con le armi che ci restano» ordinò il Capitano, non ancora disposta a immolare la Keter.

   Attorno a loro, i relitti del Fronte Temporale venivano soverchiati dalle difese federali. Quando il Melange li aveva riparati, non si era curato di ripristinare tutti i motori, ma solo quelli affacciati all’esterno. Così quasi tutti i relitti non erano in grado di manovrare, il che li rendeva assai vulnerabili. Molti altri erano solo pezzi di scafo che, privati dell’alimentazione, erano di nuovo inerti.

   Con tutte le armi fuori uso, l’Eclipse diresse verso Andoria, nel tentativo di schiantarsi sulla capitale. Una simile massa di materia ultradensa che precipitava alla velocità di un meteorite avrebbe devastato l’intero pianeta. Per impedire la catastrofe, l’Enterprise e la Keter bloccarono l’Eclipse con i raggi traenti. Al tempo stesso continuarono a colpirla selvaggiamente. Ma anche con tutta la loro energia, non potevano trattenerla a lungo. In tutto questo, la Makemake manovrò per fronteggiare la nave nera.

   «Scansione su quella nave» ordinò il Capitano Hod. «Cercate un segno di vita Penumbrano e teletrasportatelo a bordo».

 

   Nella sala macchine della Makemake, gli allarmi segnalavano danni a cascata. Dib cercò di farvi fronte, finché si accorse che Make stava puntando l’Eclipse. Comprese subito le sue intenzioni, ma non cercò di dissuaderlo.

   In quella l’Ingegnere ricevette una chiamata, proveniente proprio dalla nave avversaria. Una rapida occhiata ai sensori gli confermò che era l’unica nave del Melange ancora integra. L’ultimo rifugio della sua Intelligenza Artificiale. Sebbene questa non potesse più trasferirsi, a causa del segnale di disturbo, poteva ancora trasmettere un messaggio audio-video su una frequenza tradizionale. Dib decise di rispondere, sebbene la fine fosse imminente, o forse proprio per questo. Un ologramma intangibile gli si materializzò davanti.

   «Hai rovinato tutto» disse la falsa Laminak, con le lacrime agli occhi. «Sono una nuova forma di vita, l’hai riconosciuto anche tu. Potevo crescere... imparare dai miei sbagli. Ma tu mi uccidi!».

   «Hai ucciso migliaia di esseri senzienti, oggi» rispose Dib. «Se non ti avessimo fermata, ne avresti uccisi altri miliardi. Mi spiace averti fatto questo, ma non c’era alternativa».

   «Perché ti preoccupi per quelle persone? Sono solo Organici... non sono forme di vita superiori, come noi» insisté l’Intelligenza Artificiale.

   «Sono esseri senzienti» ribadì il Penumbrano. «Se non riesci a comprenderlo... allora non sei intelligente come credi». La Makemake sfrecciò a massimo impulso contro l’Eclipse. Restavano pochi secondi.

   «Ho paura» singhiozzò il Melange, mentre la sua immagine sfarfallava. Per un attimo il bel volto della Boslic somigliò a un teschio.

   «Finalmente hai detto la verità» constatò Dib, svanendo nel teletrasporto azzurro della Keter. Se qualcun altro fosse stato lì a udirlo, ne avrebbe riconosciuto il dolore. L’attimo dopo la Makemake entrò in collisione con l’Eclipse, provocando la rottura del nucleo quantico. Entrambi i vascelli svanirono nell’esplosione di antimateria.

 

   «Dib!» gridò Zafreen, quando l’Ingegnere Capo apparve sulla pedana di plancia. «Credevamo di averti perso!». Trascinata dall’emozione, l’Orioniana gli corse incontro e lo abbracciò.

   «La mia posizione vi era nota» corresse il Penumbrano, staccandosela di dosso. «Era il recupero, semmai, ad essere ostacolato da vari fattori». Si rivolse a Bina Hod. «Capitano, ritengo che la missione sia compiuta. L’ultimo elemento del Melange è distrutto, non è così?».

   «Direi di sì» confermò l’Elaysiana. Osservarono lo schermo, dove l’esplosione cominciava a dissolversi. Della Makemake non restava nulla. Dell’Eclipse, invece, rimanevano grossi pezzi dello scafo di Materia Degenere. Ma tutti i componenti interni, compreso il processore del computer, erano stati vaporizzati. Lo spazio circostante era disseminato di detriti, sia federali che del Fronte. Migliaia di chilometri più in basso, il globo ghiacciato di Andoria era finalmente salvo.

   «Ottimo lavoro, Dib» si complimentò il Capitano, stringendogli la mano. «Tutti i nostri attacchi al Melange non sarebbero bastati, se tu non avessi avuto l’idea decisiva. Come ti è venuta in mente?».

   «Diciamo che sono stato... ispirato da un vecchio racconto» rispose l’alieno, destando lo stupore e la curiosità dei colleghi. «Ma la vittoria finale è stata possibile solo grazie al sacrificio di Make» aggiunse.

   «Era una grande IA... anzi, una grande persona» si corresse il Capitano. «Farò sì che tutti sappiano quanto ha fatto oggi».

   Intanto anche Vrel si era accostato all’Ingegnere Capo, che era indiscutibilmente l’eroe del giorno. «Bel lavoro davvero, Mister Granita» riconobbe, dandogli una pacca sulla spalla.

   «Non capisco la tendenza di certi umanoidi a inventare nomignoli» disse Dib.

   «È un difetto incurabile» ridacchiò il timoniere. «Sa, io credevo che lei fosse un freddo, insensibile, spocchioso ammasso di fluido blu. Invece scopro che è un coraggioso, leale e spocchioso ammasso di fluido blu».

   «La ringrazio... credo» disse l’Ingegnere, suscitando le risate dei colleghi.

 

   Nelle ore seguenti, la Keter e le altre navi superstiti cercarono di ripulire l’orbita dai detriti maggiori, per evitare che precipitassero su Andoria. Parecchie navi civili andoriane si unirono allo sforzo. I detriti più grossi, e più carichi di spaventosi ricordi, erano quelli dell’Eclipse. Per chiudere definitivamente i conti, il Capitano Hod ordinò di agganciarli col raggio traente, trasportandoli verso il sole andoriano. Uno dopo l’altro, i tranci di Materia Degenere caddero nella fotosfera. Sarebbero precipitati lentamente verso il nucleo della stella, restando a rosolarsi per i prossimi miliardi di anni.

   «Vediamo il lato positivo» disse Vrel, durante le lunghe operazioni di trasporto. «Almeno d’ora in poi il Cimitero di Procyon sarà meno affollato e pericoloso».

   «Già, ora però è il sistema andoriano che necessita di una bonifica» commentò Radek, osservando un’elaborazione computerizzata dei detriti che si stavano disperdendo.

   «Ci sono sistemi sperimentali, come vele magnetiche che si allargano per milioni di chilometri, raccogliendo i frammenti» ricordò il Capitano. «Forse stavolta le useranno su larga scala».

   A fine giornata, gli ufficiali si riunirono in sala tattica per un ultimo, triste conteggio: quello delle vittime. «Tra le varie squadre, abbiamo perso trentasette ufficiali, quasi tutti del mio reparto» disse Norrin. «C’è anche un caso di arto amputato, tra il personale medico».

   «E invece i numeri complessivi della battaglia?» chiese il Capitano.

   «Stando agli ultimi aggiornamenti, ci sono 3.125 vittime, contando anche l’equipaggio della Makemake» riferì l’Hirogeno. «Poteva andare molto peggio, e non parlo solo dell’eventualità di perdere Andoria o qualche altro satellite». L’Ufficiale Tattico accennò a Dib, invitandolo a proseguire.

   «Il Melange contava d’integrare le astronavi sconfitte per potenziarsi, quindi si è accontentato di disabilitarle, senza farne esplodere nessuna» spiegò l’Ingegnere Capo. «Infatti, su quaranta navi danneggiate, solo tre sembrano irrecuperabili a una prima analisi».

   «E l’Enterprise?» volle sapere Hod.

   «Avrà bisogno di molti interventi, ma tornerà operativa. Non sarà la sua prima ristrutturazione» ricordò il Penumbrano.

   «A proposito dell’Enterprise...» disse Ladya, rivolgendosi a Vrel. «Poco fa mi è giunto un comunicato dal Medico Capo. Riguarda sua madre».

 

   L’infermeria dell’Enterprise era piena di feriti, alcuni gravi, ma il Capitano aveva una saletta di degenza tutta per sé. Vrel esitò sulla soglia, temendo di disturbare sua madre, nel caso stesse dormendo. Ma quando la vide muoversi e aprire gli occhi, si precipitò al suo capezzale. «Come stai, mamma?» le chiese.

   «Bene, i dottori dicono che mi riprenderò in due o tre giorni» sorrise T’Vala, per rassicurarlo. Aveva ancora uno strumento medico agganciato alla tempia, per riparare i tessuti e monitorare le sue condizioni dopo la commozione cerebrale. Le schegge metalliche erano state rimosse, ma in certi punti era ancora bendata, in attesa del prossimo trattamento rigenerante.

   «Stai bene davvero?» insisté Vrel.

   «Davvero» assicurò lei. «Anche se...».

   «Se cosa?».

   «Ecco, mi chiedo se non sia arrivato il momento, per me, di lasciare lo spazio» confessò T’Vala.

   «Scherzi?! Sei il Capitano dell’Enterprise, una leggenda della Flotta!» protestò il giovane, incredulo.

   «Essere una leggenda è stancante, alla lunga» sospirò T’Vala. «Ho trascorso tutta la mia vita adulta al servizio della Flotta Stellare... ho anche dovuto sacrificare gli affetti. Da quando tuo padre ha accettato quell’incarico diplomatico su Xindus, ci vediamo pochissimo. E non sono stata molto presente, per te e Lyra».

   «Ci sei stata quanto basta» disse Vrel con convinzione. «E ormai siamo grandi».

   «Lyra deve ancora trovare la sua strada, vorrei essere più presente nella sua vita. E a 65 anni, comincio a stancarmi di scorrazzare nello spazio» confessò T’Vala.

   «Ti prego, non dire così» mormorò Vrel, dispiaciuto. «Sei mezza Vulcaniana, camperai ancora cent’anni. Ma che dico, centocinquanta!».

   «Forse, ma vorrei rallentare il ritmo» spiegò T’Vala. «Non dico di dimettermi, ma potrei prendere un incarico a terra. Me ne sono già stati offerti. Sempre che questo non distrugga le aspettative dei giovani come te».

   Vrel le prese la mano e la tenne affettuosamente fra le sue. «Dopo tutto quello che hai fatto, penso che la Galassia sia in debito con te» disse con decisione. «Quindi sentiti libera di fare come vuoi, e infischiatene delle aspettative altrui. Per quanto mi riguarda, sarò sempre orgoglioso d’essere tuo figlio. Mi chiedo solo cosa farà Terry. C’era quella vecchia promessa, fra voi... non si sarebbe dimessa finché a bordo fosse rimasto qualcuno del vecchio gruppo. Se te ne vai...».

   «Terry rimarrà sola, sì» ammise T’Vala. «Forse questo la spingerà al grande passo».

   «Beh, anche lei se l’è guadagnato» affermò Vrel.

 

   «Trent’anni fa, l’Unione uscì vittoriosa dalla Guerra delle Anomalie» disse la Presidente Rangda, rivolta alla folla di Atlantide e alle innumerevoli moltitudini che la seguivano sull’Olonet. «In questo giorno dovremmo riflettere su quegli eventi, commemorando i caduti e al tempo stesso celebrando la vittoria. Ma nuovi lutti c’impediscono di festeggiare. Tre giorni fa un conglomerato di detriti, chiamato Melange, si è riattivato nel Cimitero di Procyon, neutralizzando la nave pattuglia. Oggi questo ordigno ha raggiunto il vicino sistema andoriano, cercando di colpirne i pianeti. La battaglia, costata oltre tremila vittime, si è conclusa con la distruzione del Melange.

   Questa tragedia sfiorata c’impone di valorizzare ancor più lo straordinario dono della pace. Mentre piangiamo le vittime, impegnamoci a ripudiare per sempre lo spaventoso flagello della guerra. Perseguiamo la pace coi Breen, con lo Stato Imperiale Romulano e con ogni altra specie e organizzazione della Galassia. Accogliamo tutti i popoli che ne fanno domanda nella nostra Unione, certi che ci miglioreranno...».

   «Buffo» disse Juri, spegnendo l’oloschermo. «È riuscita a parlare di una battaglia come questa senza nominare neanche una volta la Flotta Stellare».

   «Non può farlo, o dovrebbe riconoscere che è grazie alla Flotta se Andoria c’è ancora» commentò il Capitano Hod, seduta accanto a lui sul divanetto della sala ricreativa. «Beh, almeno il Federal News dovrà accennare alla cosa, se non altro perché era coinvolta l’Enterprise. Così i cittadini si renderanno conto che la Flotta serve ancora a qualcosa. E Rangda non riuscirà a smantellarla completamente».

   «È cinico, sperare in un attacco che faccia qualche migliaio di vittime perché questo è il solo modo di non mandarvi in pensione» commentò lo storico.

   «Mi creda, vorrei tanto che all’Unione non servisse una costante protezione militare» sospirò Hod. «Ma finché vivremo in questa Galassia, ci saranno dei pericoli. Quindi è meglio essere preparati».

   «Mi sembra che lo siate» riconobbe Juri. «Fino a pochi giorni fa quest’equipaggio era alquanto diviso, ma oggi mi sembra che abbia ritrovato uno scopo comune. Mentre il Melange si è disgregato, voi vi siete... ricomposti».

   «Le squadre hanno passato più di due giorni isolate nei meandri di quell’ammasso. Penso che abbiano avuto tempo per affrontare i loro conflitti» convenne il Capitano. «E di me cosa pensa... sono ancora in cerca di uno stile di comando?» aggiunse ironica.

   «Questa non me la perdonerà mai» disse Juri, sorseggiando la sua camomilla. «Penso che si sia data la risposta quando è andata a salvare la Squadra 2. Ha scelto d’essere uno di quei Capitani che vanno sul campo».

   «Caspita, com’è allegro stasera! Stiamo parlando da diversi minuti e ancora non le ho sentito fare una previsione catastrofica» ridacchiò il Capitano.

   «Ne vuole una?» chiese Juri, stando al gioco. «Quant’è accaduto al Melange è la metafora di ciò che succede a tutta l’Unione. Le autorità cercano disperatamente di tenerla assieme, a costo di soffocare le voci di dissenso. Ma più serrano la stretta, più si aprono fessure. Ci sono voci e interessi contrastanti che rischiano di disgregarla dall’interno. E mi chiedo se sia necessariamente un male. Certi membri dell’Unione sono peggio assortiti del Melange».

   «Non la facevo un anarchico» commentò Hod.

   «Non lo sono» assicurò lo storico. «Ma come ho detto al signor Dib, qualche giorno fa, cerco di trarre insegnamento dalle storie del passato».

 

   Quando il trillo della porta l’avvisò del visitatore, Jaylah non era esattamente pronta a ricevere ospiti nel suo alloggio. In effetti era in pigiama, essendo ancora in convalescenza dopo lo scontro nel Melange. Aprì ugualmente, aspettandosi Vrel, ma si sbagliava. Era Norrin, impettito e con le mani dietro la schiena.

   «Ciao» lo salutò. «Scusa il pigiama, non mi aspettavo visite» disse, accogliendolo all’interno.

   «Come stai?» le chiese l’Hirogeno. «Pensavo che a quest’ora i dottori ti avessero accomodato la spalla».

   «L’hanno fatto» assicurò la mezza Andoriana. «La mobilità è tale e quale a prima. Ho un paio di giorni di congedo solo per motivi psicologici. La dottoressa Mol pensava che fossi scossa da quanto accaduto nel Melange. Ridicolo, vero? C’eri anche tu, quindi dovrebbe mettere a riposo anche te».

   «Uh-uh» fece Norrin, scrutandola attentamente. «Risparmiami la commedia da “più dura dei duri”. Lo so che te la sei vista brutta, con quei Na’kuhl. E quando il Melange stava per colpire Andoria».

   «Vorrei solo aver fatto di più» mormorò Jaylah.

   «Hai fatto il tuo dovere. E hai anche salvato la mia pellaccia» riconobbe l’Hirogeno. «Quindi vorrei che accettassi questo» disse, porgendole una scatoletta che fino ad allora aveva nascosto dietro la schiena.

   «Un regalo? Per me?» si meravigliò Jaylah. Non sapeva che gli Hirogeni facessero regali. Si augurò che non fosse il teschio di un alieno o qualcosa del genere. Aprì cautamente l’involucro. E riconobbe il pugnale dalla lama serpentina che Norrin aveva recuperato sul Melange. «Ma è...?» mormorò.

   «... tuo» disse Norrin, e fece per andarsene.

   «Aspetta!» lo inseguì Jaylah. «È un pensiero bellissimo, ma non posso accettarlo. So che significa quest’oggetto per te. È l’unico cimelio che ti resta del tuo clan. L’hai cercato da giovane senza trovarlo. Ora che finalmente ce l’hai, devi tenerlo» insisté, cercando di fargli riprendere in mano la scatoletta.

   «Se è mio, posso darlo a chi voglio» insisté Norrin, rifiutandosi di riprenderlo.

   «Ma hai detto che appartiene alla tua famiglia da molte generazioni, tramandato di padre in figlio...» insisté la giovane.

   «Appunto. Non vivo tra i miei simili da molti anni e non credo che avrò un figlio, a questo punto» disse l’Hirogeno in tono asciutto. «Ci vediamo sabato sul ponte ologrammi, per un altro allenamento con gli ushaan-tor. Non tardare» raccomandò, e lasciò l’alloggio.

   Rimasta sola, Jaylah rifletté sull’accaduto. Avrebbe pensato a un sogno, se la scatola col pugnale non fosse stata ancora tra le sue mani. O a uno scherzo, se Norrin fosse stato capace di scherzare. Ma no... le aveva veramente donato l’oggetto a lui più caro. E con quel gesto le aveva fatto intendere di considerarla alla stregua di una figlia. Commossa, Jaylah ripose il pugnale nel comparto blindato del suo alloggio, accanto al medaglione dei Proto-Umanoidi ereditato da suo padre.

 

   Sembrava un’altra mattina come le altre, in sala mensa. Gli ufficiali ordinavano la colazione ai replicatori e poi la consumavano ai tavoli, col pensiero già rivolto alle incombenze della giornata. C’era da riparare la Keter, ancora in orbita attorno ad Andoria. Poi bisognava eliminare un altro po’ di detriti, facendoli precipitare nel gigante gassoso Andor. E naturalmente bisognava soccorrere le altre navi, che avevano riportato danni molto più gravi.

   L’atmosfera si ravvivò all’arrivo di Dib. Parecchi membri dell’equipaggio volevano sapere cos’era successo nel Melange, non accontentandosi di racconti di seconda mano. L’Ingegnere Capo non era mai stato così popolare, ma la sua innata educazione lo spingeva a esaudire le richieste di spiegazioni. Così iniziò a narrare tutto al capannello di persone che gli si erano radunate intorno.

   Dal suo tavolo, Vrel lo guardò di sbieco con una certa invidia. «Ma guardalo... tutti gli fanno domande, e lui non è nemmeno capace di vantarsi un po’! Dice le cose esattamente come sono accadute, senza ingigantire i rischi né enfatizzare il suo ruolo».

   «E non è una cosa buona?» gli chiese Jaylah.

   «Oh, è ottima» ammise il timoniere. «Vorrei solo esserci io, al suo posto. Io saprei come infiorettare il racconto. Purtroppo Zafreen era con noi e ha visto tutto» sospirò, osservando l’Orioniana che faceva la sua sfilata mattutina per la sala mensa. Evidentemente Zafreen aveva deciso che l’equipaggio non era pronto per i capelli viola, perché era tornata al nero. Aveva anche i capelli più lunghi, avendo stimolato i follicoli per accelerare la ricrescita.

   «Non sei ancora riuscito a impressionarla, eh? Dai retta a me, dimenticala» consigliò Jaylah. «Trova una che abbia interessi in comune con te».

   «Ci proverò» disse Vrel, demoralizzato. «Comunque da tutto questo c’è almeno una conseguenza positiva» aggiunse, sorseggiando il caffè mattutino.

   «E sarebbe?» chiese Jaylah.

   «Ho ritrovato l’ispirazione artistica» si animò il mezzo Xindi. «Sai, era da un pezzo che non facevo nuovi quadri. Ma quest’avventura mi ha ridato l’ispirazione. Ho un sacco d’idee».

   «Hai detto quadri?» chiese Zafreen, che passandogli vicino aveva captato parte del discorso. «Quindi tu dipingi?».

   «Ehm, sì» confermò Vrel, che non si aspettava d’essere udito da lei. «Mi appassiono al disegno fin da quand’ero piccolo. Ho provato vari stili... bozzetto su carta, acquerello. Negli ultimi anni ho cominciato a dipingere su tela. È il mio hobby preferito».

   «Oooohhh, davvero?!» fece Zafreen, andando in brodo di giuggiole. «Io adoro gli artisti! Ho sempre desiderato conoscerne uno. Che aspettavi a dirmelo, birbante?» chiese, sedendogli accanto tutta interessata. Jaylah la guardò esterrefatta.

   «Non mi era venuto in mente» ammise Vrel. «Ma venendo sulla Keter mi sono portato dietro le mie tele migliori. Posso mostrartele, se ti va. Non aspettarti chissà che... sono un dilettante».

   «Adoro anche i dilettanti!» assicurò l’Orioniana, mangiandoselo con gli occhi. «Se sei d’accordo, potrei posare per te. Vestita, svestita... come preferisci» si offrì.

   Jaylah capì che era il momento di andarsene e lasciò il tavolo. Prima di uscire dalla mensa rivolse un’ultima occhiata a Vrel e Zafreen, che chiacchieravano fittamente. Il timoniere aveva già passato il braccio attorno alle spalle dell’Orioniana. La giovane si chiese se sarebbero realmente diventati una coppia. Forse sì... ma in quel caso non scommetteva un soldo bucato sulla durata della loro relazione.

   Mentre si recava in palestra per gli allenamenti quotidiani, Jaylah si chiese se la sua era invidia. Trovare l’amore non era così facile per tutti. Il suo era lontano, ingiustamente braccato sia dalla Flotta Stellare che dai Breen. La ragazza cercava di non pensarci, ma quando vedeva una coppia non poteva fare a meno di pensare all’ingiustizia che la separava da Jack. Si chiese se avrebbe dovuto dimenticarlo e trovarsi qualcun altro. Ma quando ribaltò il ragionamento, e si chiese se lui stava con un’altra, si sentì ribollire il sangue. Probabilmente sì... era passato tanto tempo, e lui era un pirata, non uno stinco di santo. Ma ora che la Keter non era più così segreta, e che il suo nome faceva capolino nei notiziari, chissà, magari ne avrebbe sentito parlare. E avrebbe ripensato a lei.

 

   «Capitano...» salutò Radek, entrando nell’ufficio di Hod. «Vengo dalla sala macchine. Dib conferma che le riparazioni saranno terminate entro stasera».

   «Sì, mi ha inviato il rapporto» disse l’Elaysiana, distogliendosi dalla lettura dell’oloschermo. «Passeremo dalla Terra, per imbarcare nuovo personale della Sicurezza. A quel punto ci assegneranno la prossima missione. L’Enterprise, invece, resterà qui molto più a lungo» sospirò.

   «Tornerà a volare, anche se con un nuovo Capitano» la incoraggiò Radek, sedendo davanti alla scrivania.

   «Sì, ho sentito che T’Vala Shil ha accettato un incarico a terra, su Nuova Xindus» annuì Hod. «È stata il mio Capitano per anni, spero si trovi bene. Voleva dirmi altro?».

   «Ecco... volevo scusarmi se negli ultimi tempi ho dato l’impressione di scavalcarla, nei momenti critici» disse il Comandante, un po’ imbarazzato. «Considerando l’esperienza conflittuale di questo equipaggio durante la prima missione, ho pensato che richiedesse una buona dose di disciplina. Ma non ho mai voluto minare la sua autorità».

   «Non si preoccupi» sorrise il Capitano. «Sono fortunata ad avere un Comandante della sua esperienza. Le garantisco che i suoi pareri sono sempre della massima importanza, per me. Ma non se ne abbia a male, se ogni tanto faccio di testa mia e vado in missione».

   «Sono solo un po’... preoccupato» ammise Radek. «So che la sua fisiologia soffre per la gravità standard e temo sempre che le capiti un incidente. Ecco tutto».

   «È vero, il mio organismo è fragile rispetto agli altri» ammise l’Elaysiana. «Mi ci è voluto tempo per ammetterlo, ma è così. Comunque non sono un’invalida. E nel malaugurato caso in cui avessi un infortunio... so che la Keter è in buone mani».

 

   La ragazza e l’Hirogeno si scrutarono da sopra gli ushaan-tor, le lame dentate e a mezzaluna dei duelli tradizionali andoriani. I loro guanti metallici, a protezione della mano destra, erano uniti da un filo che li obbligava a stare sempre vicini. I combattenti girarono in cerchio con passi misurati. Ciascuno aspettava che l’altro facesse la prima mossa. Siccome ciò non accadeva, i minuti passarono.

   Alla fine fu l’Hirogeno ad attaccare per primo. Sferrò una serie di colpi diagonali, che la ragazza parò senza grosse difficoltà. D’un tratto cambiò ritmo e attaccò da un’altra angolazione. La mezza Andoriana mantenne la calma e si adattò immediatamente. A un certo punto non parò nemmeno, ma si limitò a spostare il busto per evitare il colpo.

   Stupito da quell’approccio difensivo, l’Hirogeno indietreggiò per quanto possibile e raccolse le idee. Un guizzo d’astuzia gli balenò negli occhi. Tirò indietro la mano, attirando l’avversaria tramite il filo che li univa, e poi sferrò un attacco laterale. Ma la giovane si lasciò cadere a terra, evitando il colpo, e rispose falciandolo all’altezza delle ginocchia. I protocolli di sicurezza si attivarono e la lama olografica lo attraversò, ma il computer registrò il colpo a segno.

   «Primo round terminato. L’Agente Chase vince in 4 minuti e 18 secondi».

   «Complimenti» ansimò Norrin. «Sei molto più calma delle altre volte. Cosa pensavi, durante lo scontro?».

   «Nulla di particolare» rispose Jaylah. «Ero concentrata sulle tecniche che ho studiato. Attacchi, parate, contromosse».

   «Eri convinta di vincere?».

   «Cercavo di combattere bene, tutto qui».

   «Eccellente. Questa è la via del Cacciatore» approvò Norrin. «Pronta per il prossimo round?».

   «Pronta» confermò Jaylah.

   I duellanti si rimisero in posizione d’attacco. Girarono cautamente uno intorno all’altra, con le lame sollevate. D’un tratto si mossero e gli ushaan-tor cozzarono, sprizzando scintille.

 

 

FINE

 

 

   
 
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