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Autore: Adeia Di Elferas    27/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Non c'è più tempo! Non c'è più tempo!” erano state le uniche parole che il Moro era stato in grado di dire davanti ai figli Ercole Massimiliano e Francesco, rispettivamente di sei e quattro anni, quando li aveva affidati a suo fratello Ascanio: “Non c'è più tempo e se non vi ammazzeranno i francesi, lo faranno quelli di Milano!”

Il Cardinale Sforza aveva capito fin dalle prime luci dell'alba di quel 31 agosto che qualcosa non andava. Era solo una sensazione, ma di rado si sbagliava, quando si trattava di istinto. Mentre si faceva radere il viso, sentiva il piccolo naso – tutt'altro che sforzesco – prudere, e quello gli aveva dato la conferma che qualche catastrofe stava per abbattersi sul palazzo di Porta Giovia.

Quando era arrivata la notizia, un fulmine a ciel sereno, suo fratello Ludovico aveva subito perso la testa.

Da quando era tornato da Pavia, aveva messo fretta ad Ascanio per far sì che si assicurasse una volta per tutte un corridoio sicuro per portare i due eredi del Ducato sotto la protezione dell'Imperatore.

Tuttavia, non si trattava certo di una cosa da farsi nell'immediato. Finché Pavia non era perduta, c'era tempo.

E invece, quella mattina, sotto un cielo quasi plumbeo e una cappa di calore che rendeva l'aria irrespirabile, era arrivata la saetta che aveva infranto il precario equilibrio mentale del Duca.

Simone Arrigoni, dicevano quelli che arrivavano dal centro cittadino, aveva preso di peso da casa sua il tesoriere ducale, Antonio Landriani, e, dopo averlo pubblicamente accusato di essere la longa manus del Moro e di essere quindi uno dei maggiori responsabili della povertà che si stava spandendo a Milano, l'aveva ucciso.

Quella morte, avvenuta davanti a centinaia e centinaia di occhi voraci, aveva scatenato l'inferno, un'insurrezione ai danni di Ludovico e della sua cerchia di collaboratori, e, nel giro di poche ore, si era già riunita un'assemblea popolare che avrebbe nominato un governo provvisorio.

Per lo Sforza era equivalso a sentirsi pugnalare da mille lame. Fosse stato al posto dei cittadini, infatti, per prima cosa lui avrebbe fatto uccidere il tiranno e i suoi eredi ed era dunque quello, che si aspettava dai milanesi.

“Non vi uccideranno.” aveva cercato di rassicurarlo Ermes: “Hanno troppa paura dei francesi, per rischiare di perdere il Duca e insorgere in una guerra civile per il potere...”

Ma lo zio aveva scosso il capo e aveva costretto Ascanio a prepararsi in fretta e furia e partire alla chetichella da Milano all'istante, portando i suoi figli verso l'Impero.

“Rischiano di più per strada, che in questo palazzo!” aveva provato a redarguirlo il cancelliere, ma lo Sforza era stato sordo a ogni consiglio e così, tra una preghiera detta a mezza bocca e un'esternazione di panico, aveva detto addio ai figli, immaginandosi di non rivederli mai più.

“Voglio incontrare Isabella d'Aragona.” disse poi, a Calco, quando fu certo che i suoi eredi erano oltre i confini cittadini: “Ma domani. Prima devo capire se mi taglieranno la testa a tondo o meno.”

“Allora vi organizzerò un incontro per domani.” annuì l'altro e, con un sospiro, si chiese che male aveva fatto, per dover assistere al tracollo non solo di Milano, ma anche di un uomo come Ludovico Sforza.

Il Duca annuì, una mano che correva al collo, quasi a volersi assicurare che la testa vi fosse ancora attaccata, e, guardando fuori dalla finestra, sussurrò: “Domani, domani la incontrerò...”

 

“L'ultimo giorno di agosto...” soppesò Caterina, appoggiata al davanzale che dava sul cortile d'addestramento: “Mi aspettavo che il caldo cominciasse un po' a diminuire...”

“Il vero problema è la pioggia...” fece eco Bianca, che le stava accanto: “Sapete, madre, anche oggi, quando sono uscita in città, ho visto non meno di quindici ratti correre per strada. Hanno sete e se non pioverà, l'acqua continueranno a cercarla nelle case e nelle locande.”

La Sforza sapeva benissimo che la figlia aveva ragione. Giusto il giorno prima le avevano confermato la presenza di una mezza dozzina di casi nuovi di peste dentro le mura cittadine. Si cominciava sempre così. Una manciata di malati, poi i numeri raddoppiavano, triplicavano e prima che ce se ne rendesse conto, l'epidemia era già incontrollabile.

Non si parlava ancora di chiudere le porte di Forlì, ma Caterina aveva sentito dire che nelle campagne straniere il morbo di stava diffondendo rapido e incontrastato.

Ecco perché da quella mattina aveva instaurato di nuovo il regime duro, nella rocca e al Quartiere Militare. Anche Bianca, che pure era stata fuori per poco e per un bisogno urgente di alcune cose da comprare al mercato, aveva dovuto sottostarvi, lavandosi accuratamente e cambiandosi d'abito.

“Finché resta il problema della peste – sussurrò proprio la ragazza – sarà difficile per tutti. Si perde molto tempo...”

“Meglio perdere tempo e far fatica, che morire in modo così stupido.” ribatté secca la madre, che aveva già sentito altri lamentarsi del filtro che la donna aveva imposto in entrata a Ravaldino.

La Riario annuì e poi, picchiettando un paio di volte la mano sulla pietra che incorniciava la finestra, guardò giù e chiese: “Sta scegliendo i soldati da portarsi alla cittadella?”

La Tigre seguì lo sguardo della figlia e si accorse che quello che stava indicando era Giovanni da Casale.

Dal suo ritorno, a parte il mezzo litigio della prima sera, Pirovano e la Contessa non avevano più sollevato argomenti scomodi, limitandosi a parlare di guerra, di armi e di soldati, godendosi poi la compagnia intima l'uno dell'altra ogni qual volta ne avevano avuto voglia. In un certo senso, per la Leonessa era l'ideale, anche se percepiva una silenziosa mestizia da parte del suo amante, che, però, non andava a ledere più di tanto la serenità della loro convivenza.

“Sì, sta scegliendo i soldati per la cittadella.” confermò la donna, proprio mentre Giovanni colpiva con forse troppa forza uno degli uomini che stava valutando, trovandolo impreparato e mandandolo a rovinare in terra.

“Quindi messer Pirovano si trasferirà al Paradiso?” chiese la Riario, senza intenzione di sembrare curiosa.

Voleva solo aver chiaro l'assetto che avrebbe preso la rocca e le fortificazioni a lei correlate. Suo malgrado, viveva in un ambiente dominato dalle scelte belliche della madre e preferiva avere tutto chiaro nella sua mente.

La Tigre, invece, travisò il tono della sua voce e così rispose con una punta d'astio che dispiacque molto alla figlia: “Anche se si trasferirà, continuerò a incontrarlo, se è questo che vuoi sapere.”

Bianca, a quel punto, preferì tacere. Sentiva che la Contessa era molto suscettibile, in quel momento e ogni parole di troppo sarebbe stata solo la fiammella necessaria per far scoppiare la bomba.

“Gli ho detto di prendere chi vuole.” continuò Caterina, guardando distrattamente come il suo amante non stesse aiutando il soldato appena caduto a rialzarsi: “Ma, se ci tieni, posso mettere un veto sul soldatino che ti piace tanto.”

La Sforza non pensava che quel giovane sarebbe finito nelle schiere scelte da Pirovano. Le pareva quasi che stesse mettendo da parte solo gli uomini che, o per prestanza o per bell'aspetto, potessero essere dei rivali per lui. Forse, e non era da escludersi, facendo così voleva allontanare fisicamente il maggior numero possibile di tentazioni a lei.

“Non è necessario.” ribatté la Riario, un po' a mezza bocca: “Non lo sto incontrando più.”

La Leonessa si accigliò. Dal modo in cui la figlia l'aveva detto, era difficile capire cosa intendesse con 'incontrare'. Ma la madre aveva ripromesso a se stessa di non indagare troppo nella vita privata della figlia, e così sorvolò.

“Come mai?” le chiese, mossa da sincera curiosità: “Non dirmi che anche questa volta è colpa mia, perché se è così...”

“No.” scosse il capo la giovane: “Semplicemente non andava bene per me.”

“Ma non mi sembrava male...” commentò la Sforza, scorgendo il ragazzo nel cortile, mentre, proprio in quel momento, passava sotto ai fendenti di Giovanni.

“Non era male. Ma è solo un ragazzino.” furono le lapidarie parole di Bianca e dopo quelle la Contessa non osò sollevare altri quesiti.

“Mia signora.” la voce di Cesare Feo, alle spalle delle due, colse entrambe di sorpresa.

Difficile dire da quanto fosse lì e, quindi, cosa avesse fatto in tempo a sentire. Caterina confidava nella sua buona educazione e quindi sul fatto che fosse appena arrivato.

“Cosa c'è?” chiese la donna, con un sospiro pesante, capendo subito dal suo sguardo che c'erano notizie e non molto belle.

Il castellano lanciò un rapido sguardo alla Riario, ma sapeva che la Contessa non le avrebbe chiesto di allontanarsi, perciò parlò e basta: “Pandolfo Malatesta – spiegò – è partito verso Cotignola con Giacomaccio da Venezia. Vanno a dare sostegno a Meleagro da Forlì, contro i milanesi.”

La Leonessa strinse i denti e a Bianca non sfuggì la contrazione dei muscoli del suo collo, segno di disappunto.

La Contessa se l'aspettava che prima o poi il Pandolfaccio si sarebbe rimesso a menar le mani, ma per qualche motivo sperava non lo facesse andando a dare manforte a quel modo ai veneziani, favorendo ancor di più il lavoro dei francesi.

“Quindi alla fine Meleagro ha ricevuto i soldi che il Doge gli aveva promesso.” commentò a voce bassa.

Cesare annuì: “Sì, era di stanza a Ravenna, come sapete, ma è partito nel momento stesso in cui si è visto versare quanto dovuto.”

La Sforza fece un respiro molto fondo e poi, lanciando un'ultima occhiata mesta verso la finestra e capendo che non aveva tempo di guardare ancora Giovanni da Casale far sudare i suoi possibili amanti, disse: “Va bene. Radunate il mio Consiglio Ristretto, dobbiamo discuterne. Bianca, vai a chiamare tuo fratello, voglio che ci sia anche lui.”

La Riario fece una mezza riverenza e, chiedendo venia anche al castellano, si mise a camminare rapida per andare a recuperare Galeazzo. Perché quando la madre aveva detto 'tuo fratello' non aveva avuto il dubbio, nemmeno per un momento, che si potesse trattare di qualcun altro.

 

Francesco Fortunati mescolò con il coltello l'acqua in cui aveva fatto gocciolare il succo di prugne che aveva personalmente estratto. Non era una delle bevande che preferisse e, in tutta sincerità, in quel momento avrebbe preferito un calice di prugnolino molto forte a quella sbiadita e sobria imitazione, tuttavia voleva restare vigile e presente a se stesso, perciò doveva accontentarsi di quanto aveva sulla scrivania.

Quell'ultimo giorno di agosto, per lui, era stato un giorno molto amaro e pieno di ombre e voleva solo lasciarselo alle spalle.

Passandosi con attenzione un pezzo di stoffa sulla fronte madida di sudore – perché anche se era quasi sera, il caldo era ancora opprimente – l'uomo riordinò mentalmente le idee e, quando fu certo di cosa scrivere, prese una pagina pulita e la penna.

Nei giorni passati era stato a Firenze, ed era tornato a Cascina solo quella mattina, per scoprire che Paolo Vitelli aveva smantellato il campo a Pisa per spostarlo in parte proprio a Cascina e in parte a Livorno, dividendo in due, di fatto, il suo esercito. Per di più si diceva che avesse già caricato i pezzi di artiglieria – gli stessi per cui Firenze si era svenata – su dei barconi, alla foce dell'Arno, per poterli trasportare tutti quanti a Livorno.

Questo di certo avrebbe reso i rapporti tra la Signoria e il Vitelli ancor più delicati e, alla fin fine, più incerto l'esito dello scontro con Pisa.

In più, e questo Francesco l'aveva potuto appurare di persona durante il suo soggiorno fiorentino, al Palazzo Vecchio tirava una brutta aria, per quanto riguardava l'alleanza con la Sforza. Le proposte fatte, per il Beneplacito per suo figlio Ottaviano erano volutamente difficili da accettare e Giovanni da Casale, ambasciatore pro tempore della Tigre, non era stato assolutamente in grado di mercanteggiare come sarebbe convenuto.

Lorenzo Medici pendeva sempre di più per i francesi e grazie a tutte le sue conoscenze e agli agganci commerciali e non solo che aveva, stava facendo in modo che la Contessa venisse lasciata sempre più sola. Tanto sola che la sua unica speranza di sopravvivenza, pensava Fortunati, stava nel suo esercito e nelle casse del suo Stato.

Peccato che, se il primo era veramente formidabile, per quanto piccolo, le seconde erano molto grandi, ma altrettanto vuote.

Mentre cominciava a grattare con la punta della penna, lasciando che l'inchiostro nero solcasse la pagina come un aratro, Fortunati scuoteva il capo, chiedendosi una cosa molto importante.

La badessa delle Murate, che aveva orecchie lunghe e occhi ovunque, in città, gli aveva fatto capire che la Signoria era restia a tenersi stretta la Tigre perché conosceva bene le debolezze del suo Stato e la labilità delle poche alleanze che millantava d'avere, e, più ancora, la scarsità di denaro che l'affliggeva. Oltre a ciò c'erano informazioni di ordine pratico che lasciavano intendere al piovano che vi fosse qualche delatore, tra i suoi collaboratori, o magari anche solo tra i suoi nobili.

Era solo una sensazione, ma non poteva escluderlo. Perfino i figli della Contessa, per lui, potevano essere sospettati. In fondo, questo l'aveva imparato bene dalle confessioni che la stessa Sforza gli aveva fatto più volte nel corso del tempo, Ottaviano Riario aveva fatto la spia in più occasioni, da ragazzino, arrivando a scrivere lettere tanto pericolose da indurre perfino i parenti romani a prendere posizione e mettere lo zampino nella morte del Barone Feo.

Però non poteva certo mettere a parte la Leonessa di tutte quelle sue elucubrazioni tramite lettera.

Se una spia c'era, poteva leggere e agire di conseguenza. E, se anche non ci fosse stata, la missiva sarebbe potuta andare comunque persa o intercettata e allora sarebbero stati grossi guai anche per lui.

Così decise di restare sul vago, ma di insistere su quello che poteva dire chiaramente. Incitò Caterina a far denari in ogni modo, rivolgendosi anche a Leonardo Strozzi, noto per la fortuna dei suoi traffici, che di certo avrebbe saputo come aiutarla. Per farle capire che era serio, le scrisse chiaramente di non prendere le sue parole come uno scherzo, perché il bisogno che aveva lei di soldi era grande.

'Questi sono tempi d'haver danari et homini – sottolineò il piovano – quando egli è tempo, e' bisogna spendere.'.

Venne poi colto da uno scrupolo ulteriore. Doveva metterla in qualche modo in guardia, doveva lasciarle intendere i suoi sospetti, pur senza fare accuse troppo nette.

Così, con un sospiro, riprese a scrivere: 'Illustrissima Madona, se la Signoria vostra ama la sua e mia salute, non mostri le mie lettere altro che a Messer Ioanni da Casale, altrimenti l'auerto che io fermerò la penna; la cagione sono contento dirle al mio ritorno'.'

Rilesse l'ultima riga e la trovò appropriata. La Contessa era una donna molto sveglia: avrebbe capito subito.

Le chiese poi, sia per necessità, sia per confondere le acque in caso di intercettazione, di mandargli una sella per la muletta che lei stessa gli aveva regalato poco tempo addietro, giacché lui si sentiva inesperto, mentre lei era una grandissima e fine conoscitrice dei finimenti per cavalli e per qualsiasi altro animale che si potesse cavalcare.

Prima di chiudere, sempre strizzando in parte l'occhio alle spie e in parte perché davvero desideroso di dimostrare il suo affetto, scrisse: 'et faccia vezzi a Lodovico', evitando di chiamare l'ultimogenito della Sforza Giovannino.

Con un ultimo sospiro tremulo, l'uomo rilesse due volte da cima a fondo, si schiarì la gola con un sorso di acqua e succo di prugna, e poi firmò e chiuse la lettera.

Non desiderava altro che essere di aiuto alla Sforza. Specie da quando Ottaviano Manfredi era morto davanti ai suoi occhi senza che lui potesse far nulla per salvarlo. Era una sorta di debito, quello che sentiva di avere nei confronti della Contessa. Doveva ripagarlo in qualche modo e, sostenerla e appoggiarla gli sembravano buoni mezzo di redenzione.

Ecco perché era stato così a lungo a parlamentare con le Murate, a Firenze, ed ecco perché continuava a prendere informazioni circa le mosse non solo della Signoria, ma anche di Lorenzo Medici.

In più, durante la sua ultima visita in città, si era azzardato anche a incontrare Bartolomeo Scali, il suocero di Michele Marulli. Sapeva, grazie a messaggi cifrati che l'avevano informato di quegli agganci particolari, che anche lui era stato contatto per creare la rete di protezione che avrebbe dovuto salvaguardare i figli della Sforza.

Lo Scali all'inizio era guardingo, anche perché il piovano l'aveva avvicinato nella pubblica via, fingendo di volergli chiedere un'elemosina per un convento di Cascina, ma poi, capito da che parte stava e vista una lettera autografa della Tigre che il religioso mostrò come garanzia di buonafede, aveva ammesso a mezza bocca che effettivamente era in contatto con il genero.

Fortunati allora aveva discusso un po' con lui e gli aveva fatto presente il ruolo che la madre superiora delle Murate aveva accettato di rivestire.

Insomma, era stato un soggiorno fiorentino pieno di impegni e Francesco ne era uscito abbastanza a pezzi. Ciò che lo stancava di più non era tanto l'impegno in sé, quanto le possibile complicazioni cui rischiava di andare incontro. Aveva sempre paura di parlare troppo, o con la persona sbagliata.

Troppe vite dipendevano dalla segretezza del suo operato e di quello dei suoi alleati.

Si allentò un po' il colletto dell'abito. Con il caldo che faceva, avrebbe tanto voluto potersi fare un tuffo in un mare di acqua gelata. Sapeva che non era solo l'afa a farlo sudare così, ma lo faceva sentire meno in pericolo, pensare che la colpa fosse tutta di quell'agosto infuocato che finalmente volgeva al termine.

Forse gli sarebbe giovata una passeggiata in mezzo al verde, per rilassarsi e ritrovare un attimo di pace per pregare. Si rendeva conto solo in quel momento che non pregava da giorni.

La tentazione era molto forte, tuttavia aveva ancora molto da fare, malgrado l'ora, e così finì di bere il suo bicchiere rinfrescante e poi, da bravo amministratore quale sapeva essere, prese le sue sudate carte e si mise all'opera.

 

Caterina guardava Giovannino dormire e intanto rimuginava. Quanto discusso quel giorno in Consiglio di Guerra l'agitava. Non le piaceva pensare che Pandolfo Malatesta avesse lasciato Rimini.

Per quanto fosse un pazzo violento, finché lui restava nella sua città, la Sforza sentiva di poter avere uno spiraglio di alleanza, nel caso in cui le cose fossero andate male. Saperlo in guerra complicava tutto.

Si sentiva isolata e nessuno rispondeva più alle lettere in cui spiegava come, unendosi insieme come un sol uomo, i signori della Romagna, e, più estesamente, del centro Italia, avrebbero potuto contrastare i francesi.

In certe risposte evasive aveva letto le minacce veneziane, in altre missive, secche e categoriche, gli influssi fiorentini. E in quelli che semplicemente tacevano aveva intravisto la paura e basta.

Le sembrava assurdo che nessuno capisse il potenziale degli Stati italiani. Se si fossero uniti tutti, ognuno con le proprie eccellenze, re Luigi non sarebbe riuscito a mettere sul suolo italiano nemmeno la punta dell'alluce. E invece nessuno prendeva nemmeno in considerazione l'ipotesi di unire le forze. Ognuno era troppo impantanato nelle rivalità di confine, nelle faide che duravano da secoli, ciascuno già troppo concentrato sui propri piccoli affari.

Poche ore prima, mentre era ancora a letto accanto a Pirovano, la Sforza si era trovata a ricordare di come il suo terzo marito condividesse con lei l'idea di un'Italia unita e capace di respingere lo straniero con un'azione corale e mirata. Anche lui, però, aveva ammesso che per il momento si trattava solo di un'utopia.

Era più importante farsi belli con l'Impero, con il papa, con la Francia o addirittura con la Spagna, che non essere indipendenti. Era meglio avere facilmente protezione e danaro dagli stati stranieri, che non guadagnarsi la propria autonomia.

'Se solo avessi potuto ereditare il Ducato di Milano – aveva pensato allora la donna, con rabbia e amarezza – avrei avuto i mezzi per convincere almeno qualcuno a seguirmi in questa idea.'

E invece il Ducato era in mano a un uomo come il Moro che, più di chiunque altro, non vedeva che il proprio particolare.

Proprio in quel periodo, proprio mentre cominciavano ad arrivare notizie a raffica dal Nuovo Mondo. Quella che sembrava, dalle prime chiacchiere, una sottile striscia di terra, si stava trasformando in qualcosa di più. Nelle corti europee, pareva, si cominciava a parlarne sempre di più e qualcuno, come gli spagnoli, stavano già valutando l'idea di distrarre un po' di energie proprio oltre oceano.

Ma in Italia, pensava Caterina, il Nuovo Mondo era solo qualcosa di astratto ed era molto più interessante per tutti litigarsi un lembo di terra al confine tra uno Staterello e l'altro.

A suo modo di vedere, stavano tutti perdendo una grande occasione. Si stavano lasciando sorpassare da tutti e, una volta che i francesi fossero scesi fino in Romagna, non trovando grossi ostacoli, non si sarebbero di certo fermati, arrivando magari fino a Napoli e oltre.

Ma lei era solo una donna, a capo di uno Stato minuscolo e pieno di debiti. Non c'era da sorprendersi che nessuno l'ascoltasse. Gli altri Stati romagnoli l'avevano presa sul serio solo una volta, e, per far sì che lo facessero, aveva dovuto trasformarsi in una spietata assassina, senza né freni né remore morali.

In lontananza si udirono le campane suonare due rintocchi. Era il cuore della notte. La stanza del piccolo Medici era illuminata da un paio di candele e il silenzio era così perfetto che il respiro del piccolo si poteva distinguere nettamente.

La Tigre era arrivata lì dopo aver passato qualche ora completamente insonne. Aveva mandato via la balia, e si era seduta accanto al lettuccio del figlio. La luce soffusa le dava quasi fastidio, ma si guardò bene dallo spegnere i lumi, perché sapeva che il suo ultimogenito aveva paura del buio.

Era l'unico, tra i suoi figli, a dimostrare quel tipo di paura, così come era l'unico che aveva bisogno di qualcuno vicino per addormentarsi. La Contessa sapeva che se quel genere di debolezze fossero state dimostrate da un altro qualsiasi dei suoi figli, probabilmente lei si sarebbe arrabbiata e avrebbe fatto di tutto, pur di fargliele passare.

Con Giovannino, invece, riscopriva una pazienza e un'accondiscendenza che non aveva mai avuto con nessuno.

Si era messa a osservare le piccole mani del figlio, costatando ancora una volta quanto poco somigliassero a quelle del padre e quanto invece, purtroppo, ricordassero quelle tozze e larghe dello zio, quando sentì un rumore arrivare dalla porta.

“Ah, sei qui!” Pirovano aveva il volto stravolto, era scalzo e indossava solo le brachette da notte.

“Cos'è successo?” chiese subito la Leonessa, allarmandosi, nel vederlo in quello stato.

“Niente. Non ti trovavo e mi sono preoccupato.” spiegò lui, mettendosi improvvisamente sulla difensiva e abbassando la voce, nel rendersi conto del piccolo Medici che si stava agitando nel sonno.

L'iniziale allerta della donna si trasformò all'istante in irritazione: “Come puoi vedere, non sono con un soldato, ma con mio figlio.” poi lo squadrò da cima a fondo, allungando intanto una mano ad accarezzare la testa di Giovannino, per calmarlo e scongiurarne il risveglio: “Non mi dire che hai girato per tutta la rocca conciato così.”

Giovanni da Casale abbassò lo sguardo, come se si accorgesse solo in quel momento di aver addosso solo brachette e poi, con una lieve esitazione, rispose: “Ovviamente no.” decidendo che non fosse il caso di elencare i posti dove, effettivamente, era stato.

“Se non hai altro da dire, vattene, o sveglierai Giovannino.” fece allora Caterina, indicandogli la porta.

L'uomo sospirò, dedicò uno sguardo rapido e indifferente al bambino e poi borbottò: “Va bene, va bene... Ti aspetto in camera.”

“Potrei fare tardi.” gli fece presente lei che, in effetti, non aveva molta voglia di rimettersi a letto, sapendo che, probabilmente, non avrebbe chiuso occhio.

“Ti aspetto comunque.” concluse lui, grattandosi la nuca e tornando alla porta.

La Sforza tornò a concentrarsi sul figlio e, vedendo che si stava risvegliando, lo sollevò dal suo giaciglio e se lo tenne stretto al seno: “Se ci fosse ancora il tuo babbo...” gli sussurrò, mentre il piccolo, felice di vederla e cullato dal contatto fisico con lei, cominciava già a riassopirsi: “Sarebbe tutto più facile...”

 

Galeazzo da Sanseverino guardava la colonna di francesi che avanzava. Era ancora notte, ma la strana rifrangenza di quell'acquazzone rendeva le armature dei nemici ben riconoscibili anche al buio.

Aveva cominciato a diluviare verso sera e non aveva ancora smesso. Erano caduti, a un certo punto, anche enormi chicchi di grandine e i soldati al seguito del Sanseverino si erano rintanati nei loro padiglioni, dovendo usare comunque gli scudi per proteggersi dai proiettili di ghiaccio che riuscivano perfino a bucare la stoffa dei tendoni.

Era in quella situazione agghiacciante che era giunta la notizia, da parte dei suoi esploratori, che alcune colonne francesi, proprio a causa del tempo infido, erano rimaste isolate tra il Bormida e il Tanaro.

Essendo Galeazzo accampato a Mirabello, avrebbe potuto raggiungere i francesi in fretta e colpirli, andando a indebolire l'esercito che stava marciando veloce verso Pavia.

Ma gli era mancato il coraggio di dare quell'ordine. Erano troppi giorni che i suoi si crogiolavano nella più totale inattività. Quando aveva provato timidamente a commentare l'opportunità di muoversi per andare incontro ai nemici, aveva quasi avuto paura di una rivolta interna e così aveva lasciato perdere.

Aveva perso troppa credibilità per riuscire a imporsi sui suoi soldati. Prima di tutto la notizia che le truppe del Trivulzio avessero preso in rapida successione Alessandria e poi Mortara e Piacenza aveva avuto un effetto deleterio sul morale dei suoi uomini e poi c'era stata tutta la brutta questione della sua fuga da Alessandria.

Lì per lì gli era parsa una buona idea, tanto che aveva convinto anche Malvezzi a seguirlo. Poi, però, si era pentito di aver abbandonato Alessandro Sforza al suo destino. Quando si era spostato verso Pavia, era stato pubblicamente tacciato di viltà, gli era stato detto che era scappato come un topo che scappi dal gatto, senza nemmeno provare a difendere il proprio onore e quello dei milanesi.

Il Sanseverino, in cuor suo, sapeva di aver fatto la scelta strategicamente più assennata, perché restare sarebbe equivalso a farsi uccidere e basta, ma quell'ombra di vergogna che gli avevano gettato addosso pesava molto, forse troppo, sul suo spirito.

Aveva permesso a quelle accuse di condizionarlo e alla fine aveva perso polso con i soldati. E così, quella sera, sotto quel fortunale che sembrava voler ripagare i lombardi dell'estate infinita e torrida a cui erano stati costretti, aveva lasciato che i francesi si defilassero senza fastidi, dritti e veloci verso Pavia e da lì verso Milano.

 
 
   
 
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