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Autore: Napee    23/06/2019    5 recensioni
[future!AU dal nono capitolo]
Rin è cresciuta al villaggio con la sporadica presenza del suo "Signor Sesshomaru", ma come si evolverà il loro rapporto?
***
Era da quando l'aveva lasciata al villaggio che lei lo sognava, ogni notte, ogni singola notte, per dieci anni,lei lo aveva sognato.
Sognava il suo "Signor Sesshoumaru" che tornava a prenderla, che le accarezzava il viso come quando era piccola, ed ogni mattino era sempre una tortura doversi svegliare ed interrompere quel dolce idillio.
***
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Rin, Sesshoumaru | Coppie: Rin/Sesshoumaru
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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9. Ancora in vita



Il sole le riempie la camera da letto con i suoi raggi brillanti e caldi.
La ragazza si stropiccia gli occhi pigramente e sbadiglia assonnata.
Guarda la sveglia sul comodino. Ancora non è suonata, manca più di un’ora in verità, ma non ha più sonno ormai.
Esce dal letto e dal suo groviglio di coperte con lentezza. Poggia i piedi a terra e rabbrividisce sentendo le fredde mattonelle.
Mister Pelosetto – il suo adorato gatto – le si struscia fra le gambe intonando una supplica di miagolii che avrebbe intenerito qualsiasi cuore, anche se fosse stato di pietra.
Sorride fra sé e sé e lo saluta con una carezza amorevole.
Cosa non fa quel gatto in sovrappeso per i suoi adorati croccantini!
Si alza dal letto e lo nutre subito, prima che svegli tutto il condominio con il suo canto supplichevole.
Si trascina in bagno e sbadiglia stancamente davanti allo specchio.
Le occhiaie scure spiccano a contrasto con la sua pelle bianchissima. Ha il viso smunto e scarno, più del solito.
Quella notte non è riuscita a riposare degnamente e i segni dell’insonnia si proiettano chiaramente sul suo fisico stanco e affaticato.
Sospira chiudendo gli occhi. Li riapre con lentezza e prova a sfoggiare un sorriso sereno.
Da brava attrice, lo avrebbe indossato per tutto il giorno.
Si leva la maglia che usa come pigiama, si toglie anche le mutande e abbandona il tutto a terra.
Si infila nella doccia e si lava velocemente.
La caldaia scassata non fa arrivare l’acqua ad una temperatura umanamente sopportabile. L’acqua che esce dalla doccia, mantiene la temperatura desiderata per circa quaranta secondi. Poi oscilla continuamente fra il gelido ghiaccio del polo nord alla lava di un vulcano che sta per eruttare.
E la ragazza, ormai forgiata da anni di docce bollenti o ghiacciate, ha imparato sapientemente a giocare con la manopola, girandola di continuo, per riuscire ad ottenere una temperatura quantomeno accettabile.
Esce dalla doccia e si avvolge nell’asciugamano azzurro. L’unico abbastanza grande da fasciarle tutto il corpo e, purtroppo, anche il più consumato e liso.
Avvolge i capelli in un altro asciugamano e si dirige in cucina per fare colazione.
Apre il frigo e la desolazione del niente che vi è dentro la investe completamente.
Sospira stanca appuntandosi mentalmente di dover fare la spesa dopo il lavoro.
Prende la bottiglia del latte ormai praticamente finito. Versa il contenuto in una tazza che si riempie per quasi metà.
La scalda un po’ al microonde, ma il liquido diviene appena tiepido.
Beve tutto d’un fiato e lascia la tazza nell’acquaio prima di tornare in camera per vestirsi.
Indossa un paio di jeans comodi e una felpa larga con il logo di una band ormai passata di moda.
Guarda fuori dalla finestra. Il cielo limpido e privo di nuvole le regala una sfumatura d’azzurro meravigliosa.
Pettina i capelli alla veloce e li asciuga a testa in giù per fare prima. Spegne la sveglia che aveva iniziato a suonare con prepotenza e sistema i capelli in modo che non le ricadano sul viso. Tira le ciocche sopra le orecchie indietro e ferma il tutto con un fermaglio.
Il collo le resta scoperto per qualche secondo e gli occhi le corrono sulla cicatrice che spunta dalla sinistra, proprio sotto l’orecchio.
Le fa male vederla. Si morde il labbro inferiore e porta i capelli a coprirla.
Se non la vede, può sempre illudersi che non ci sia.
Che non esista.
Che non sia mai esistito e che non le abbiano mai fatto del male.
Chiude gli occhi mentre un brivido gelido le accappona la pelle.
Se chiude gli occhi e si concentra, riesce quasi a sentire ancora la lama che si fa strada nella sua gola e taglia.
Toglie.
Elimina ciò che mai più le tornerà indietro.
Lascia il lavandino che neppure si era resa conto di aver stretto fra le mani.
Le dita sono indolenzite, le nocche acquistano di nuovo colorito pian piano.
Non osa guardarsi allo specchio. Sa già che si troverebbe con gli occhi umidi e non vuole vedersi così.
Non vuole vedersi debole e indifesa.
Non può.
Non può permetterselo.
Indossa le scarpe, prende la borsa e il cappotto ed esce di casa.
Mister Pelosetto alza la testa giusto per salutarla prima di rituffare il muso nella ciotola di croccantini.

Cammina a passo svelto sul marciapiede, mantenendo la testa bassa per cercare di non incontrare gli occhi di nessuno.
Non le piacciono le persone. Non le sono mai piaciute e non le è mai piaciuto trovarsi in mezzo ad una folla.
Non si sente a suo agio, non ci si è mai sentita.
Tira su il colletto del giaccone e passa distrattamente una mano sulla cicatrice scura che deturpa la pelle proprio sotto all’orecchio.
Un senso di malessere l’assale, un vuoto allo stomaco che le toglie il respiro e presto si trasforma in dolorosi ricordi.
Gira l’angolo e inforca la via della caffetteria dove lavora.
La tenda verde scuro con il girasole – logo del locale – è già stata tirata giù, sinonimo che il suo capo è arrivato prima di lei.
Affretta il passo fin quasi a correre e, quando giunge dinanzi alla porta di vetro, il Signor Okonimura ed i suoi folti baffoni bianchi le danno un buongiorno caloroso e amorevole.
Gli sorride di rimando cercando di ingoiare quel fastidio che sente crescere in lei ogni volta che l’uomo le si rivolge con troppa confidenza.
Fila dentro a testa bassa e lancia letteralmente la borsa ed il giaccone nel suo armadietto. Indossa il grembiule in fretta e furia, sistema i capelli nella retina e corre in cucina.
La lista dei dolci da preparare per quel giorno non è poi molto lunga, ma presto si sommano a questi anche gli ordini dei clienti venuti a far colazione.
Riemerge dalla cucina stanca e accaldata quando ormai è l’ora di pranzo.
Si avvia all’armadietto per bere un sorso d’acqua, quando il capo la richiama subito per un nuovo ordine da preparare e consegnare a domicilio.

Riesce ad avere un po’ di respiro soltanto quando il cielo inizia a sostituire l’azzurro chiaro con i colori del fuoco.
Si sente stanca. Stremata.
Non ha avuto neppure il tempo per pranzare. La pasticceria l’ha assorbita con forza e violenza come non le succedeva da tempo.
Con l’arrivo della primavera i clienti si facevano più estrosi e pretendevano dolci e leccornie sempre più complesse e elaborate senza fornire alcun preavviso se non un paio d’ore.
Trova il tempo per sedersi qualche minuto giusto prima di iniziare le pulizie del negozio e della cucina con il capo.
Esce finalmente dal negozio che la sera è già calata.
Indossa il giaccone nonostante non senta freddo, ma anzi è accaldata dalla continua e frenetica giornata lavorativa.
Il Signor Okonimura le si palesa davanti con i suoi baffoni folti ed un sorriso fin troppo aperto a disegnargli le labbra.
“Grazie per l’ottimo lavoro!” Inizia entusiasta mentre chiude il negozio con la saracinesca.
La ragazza annuisce e sorride timidamente abbassando lo sguardo.
Le crea un certo fastidio restare sola con lui. Sente l’ansia crescere nel suo stomaco, il respiro si fa via via più affannoso e la voglia di scappare via diventa quasi irresistibile.
Il capo le poggia una mano sulla spalla con fare fin troppo amichevole e lei gli restituisce un sorriso tirato in risposta.
Si sente soffocare.
Si sente in trappola.
La mano del capo scivola piano dalla spalla al braccio. Il pollice inizia a carezzarla piano, con lentezza, mentre l’uomo le sorride sotto ai folti beffi.
La nausea le chiude lo stomaco e quella voragine che aveva allo stomaco le si chiude in breve tempo.
“Lascia che ti accompagni a casa.” Gli propone il capo con voce più bassa. Roca.
Sente le lacrime salirgli agli occhi, il panico invaderle le membra stanche e provate.
Vorrebbe gridare.
Lo vorrebbe tanto.
Sorride visibilmente a disagio e fa segno di no con la testa prima di esibirsi in un profondo inchino e sottrarsi alla presa del capo.
Si rialza in breve tempo, lo sente dirgli qualcosa con in tono un po’ infastidito, ma lei sta già camminando a grandi falcate lontano da lui.
Soltanto quando gira l’angolo e imbocca un vicolo stretto e buio si lascia andare e piange un po’.

Arriva alla clinica che già la luna è alta.
Le è sempre piaciuta la notte. Si è sempre sentita più a suo agio con il buio piuttosto che con la luce.
Di notte si sente protetta, serena, al sicuro, cosa che durante il giorno, con mille persone intorno, non è così.
La guardia all’ingresso la saluta con un sorriso bonario, come si saluta una vecchia amica, e la lascia passare.
Sale le sontuose scale di pietra e apre il portone in legno imponente.
Qualche suora si gira a guardarla con sguardo scocciato, come se non si aspettassero visite a quell’ora inusuale, ma quando la riconoscono, i loro visi mutano divenendo colmi di una pietà che la ragazza non desidera.
Segue il corridoio, sale le scale e saluta con la mano l’infermiera addetta all’accoglienza.
Ormai sa la strada a memoria.
Cerca con lo sguardo il numero della stanza corrispondente e bussa garbatamente.
Fra le mani stringe una confezione di dolcetti al cioccolato comprati in un negozio lungo la strada.
Una voce le dice di entrare e lei esegue.
Sua madre sta leggendo sulla poltrona accanto alla finestra. Gli occhiali fini inforcati sul naso, le mani elegantemente congiunte in grembo poggiate sulla copertina rigida del manoscritto.
Il volto è liscio nonostante l’età. I capelli acconciati, l’abbigliamento elegante e il portamento impeccabile ricordano quasi un quadro antico di un museo.
Perennemente immobile, per sempre identico.
La ragazza entra timidamente con un sorriso verso la madre e un inchino di cortesia.
La donna le sorride di rimando e le fa cenno di sedersi sulla poltrona difronte a lei.
La ragazza esegue e le porge il dono portato in omaggio.
La donna ringrazia con un sorriso più ampio e gliene offre qualcuno educatamente.
“Come si chiama signorina? E a che cosa devo questo piacere?” Chiede la donna e la ragazza sente una ferita lacerarsi nel petto.
Il sorriso sulle sue labbra si spegne per un secondo, poi viene subito sostituito dal suo solito e fintissimo.
Con un altro inchino si congeda e scappa via da quella stanza trattenendo le lacrime a stento.
Corre fuori, dove la notte fredda l’accoglie a braccia aperte e dove può piangere liberamente, consolata dall’avvolgente silenzio che quella clinica fuori città può offrirle.




Cammina con lentezza strascicando le gambe sul lussuoso parquet antico.
Nella sua mano svetta una bottiglia di vetro contenente un liquore abbastanza forte da stordirlo. Con l’altra mano, si tiene al muro per evitare di rovinare a terra.
Uno spettro.
Un fantasma che si aggira per i sontuosi corridoi di quel vecchio castello che è la sua dimora.
Si rende conto di quanto si stia mettendo in ridicolo. La mente è ancora lucida e sveglia nonostante l’alcolica nebbia che la confonde.
Sente gli occhi sprezzanti di sua madre addosso. Un giudizio severo e silenzioso che non ha bisogno di udire per comprendere.
Ma lei non capisce.
Non capirebbe mai.
Nessuno potrà mai capire il dolore che lo accompagna e lo consuma da secoli interi.
Raggiunge la sua stanza barcollante con difficoltà.
È buia. Polverosa. Vecchia. Come la sua anima.
Rispecchia esattamente il suo umore.
Posa la bottiglia sul tavolo da the e si avvia verso lo specchio che contiene i suoi ricordi, dove la superficie chiara risplenderà del sorriso splendido di Lei, dove i suoi occhi potranno bearsi ancora della sua figura.
Dove il suo cuore batterà ancora un po’ ricordandogli che è ancora vivo.



  
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