I
walked through the fire and I fly through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.
3. Sunlight
“Se ti comporti male, Tonton Macoute ti porta via.”
Tonton Macoute, Zio
Sacco di Juta. Ancora a distanza di anni, Tim ricordava i moniti
secchi di sua nonna paterna. Seduta sulla sua grande poltrona a
fiori, con il camice largo e le ciabatte da cui spuntavano i piedi,
fasciati dalle calze contenitive per combattere la pessima
circolazione, la signora Westfield aveva un aspetto imponente,
persino autoritario, e parlava di Tonton Macoute con talmente tanta
convinzione da far credere all’allora nipotino che potesse
evocarlo
così, da un momento all’altro, come se fosse stato
un suo vecchio
amico.
Il giovane Tim ne
era inquietato e affascinato al tempo stesso, anche se sua mamma gli
diceva di non dare ascolto alla vecchia Tina, perché era
spostata
come suo figlio; e, considerando che suo figlio la
mamma di
Tim se l’era sposato, in fin dei conti al bambino non
sembrava una
posizione poi tanto credibile quella della sua genitrice.
Nonostante questo, e
nonostante pochi anni dopo Tina fosse morta d’infarto,
l’ombra di
Tonton Macoute era rimasta; a modo suo infatti Timmy aveva provato a
essere buono, per quanto, si era reso conto con la crescita, la
definizione di buono nel mondo degli adulti fosse molto relativa.
Così, mentre sua sorella maggiore cresceva e usava
l’ironia come
scudo, Tim aveva provato a interpretare cosa fosse buono o meno e
ribatteva se qualcosa non gli andava giù:
tenere le cose nascoste era pessimo, di certo non voleva che Tonton
Macoute si
barcamenasse
fino all’Eight Street di Lafayette per punirlo e portarlo via.
Altra
realizzazione in parallelo, però, era che agli adulti
tendenzialmente non piaceva quando un ragazzino li contestava, o si
esprimeva liberamente, quasi come se temessero di vedere mistificato
il loro piccolo mondo fatto di principi inattaccabili per colpa di un
marmocchio, sputato da una scatoletta di lamiera che ricordava un
container, più che una casa. Questo dunque gli aveva dato un
sacco
di problemi, specie con suo padre e gli altri adulti con cui il
piccolo Timmy aveva costantemente a che fare, eccetto sua madre, a
detta di molti eccessivamente comprensiva.
“Sono
le sue radici francesi che la rendono debole. Cajun: loro e come
parlano. Pensano che qui sia l’Europa” sbottava suo
padre, mentre
Tim si teneva il labbro spaccato da un suo ceffone, quasi per farlo
smettere miracolosamente di sanguinare.
In
qualche forma, comunque, nonostante
gli alti e bassi della vita
Timmy era arrivato fino ai sedici anni senza troppi impedimenti di
sorta, eccetto la normale lotta per la sopravvivenza, tra lavoretti
pagati con qualche mancia per aiutare con le spese di casa, oppure
i racconti sui
loa trasmessi da Mama Hazika e
quindi narrati in cambio di cibo
ai bambini del vicinato, per quando i genitori non c’erano. Giunto
a quell’età era arrivata anche
la progressiva consapevolezza che, tanto, dal suo personale ghetto di
povertà Tim
non
sarebbe mai uscito, come i professori, le
sue uniche guide,
si erano
premuniti di ricordargli: non sei intelligente e
sei
svogliato per studiare, Westfield,
quindi non
pensare nemmeno di avere una borsa di studio. Il
college puoi
anche dimenticartelo.
Anche se
intelligenza e svogliatezza spesso
venivano confusi con un precoce senso di arrendevolezza
a un mondo di falliti; ma Tim
aveva creduto a quello che dicevano i suoi insegnanti, dunque non si
era mai scomodato a far cambiare loro opinione.
Tutto
questo insieme
di fragili
equilibri,
però, aveva
cominciato a mutare
nel
momento in cui Tim si
era
ritrovato a
fare due conti
con se stesso riguardo le proprie preferenze sessuali. E se in
principio aveva attribuito lo scarso interesse ed eccitazione verso
il genere femminile a un suo complessivo
senso di disagio, alla rabbia e alla frustrazione per la situazione a
casa, con il tempo Tim
aveva
realizzato che qualcosa non andava come doveva: nel
masturbarsi davanti
a qualche
patetico ritaglio di uomini in intimo, rubati
da una delle riviste recuperate di fortuna, o con in testa corpi
maschili di compagni di scuola, piuttosto che di compagne.
Non
si parlava mai di cose come l’omosessualità, anche
se era un
argomento sicuramente meno tabù di quanto avveniva decenni
prima, né
lui aveva amici, o parenti a cui rivolgersi per
chiarire i propri dubbi.
Sua
madre da un po’ di tempo a quella parte sorrideva raramente,
stava sempre più a letto e si lamentava delle proprie
frustrazioni
meno di
quanto facesse anni
prima
– e
quante ne aveva, di frustrazioni:
la carriera come insegnante naufragata
per un matrimonio riparatore e dei figli avuti troppo giovane,
dei libri che non leggeva con la stessa frequenza di una volta,
soprattutto
la sua amata
Virginia Woolf,
della generale ignoranza in cui suo marito Waltie era sprofondato e
che
stava risucchiando tutti loro, in
un quartiere povero e con lavori precari.
Sua
sorella c’era sempre meno a casa, impegnata a cercare di
succhiare
con avidità quel poco di libertà che trovava in
amiche e ragazzi
che sosteneva di amare, per poi dimenticarsene o piangere di
delusione, quasi fosse una questione di sopravvivenza ultima,
l’amore
di un’altra persona.
Poi,
Tim conobbe Mathieu.
Suo
padre si era trasferito da Baton Rouge per lavoro e, come Waltie
Westfield,
lavorava in una
fabbrica che produceva zanzariere per porte e finestre; certo, a
differenza del proprio vecchio, quello di Mathieu era un ingegnere,
quindi assicurava al figlio tutto ciò che invece a Tim
mancava. Ma
quest’ultimo nemmeno da ragazzino
era mai stato tipo da sentirsi sminuito o invidioso per le questioni
materiali, seppur persino troppo conscio del peso del denaro:
liquidava
tutto con un pacifico
pazienza, a lui è andata meglio, c’è
gente a cui è andata meglio
ancora e
altri che
stanno peggio. Così è la vita.
Difatti
di Mathieu, più che i soldi, Tim aveva notato il fisico
slanciato da
corridore – una gazzella con il colorito d’ebano
– i capelli
ricci, acconciati in splendide treccine corte che tracciavano linee
perfette sul cranio altrettanto armonioso. Gli occhi erano di un
castano più chiaro, quasi nocciola, e alla luce del sole
sembravano
medaglie di legno contornate da un mare di ciglia folte, con una
strada luminosa di denti attorno a cui si distendevano le labbra
piene.
“Marie
Laveau, eh? Deve essere stata davvero un portento!”
Aveva
esordito all’improvviso Mathieu, con le mani nelle tasche dei
jeans
tagliati fino al ginocchio, il sorriso e un occhio chiuso per via del
sole del tramonto. Tim era seduto sulle scale del porticato in Eight
Street, stava infilando in un sacchetto della spesa le merendine, il
boudin o altri contenitori di cibo portati dai bambini del vicinato
che ora, finiti i racconti, stavano rientrando a casa; alzò
lo
sguardo, rimanendo in silenzio qualche istante perché non
sapeva
proprio cosa dire, troppo stupito che la gazzella
fosse
arrivata fino a lì.
“Sì.
Mama Hazika però ci terrebbe a ricordare che il voodoo
è una
religione, la magia nera un’altra cosa. Ma ai bambini non
sembra
interessare.”
Il
giovane allora aveva riso, con quella risata calda e vibrante che
sembrava venire direttamente dai polmoni per far scuotere di piacere
la trachea; forse, effettivamente faceva ridere che un cajun dai
capelli biondi parlasse di voodoo a un creolo di origini haitiane. A
quest’ultimo, però, in realtà sembrava
non importare, esattamente
come ai bambini: “Piacere, sono Mathieu. Mio papà
ha conosciuto il
tuo a lavoro, so che andiamo alla stessa scuola e allora,
sai...”
Aveva
scrollato le spalle, muovendo le pieghe della polo stirata. Aveva una
scarpa di tela slacciata, quasi come se fosse uscito di fretta.
A
quel punto Tim mosse le labbra in un sorriso; poi, le mosse per
presentarsi a sua volta: “Tim. Dove abiti?”
Mathieu
si guardò un istante attorno, grattandosi la testa:
“Ehm, abito…
non distante. Forse.”
Gli
aveva sorriso di nuovo e, per la prima volta, Tim si era sentito
consapevole della propria stupidità,
dell’inesperienza, di tutto
ciò che aveva di non chiaro nella propria vita. Mentre il
cuore, ah,
batteva con entusiasmo palpitante, lo stesso di quando il ragazzino
si lanciava a tutta velocità giù per le discese
con la bici del
vicino, che cigolava e gli ricordava di fermarsi, ma lui attendeva
fino all’ultimo solo per poter sentire fino in fondo
l’eco dei
propri battiti folli nelle orecchie.
“Vuoi
entrare? Ho del succo” gli aveva proposto
d’istinto, parlando più
veloce, con la speranza luminosa che dicesse di sì, quel
giorno, e
poi altri, che passasse ancora nel suo vicinato per ascoltare qualche
stupido racconto al tramonto del sole, quando la città si
impigriva
e i vecchi sedevano sulle sdraio per contemplare i raggi immergersi
fin dentro le rive del Vermilion.
Mathieu
aveva accettato senza nemmeno pensarci.
Da
allora avevano avuto un anno per conoscersi e per rivelarsi
l’uno
all’altro, per ciò che erano: innamorati, come
potevano essere
innamorati due ragazzini di poco più di sedici anni, quindi
senza
pensare al futuro, ma comunque consapevoli del tempo. Così,
mentre
da una parte Tim vedeva sua mamma sparire tra le pieghe del letto,
dall’altra usciva dalle mura di casa e lì tornava
a vivere, con
Mathieu. Prendeva con lui il bus per andare fino a New Orleans, aveva
visto mesi dopo il Mardi Gras, sperimentando i colori e la festa, la
musica e i balli; avevano chiesto passaggi di fortuna nel cuore della
notte, tra gente che andava nei campi a lavorare e altri che, come
loro, ritornavano nelle città vicine. Era andato nei locali
a
sentire suonare musica blues, aveva fatto lunghe nuotate nel lago
Pontchartrain nei giorni d’estate in cui non aveva scuola,
dormendo
all’aperto o in una tenda di fortuna.
Aveva
visto il sole riverberare sulle superfici dell’acqua, con il
mare
poco distante e le paludi simili a trame troppo larghe di un tessuto,
dopo aver fatto l’amore con Mathieu in maniera di volta in
volta
meno impacciata ma mai davvero esperta, con quell’irruenza
maschile
che mascherava la paura di fallire, di essere troppo femmina,
di star facendo un immenso sbaglio e svegliarsi, magari un mattino,
con una voce sordida che gli diceva sei malato, Tonton
Macoute ti
porterà via.
Ma
Mathieu era bello, era quel riverbero di luce sull’acqua, era
i
baci più sicuri, meno tormentati dell’animo
perennemente in
contrasto di Tim. Era le unghie perfette che gli grattavano la pelle
o la schiena quando le zanzare gliela pungevano, era il modo in cui
la lingua accarezzava e cercava quella del compagno senza
vergognarsi, era la presa gentile quando lo masturbava e gli chiedeva
di abbracciarlo perché aveva freddo e poi gli faceva il
solletico,
ma solo dopo, più tardi, perché in
realtà realizzava di aver caldo
e smascherava il suo pretesto.
“Sai,
pensavo di dirlo a mio padre un giorno. Che sono gay” aveva
confessato all’improvviso Mathieu. Era fine marzo e loro si
trovavano sulle rive del lago, all’alba.
Tim
era seduto accanto, con le braccia allacciate attorno alle gambe
dalle ginocchia spigolose, i capelli biondi lunghi fino alle
orecchie, fradici, perché si era fatto un bagno gelido e suo
malgrado tremava. Con le labbra viola e un asciugamano di fortuna
sulla schiena, Timmy si era girato verso Mathieu, guardandolo come se
fosse stato un alieno:
“Dirà
che sei una femminuccia – lo aveva detto con tono tiepido, un
po’
tremante per il freddo – Capirà anche di noi
due?”
Gli
occhi azzurri, di vetro dorato per le prime luci del sole, si erano
dilatati in un moto di panico involontario, anche se
l’espressione
era stoica, quella di un prigioniero che accettava la sentenza.
Mathieu,
che non aveva più le treccine ma i capelli erano tagliati
cortissimi, aveva sollevato le spalle: “Non sono una
femminuccia,
questo lo sa pure lui. Poi, anche fosse, dai, mi vuole bene. Crede in
me. Non gli dirò di noi due, però forse lo
immagina. Sai – mosse
una mano, come se stesse spiegando un concetto fondamentale –
credo
si veda, che io e te ce la intendiamo.”
In
un altro contesto, Tim sarebbe stato lusingato da
quell’affermazione.
Gli sembrava una bella e impacciata dichiarazione d’amore, se
solo
non fosse stato troppo impegnato a calcolare il peso delle scelte per
riconoscerla.
“Mio
padre… no, non lo capirebbe mai” aveva sbottato
Tim, coinciso.
Stava per alzarsi in piedi, quando Mathieu ancora seduto lo aveva
fermato per dirgli: “Tuo padre è uno stronzo, Tim.
Un omofobo
razzista. Ce l’ha coi francesi, pensa di essere di origini
inglesi
e ce l’ha pure con noi negri –
aveva fatto il segno delle
virgolette con l’altra mano – perché
è piccolo e frustrato.
Sbattigli in faccia la verità: se lo merita, per come tratta
te e
per cosa sta facendo a tua madre.”
Tim
per un attimo non aveva parlato. Con grande lucidità e un
fare molto
più adulto dei suoi reali anni, si era tolto dalla presa di
Mathieu
con un gesto però morbido, per poi ribadire apparentemente
incolore:
“Sì,
sì, mio padre è un pezzo di merda, lo so, non ho
bisogno che me lo
ricordi tu. Hai uno splendido rapporto con tuo papà,
è un grande
uomo, e ti auguro che le cose tra voi due vadano sempre
così, anche
quando gli parlerai di chi sei. Ma non voglio che ciò che
sono
diventi una punizione per il mio, di padre, capisci? E lascia fuori
mia mamma. La depressione è una malattia, non uno scarico di
responsabilità.”
Si
era infine strizzato i capelli, per poi togliersi le mutande bagnate,
asciugarsi e fare per rientrare nella tenda a vestirsi. Mathieu
allora si era corretto, i muscoli più definiti di giovane
atleta
sembravano una molla tenuta sotto tensione: “Non volevo
esprimermi
così – una risata morbida, quasi come se si
sentisse in difetto,
tanto bambino, rispetto a quell’uomo rinchiuso nel corpo di
un
ragazzino – prendi tutto troppo alla lettera, sai che tuo
papà mi
fa arrabbiare e… è che sarebbe bello, no? Se
potessimo parlare
liberamente. Magari baciarci.”
Aveva
arricciato il naso, i denti bianchi svettanti in un altro sorriso
spontaneo. Tim non gli aveva risposto. Una volta aperta la tenda, si
era infilato le mutande e una canottiera, per poi riemergere coi
pantaloncini in mano e uno sguardo stanco, ma al tempo stesso
malinconico:
“Vivi
in un mondo di favole. Dai, rientriamo che devo arrivare a Lafayette
prima che cominci il mio turno da Donny Burger.”
Mathieu
allora aveva smesso di sorridere. Più alto, era scattato in
piedi e
con quel fervore giovanile ma lucido degli oppressi, il ragazzo aveva
ribattuto: “Non sono io a vivere in una favola, Tim! Sei tu a
essere rimasto confinato in un mondo retrogrado e stupido –
aveva
indicato con un dito oltre il lago, con alle spalle costantemente il
mare, in un punto indefinito dei maestosi U.S.A. - là
marciano per i
nostri diritti. Là ci sono locali, là ci si tiene
per mano, là ci
sono associazioni e spettacoli, show televisivi, pagine su facebook,
su instagram, su twitter. Smettila di credere che sarai sempre e solo
un poveraccio figlio di operai incapace di uscire dal ghetto!”
Stava
ansimando. Aveva urlato.
Tim
aveva al contrario serrato le labbra e faceva fatica a respirare;
aveva gli occhi lucidi: di rabbia, rabbia verso suo padre, verso sua
madre che si era dimenticata di lui, verso sua sorella che lo pensava
ma fuggiva, verso Mathieu che non capiva, verso il suo paese stupido,
verso la sua casa così povera da essere patetica, una
parodia di un
tetto e di quattro pareti, verso il suo quartiere che odorava di
asfalto sciolto, di peperoni e cipolle, di sudore, quando
l’afa era
insopportabile e l’odore del fiume portato dal vento caldo
ricordava le insenature di Delacroix, stagnanti ma paradossalmente
salate.
Allora,
di riflesso, ancora incapace di gestire tutti quei sentimenti, anche
se avrebbe dovuto, perché già lavorava, era
dovuto maturare in
fretta, si ingegnava per pagarsi i libri, per andare a scuola, per
trovare il modo di non gravare sulla sua famiglia, Tim aveva
digrignato i denti per poi urlare, facendoli quasi tremare. Aveva
dato ancora una spinta a Mathieu che aveva compiuto un passo
indietro, perdendo per qualche istante l’equilibrio, sorpreso
ma
non troppo da quello scatto furente. Westifield aveva urlato ancora,
più forte, senza parlare, per poi aprire la bocca e
continuare a
gridare, con le vene sul collo che pulsavano e gli occhi gonfi. Non
riusciva a piangere, anche se li sentiva lucidi per
l’esasperazione.
Aveva
afferrato poi Mathieu per la maglia; lo vedeva spaventato, come
consapevole di aver tirato troppo la corda. Per un attimo la giovane
gazzella d’ebano aveva creduto che Tim, coi suoi lineamenti
nervosi, spigolosi ma al tempo stesso ancora intinti di un eco
adolescenziale, gli avrebbe tirato un pugno.
Invece,
Westfield aveva solo dilatato le narici, lo guardava e ammetteva, con
voce rauca, senza piangere anche se il volto era arrossato:
“Lo so.
So di essere rimasto indietro, Thieu.”
Scosso,
sconvolto, dopo essere tornato a respirare questi aveva balbettato
qualcosa, la sua sicurezza di diciassettenne svanita con la stessa
rapidità con cui smetteva di sorridere. Poi, aveva scosso la
testa e
gli aveva ribadito:
“Non
ce l’avevo con te. Non è colpa tua.”
Di
cosa ci fosse qualche colpa, esattamente, non lo sapeva nemmeno lui.
Sentiva di volerglielo dire.
Tim
aveva annuito, senza dire più nulla, quasi come una
constatazione
genitoriale dopo aver sentito le scuse del figlio, poi si era messo i
pantaloncini e con un saltello le scarpe da ginnastica mentre, ancora
nudo, in piedi, Mathieu lo guardava, incerto. A quel punto Westfield
lo aveva guardato a sua volta, i capelli fradici che gli avevano
bagnato la canotta; si rendeva conto di essersi allontanato,
nella sua maniera particolare in cui stava imparando a distaccare i
sentimenti, simili a un germoglio troppo precoce da togliere e tenere
da parte per momenti migliori:
“Hai
ragione e non ce l’ho nemmeno io con te. Forse... davvero,
tirare
fuori tutto, parlarne, è la cosa migliore. Grazie”
lo aveva detti
sinceramente, con quel fare semplice e diretto che gli apparteneva e
che, negli anni, gli aveva creato tanti problemi.
Mathieu
si era portato una mano sulla testa, massaggiandosela appena mentre
aveva risposto: “Prego. Non… non devi
ringraziarmi, Tim. Siamo
assieme, no?”
Gli
occhi sembravano più grandi quando glielo disse, quasi col
timore di
essere smentito, o peggio ancora che Tim lo lasciasse così,
su due
piedi.
“Quest’estate
Ellie darà una festa. Siccome non ci è riuscita
per i sedici e
nemmeno ha mai avuto una macchina, ha pensato di approfittarne per i
ventuno e portare alcolici. Ci possiamo andare assieme” aveva
proposto l’altro, all’improvviso. Mathieu aveva
fatto una faccia
strana, di quelle apertamente confuse, poi era scoppiato a ridere,
battendo le mani mentre saltellava sul posto; suo malgrado Tim rideva
a sua volta, contagiato dal buonumore rinnovato dell’altro,
capace
di farlo sorridere anche nei momenti più impensabili.
“E
facciamo festa, e facciamo festa, festa, festa sì!”
Aveva
canticchiato Mathieu, mimando un balletto un po’ seducente,
un po’
festoso, con immaginari ritmi haitiani insiti nel suo sangue creolo.
Poi,
sempre ballando, aveva baciato Tim che, più leggero dopo
aver
urlato, o forse era la luce nel sorriso del suo ragazzo, si era
lasciato sedurre sulle sponde placide del lago, anche se dentro di
sé
era acqua, lacrime e sudore.
Due
mesi dopo, Tim aveva perso sua madre e, di riflesso, aveva smesso di
nuotare: aveva creduto che forse le storie di Tonton Macouta non
erano bugie, anche se inesatte. Lo zio Sacco di Juta l’aveva
di
sicuro punito per essere stato bugiardo, codardo e vigliacco, ma
anziché rapirlo gli aveva portato via sua madre.
Sua
sorella invece aveva lasciato definitivamente casa, quasi fosse stata
anche lei stregata dall’uomo nero; però, aveva
confessato a Tim
che in sogno le era apparsa la loro mamma, chiedendole quando sarebbe
arrivata l’estate di celebrare la vita e il mondo che aveva
lasciato. Tim aveva pensato che forse Ellie avesse bisogno di una
giustificazione per provare a essere felice e permettersi,
egoisticamente, di avere ancora un compleanno.
Laissez
les bons temps rouler. Sua mamma lo diceva sempre, ma non ci
aveva creduto fino in fondo; forse, per questo almeno i suoi figli
dovevano provarci.
“Tchoupitoulas”
scandì lentamente Tim mentre guardava con attenzione le
labbra di
Abel, tenendo una mano sul suo cockatil che gocciolava fino al
portabicchiere.
L’altro
assottigliò gli occhi, come se ciò gli garantisse
una maggiore
concentrazione: “Cia…
– poi si bloccò, rise e replicò
– maddai, non è nemmeno una parola.
È… è un insieme cacofonico
di consonanti.”
“Certo
che è una parola, esiste: Tchoupitoulas Street, sul
Missisipi –
specificò Tim, per poi far tintinnare con un certo sapore di
vittoria il bicchiere contro quello del suo compagno – il
vostro
accento di New York è ridicolo.”
“Il
vostro fa ridere, non il mio; bah, compreso il ciupitapa,
o
come si dice, e quella schifezza che mangiate... bubin,
quella
roba lì” liquidò Abel, che aveva bevuto
poco e piano, ma mal
sopportava non sapere qualcosa o non esprimerlo al meglio.
“Ciupitapa?
Cosa tiri fuori, che tipo sei – scosse la testa Tim,
divertito da
quella pronuncia per lui bizzarra di qualcosa di tanto scontato e
domestico – il boudin comunque. Non lo mangio da una vita,
secondo
me ti piacerebbe: una volta o l’altra lo proviamo.”
Lo
osservò e Abel fece un sorriso più morbido,
affettuoso,
dimenticando la competizione su accenti e geografia:
“Volentieri.
Se me lo prepari tu.”
“Auguri
allora” commentò Tim, anche se abbassò
lo sguardo con fare schivo
e quell’imbarazzo leggero dietro il suo fare austero di
difesa.
Tornò a guardarlo, realizzando la fortuna di poter parlare
di cibo
con Abel, di promettergli di cucinare della carne con la speranza che
lui l’avrebbe davvero mangiata, anche se non sarebbe mai
stata
buona come quella preparata da mamma nei suoi anni più
felici.
A
quel punto Abel gli mostrò la lingua, contemplando il modo
in cui
Timmy corrugava le sopracciglia e poi roteava gli occhi, in un ormai
noto tentativo di mistificare il sorriso spontaneo. Poi
spostò lo
sguardo verso la terrazza dove la gente, esattamente come loro,
beveva, ballava e chiacchierava; le luci percorrevano i porticati
simili ad arredi a festa, assieme a rampicanti decorativi,
mischiandosi all’illuminazione del resto del Cultural
District,
dove Edith Labelle aveva invitato loro e gli altri suoi ospiti a
festeggiare dopo lo spettacolo teatrale. Poco oltre,
l’Allegheny si
preparava a incontrare l’Ohio ed era come se, con quelle luci
e
quelle chiacchiere, ognuno degli astanti si stesse preparando a dire
addio a un fiume, contemplando le sue acque scorrere
un’ultima
volta.
Ma
d’altronde così era Pittsburgh, la
Città dei Ponti: un crocevia
di acque e di cultura. Ad Abel faceva effetto trovarsi lì,
con Tim
che gli aveva stretto più forte la mano quando avevano
passeggiato
vicino alla riva, per riuscire ad arrivare al quartiere dopo aver
lasciato le cose all’hotel; era come un presagio della
propria
promessa di vedere un giorno Tim tornare a nuotare.
Adesso
erano lì, su una terrazza ricca di persone interessanti,
alcune più
estrose delle altre, parte di quel mondo queer che Abel tanto amava e
conosceva ma che Tim, invece, ancora guardava un po’ a
distanza,
come se non lo capisse o fosse incerto di avere il permesso per farne
parte fino in fondo. Lo vedeva, coi suoi occhi chiari, severi, di chi
aveva contato le bollette e ogni singolo centesimo e tolto oggetti
dalla lista della spesa, anziché metterli, ma allo stesso
tempo
erano occhi curiosi, assetati di quelle luci scintillanti narrate da
qualcuno più esperto o sognatore di lui.
Abel
allora gli si avvicinò di più, sussurrandogli in
un orecchio:
“Secondo me quel tipo con la giacca a quadri se la intende
con
l’altro.”
Tim
lo guardò un istante, con una sorta di sorriso perplesso,
poi seguì
lo sguardo di Abel, che aveva puntato con un cenno l’oggetto
del
suo pettegolezzo frivolo: “Il tipo con le macchie
dici?”
“Ghepardato,
è ghepardato, piccolo Ciupitapa – lo prese in giro
Abel,
contemplando il volto dell’altro che, coi capelli sciolti, la
maglietta dipinta da lui addosso e dei semplici pantaloncini,
continuava a ignorare gli elementi base del vestiario consapevole
–
comunque sì, è lui.”
“Ciupitapa”
ripeté Tim, scuotendo la testa apertamente divertito, per
poi
sfiorarsi la cicatrice e aggiungere: “E invece di quei due
che si
tengono per mano, che pensi di loro?”
“Uno
è l’amante di Ghepardato. Sì, si vede
che è un tipo che ama
tenersi impegnato” dedusse Abel con fare saccente e
altrettanto
divertito, circondando però il suo ragazzo con un braccio.
Un
movimento morbido, persino elegante e leggero. Annusò i suoi
capelli: “Sai di shampoo dell’albergo.”
Tim
lo lasciò fare, anche se temeva non si sarebbe mai abituato
a quei
gesti:
“Ed
è una brutta cosa? Perché hai anche tu lo stesso
odore” scherzò
Westfield, per poi vedere Abel mordersi un labbro e sorridere.
Allora,
in quella terrazza, in una festa con gente che non conosceva in cui
Abel aveva insistito per portarlo ed essere lui a pagare, esattamente
come l’aveva spronato per farlo viaggiare e mandare a fanculo
il
suo datore di lavoro che lo sfruttava e non lo pagava, sì,
in quella
terrazza ripensò a tutti i sorrisi delle persone che aveva
amato e
che gli avevano rivolto. Ed erano più di quanti pensasse.
Sua madre,
sua sorella, i bambini del quartiere quando lui era un ragazzino
cantastorie, Mama Hazika, la vecchietta del 24/7 che lui ogni tanto
aiutava sistemandole gli scatoloni della merce, oppure
l’insegnante
di inglese, l’unica che premiava la sua
creatività. Mathieu. Che
aveva lasciato dopo la festa di Ellie, coperto di sangue e lacrime.
“Laissez
les bons temps rouler” mormorò, per poi vedere
Edith Labelle
alzare un calice e rispondere al brindisi di uno dei suoi amici. La
trovò bellissima, coi suoi abiti in bianco e nero, i capelli
pallidi, il trucco di un’attrice d’altri tempi. Con
la sua
simpatia travolgente aveva detto una battuta capace di far sorridere
tutti, così, come se si trattasse di accendere e spegnere
una
lampadina. Essere interessante, divertente, coinvolgente era un dono,
alla stregua di Abel che sapeva affascinare anche solo dal modo in
cui muoveva le labbra, articolava il corpo, rivolgeva uno sguardo.
Portò
un dito sulla mano di Abel, appoggiata sul tavolo, e ammise, per poi
guardarlo negli occhi e calamitare il suo sguardo, nonostante il
fiume che risucchiava vita e trasportava memorie, le luci e le
risate: “Con mio padre non è andata bene, lo sai.
Ma ora sono qui,
in questo posto, e… sono convinto di aver fatto la cosa
migliore
anche se più pazza della mia vita.”
Si
grattò di riflesso la cicatrice, come per accertarsi che
fosse
ancora lì e avere appunto conferma che, purtroppo, non se ne
sarebbe
mai andata.
Abel
gli osservò il dito, il modo in cui lui gli toccava la mano.
Si alzò
poi in piedi, lasciando la sigaretta elettronica sul tavolo; quella
sera aveva fumato poco. Si tolse le ciabatte, infine tese una mano
verso il suo compagno e gli propose, con fare tranquillo:
“Dai,
balliamo, amore.”
Tim
rimase immobile, quasi l’altro stesse scherzando; poi si
guardò
attorno, sospirò, come se gli costasse una grande, immensa
fatica,
ma alla fine annuì e commentò tranquillo,
avvicinandoglisi dopo
avergli afferrato solo un dito:
“Ti
ho fatto un discorso serissimo prima, ora ci tieni proprio a fare
qualcosa di ridicolo. Non so ballare, Abel.”
Quell’ammissione
fu un sussurro, quasi avesse qualcosa di cui colpevolizzarsi, o non
fosse al passo coi tempi. Ma Mahogany si limitò ad annuire,
a
mettergli la mano sul fianco e a prendere quella dell’altro,
intrecciando le dita.
La
musica era ritmata, in una rievocazione di gusti musicali tra gli
anni ‘70 e ‘80 che nessuno dei due aveva mai
vissuto, ma che in
qualche modo erano passati di generazione in generazione. Nonostante
questo Abel ballò piano, scalzo, coi suoi capelli che
stavano
crescendo ma non sarebbero mai stati lunghi quanto quelli di Tim,
l’accenno di barba non rasata, qualche ruga
d’espressione assieme
a quelle piccolissime d’età, mentre Tim nonostante
fosse più
giovane, per il sole delle sue terre, per la vita meno curata,
attorno agli occhi e alla pelle arrossata aveva già delle
prime
rughe, che si vedevano di più quelle volte importanti in cui
sorrideva, anche se la cicatrice sembrava mangiare tutto il resto.
Abel
appoggiò con lentezza la fronte su quella del compagno e
chiuse gli
occhi. Sentì poi la sua mano appoggiarsi a sua volta sul
fianco; in
quell’occasione, Westfield una volta di più fu
felice di non
sentire le costole del suo ragazzo, la pelle sottile e tesa, al
contrario di quando l’aveva visto le prime volte:
un’ombra
nervosa che fumava sigarette, in una soffitta inondata di luce
tiepida, delle insegne di una città che era anche un mondo,
con le
sue idiosincrasie, le etnicità e le subculture. Tim allora
non aveva
avuto idea di cosa fosse l’anoressia, di come la fame, il
cibo, il
corpo potesse essere allo stesso tempo l’alleato
più importante ma
anche il nemico più formidabile con cui avere a che fare.
Quando
si erano conosciuti sapeva di essere inadeguato, ferito e rattoppato
malamente, forse lo era anche adesso, eppure nella sua ignoranza,
persino nella sua semplicità, magari all’epoca era
stato quello
che serviva ad Abel; per questo, più entrambi crescevano,
più
temeva che avrebbero potuto allontanarsi, che presto le serate
mondane per le esposizioni delle sculture, i giri nei locali LGBT, i
circoli letterari avrebbero potuto assorbire Abel e sputare fuori
Tim, che non era altro che un normale essere umano intento ad
arrancare per sopravvivere con ciò che aveva, anche se poco.
Poi,
però, in occasioni come quella Westfield sentiva di avere
una
connessione speciale con lui, basata non solo sulle sofferenze e le
difficoltà, ma anche su una percezione diversa delle piccole
cose,
di sogni condivisi verso un futuro più luminoso.
Abbassò
lo sguardo e cercò di seguire Abel nei suoi passi di danza,
anche se
questi si muoveva poco e sembrava più cullarlo. Lo
guardò negli
occhi, però, quando questi sussurrò, socchiudendo
i propri:
“Mio
papà non è mai stato di molte parole. Ma quando
gli ho rivelato di
essere gay, mi ha detto che l’aveva già capito,
anche se era un
dottore, con la sua scrittura orrenda, le sue lauree e la
capacità
di aprire i cuori, ma non certo di leggerli. Mi ha chiesto di te
qualche mese fa, sai? È aggiornato sul fatto che adesso ho
un
ragazzo vero; stabile, capisci. Dopo Lyanna non ci credeva nemmeno
più lui.”
Accennò
a una risata, poi fece un profondo respiro. Odorava del mentolo della
sigaretta elettronica, di un profumo vagamente floreale che Tim gli
sentiva addosso quando usciva, ma anche del cocktail che aveva
sorseggiato: bastava un istante per assorbire ciò che si
prendeva,
tanto o poco che fosse.
Tim
non disse nulla. Era sempre un’esperienza totalizzante venire
messi
a parte delle fragilità di Abel, dietro la sua maschera di
sicurezza, così come sentire rivelazioni d’affetto
che davano un
nuovo spessore al loro rapporto, anche se mischiate con il ricordo di
Lyanna, di cui non gli aveva mai parlato.
Riconobbe
poi una canzone di George Micheal, sentita tanti anni addietro in
un’occasione non troppo felice. Pensò che anche
lui, come altri
artisti provocatori, capaci di lasciare un messaggio e
un’eredità,
era morto; ritenne assurdo che fino a pochi anni fa conosceva poco o
niente di musica, se non per passaggi in radio, nelle scampagnate in
bus o grazie a sua sorella che lo rendeva partecipe dei suoi
interessi, quando si incrociavano a casa e loro padre non
c’era. Si
sentì felice, per quel momento e per tante sue scelte, al
punto che
scomparve il peso portato nel cuore per aver lasciato il lavoro, per
i soldi che andavano, più che venivano, per la paura che non
sarebbe
mai riuscito a risalire.
Abel
allora continuò: “Mia madre invece
l’unica cosa che è riuscita
a dirmi è stata non puoi essere gay e obeso.
Saresti ridicolo.
Visto che la prima situazione non cambierà mai, vedi di
modificare
la seconda. Lo ha detto così, come se fosse una
pratica da
sbrigare. So per certo, anche se non me lo ha mai specificato, che
è
persino felice che io sia gay, ma solo perché come artista
è quasi
una garanzia, uno status, capisci? 'Sta puttana.”
Sollevò
a sua volta la testa e incrociò gli occhi con Tim, che non
aveva mai
smesso di guardarlo. I suoi occhi chiari, incastonati in un volto di
chi era stato al sole e non sembrava progettato per farlo, avevano
così tante sfumature di saggezza, dispiacere e una forma di
orgoglio
stanco, da far rimanere l’altro sempre affascinato.
“Sono
uno stronzo a trattarla così, vero? Se ho tutte queste
mostre ed
esposizioni è perché mia madre mi promuove e
sfrutta i suoi
contatti. Da solo non avrei fatto nulla. Eppure, davvero, non riesco
a...”
Si
umettò il labbro e volse gli occhi verso il cielo. Per via
delle
luci non riusciva a vedere le stelle.
Tim
pensò in quel momento di contestarlo com’era
giusto che fosse,
ribadirgli che sua mamma lo promuoveva perché era certa del
talento
del figlio e perché era una donna contorta, capace di fare
ammenda e
dimostrare il suo algido affetto elogiandolo di fronte a estranei,
piuttosto che davanti ad Abel. Ma quella non era una serata per
deduzioni emotive e, ormai lo conosceva, quando sembrava piangersi
addosso Abel non amava essere contestato neanche dal suo ragazzo.
“Davvero
eri un ragazzino obeso? Non ci credo nemmeno se mi fai vedere una
foto” commentò infatti all’improvviso
Tim, pacato, con un
sopracciglio sollevato e un accenno di sorriso.
Abel
non rispose subito, preso piacevolmente in contropiede. Gli sorrise a
sua volta, poi spostò la mano dal suo fianco per portargli
una
ciocca di capelli dietro le orecchie e, dopo un istante, confermare:
“Oltre
quindici chili in sovrappeso. Per mia madre ero già
l’Anticristo
in pratica.”
Scrollò
le spalle, poi rise, per tranquillizzare Tim sul fatto che,
soprattutto a distanza di anni, anche se ancora era infinitamente
difficile fare pace col proprio corpo, almeno non c’erano
più
argomenti tabù sul peso, il cibo e sua madre.
Timmy
allora fu meno in tensione e lasciò andare un sorriso,
istintivo ma
quasi tagliente, così maturo e saggio, di quelli capaci di
far
sparire la cicatrice e rendere più belli gli occhi; li
deviò poi
verso Edith Labelle, con i suoi vestiti dal taglio anni ‘50 e
la
parrucca gonfia, piena, che svettava ad adornare il volto
splendidamente truccato, in quel modo esagerato eppure femminile
tipico dell’essere drag queen. Infine ammise:
“Ero
un po’ incerto, sul fatto che dovessi vedere Johnny o, questa
sera,
Edith. Temevo sarebbe stato difficile per te ritrovarlo, dopo quello
che entrambi avete passato e l’esperienza in clinica. Mi
chiedevo
infatti come avrebbe combattuto lui che, più di chiunque
altro, si
trova sotto gli occhi della gente e mostra il proprio fisico in
quanto parte di sé, del personaggio che si è
costruito. Poi,
guardando lo spettacolo ho capito, e ti ringrazio: usa
l’ironia.
Scherza sul proprio problema, lo prende in giro, come se fosse un
amico di vecchia data.
A
volte non sempre combattere e abbattere il problema è la
soluzione:
già, a volte bisogna prenderlo sotto braccio e portarlo con
sé,
plasmandolo, riadattandolo, come tu hai fatto con le statue, o Johnny
con gli spettacoli.”
Avrebbe
voluto che sua mamma avesse fatto lo stesso, avrebbe voluto essere
più coraggioso, più saggio, più
esperto… quanti più
avrebbe voluto essere stato, per poter tornare indietro nel tempo e
dirglielo, anche se la stessa vita di Tim era stata un continuo
alternarsi tra una rumorosa lotta disperata d’arena e un
leggero
planare sull’acqua, in attesa di riprendere il volo o di
andare più
a fondo, ma sempre discreto e silenzioso.
Abel
lo guardò, in quel caso eccezionalmente incapace di
ribattere.
Respirò appena attraverso le labbra impercettibilmente
dischiuse,
con gli occhi scuri che non battevano ciglio. Poi, se le morse e
sorrise.
Abbracciò
di più Tim, appoggiando la guancia sulla sua spalla dalla
clavicola
spigolosa, come un tempo era spigolosa la propria, e ritenne che non
fosse poi così male avere qualche chilo in più di
lui, anche se una
voce di disprezzo e paura cercava di fargli credere il contrario;
semplicemente, però, la voce di Tim, la sua presenza quieta,
a
tratti imbronciata, matura eppure tanto giovane, era più
forte, più
carica di luce, come il sole immenso delle sue terre.
Anche
quella sera, in quel viaggio, il voodoo di Timmy aveva scacciato ogni
male.
Grazie
all’aiuto di alcuni amici e conoscenti, quella sera estiva al
Pa
Davis Park era stato possibile allestire tavoli e festoni in uno
spazietto dedicato, tra il golf club comunale e le altre
attività
ricreative, complice la serata più tranquilla in cui la
gente non lo
frequentava.
Era
una bella festa, con la musica di chi aveva portato la chitarra e di
chi lo stereo, l’alcool, le ghirlande hawaiane e un
po’ di cibo
spazzatura che dava la carica e riempiva lo stomaco. Anche Tim stava
riuscendo a godersela, sebbene un po’ in tensione,
perché qualche
giorno fa Mathieu aveva parlato con suo padre, tenendo fede alle
intenzioni confessate su di un lago. Era andata benissimo, anche se
c’era stato quel vago iniziale imbarazzo genitore-figlio
così
tipico di quell’età.
Carico
di pensieri, Tim aveva bevuto qualche birra e ora sedeva sulla
panchina con le gambe aperte, i gomiti appoggiati sulle cosce e lo
sguardo rivolto verso Ellie che ballava. Mathieu era poco distante e
ballava a sua volta, con il suo sorriso scintillante, i capelli un
po’ più lunghi rispetto a quel giorno di marzo in
una tenda; visto
così, sembrava avere una maggiore consapevolezza dentro di
sé,
quasi avesse appena varcato una soglia per Tim ancora proibita.
Stasera lo dico a
mio padre. Glielo sparo in faccia. Che sono ricchione.
Si
tormentò le dita in cui teneva una bottiglia di birra, tamburellando un piede. Sentì
una canzone di Lady
Gaga, che Ellie amava, e pensò che poteva essere di buon
auspicio.
Poi partì George Micheal che allora lui nemmeno conosceva.
Poche
note dopo scorse qualcuno voltare la testa, all’improvviso;
allora,
anche Tim spostò lo sguardo.
La
bottiglia gli cadde di mano, in un tonfo attutito dall’erba.
Il
vetro si scheggiò e la birra, in una schiuma bianca,
affondò tra i
ciuffi verdi, espandendo nell’aria odore di luppolo e di
spezie,
mischiato a quello del prato tagliato da poco.
Gli
mancò il respiro, quando vide suo padre – il
vecchio, stanco,
rancoroso Waltie Westfield – avanzare a passo di carica nel
prato,
fendendo la gente che si spostava un po’ irritata, i festoni,
ignorando la musica e le chiacchiere. Con il cuore che batteva sempre
più veloce Tim si alzò in piedi, lanciando
un’occhiata prima a
Ellie, che aveva sgranato gli occhi, poi a Mathieu che aprì
e
richiuse la bocca più volte.
Per
un istante, soltanto per uno, Tim pensò che suo padre fosse
lì per
Ellie. Perché invidioso della festa, perché lo
reputava ingiusto,
quando lui non aveva avuto mai niente e sua moglie si era annegata in
un fiume – Dio, teatrale ed eccessiva fino
all’ultimo –
lasciandolo con due figli ingrati.
Stupido.
Era stato stupido a pensarlo: Waltie
era lì per lui.
Senza
parlare, infatti,
se lo era trovato davanti. Si
erano guardati, come
prima di
un duello ma già destinato a decretare vinto e vincitore.
Infine,
Tim vide la sua luce negli occhi: una luce cattiva, pericolosa, un
guizzo improvviso di rabbia, di odio e di paura profonda, come
qualcosa di ineluttabile che non si poteva combattere.
Nonostante
la realizzazione di quello sguardo, Tim non riuscì a
evitarlo: suo
padre lo colpì in pieno volto con un pugno, scaraventandolo
sulla
panchina per poi fargli sbattere
la schiena contro il tavolo. Qualcuno urlò. Ellie e Mathieu
corsero
incontro a entrambi, gridando spaventati e furenti, ma, prima che
potessero fare qualcosa, con un ringhio feroce, terribile,
l’uomo
afferrò suo figlio per i capelli, i capelli che non gli
faceva
tagliare perché costavano soldi e lui non ce li aveva da
spendere
per un parassita, e gli urlò, a pochi centimetri dal volto:
“Come
cazzo ti permetti? Come? Dopo tutto quello che ho fatto per te, che
ho sacrificato! Vai – mosse una smorfia di disgusto, come un
rigurgito di rabbia; Tim ricordò l’odore di alcool
e di sudore, ma
ricordò soprattutto la paura – vai, Cristo Santo,
cazzo, a dare il
culo agli uomini? È questo che sei? Un frocio? Un finocchio
che
scopa con… con quel negro?”
Indicò
Mathieu sputando, con il volto congestionato dalla rabbia, i capelli
non lavati di chi sciattamente si stava lasciando andare.
Tim
non riuscì a parlare. Terrorizzato,
cercò
scoordinato di muovere
le mani, ma suo padre gli sollevò di più la testa
e con un urlo
gliela schiantò contro il tavolo. Il
ragazzo
vide all’improvviso
tutto nero,
come
se qualcuno gli avesse lanciato addosso della vernice scura,
le orecchie fischiarono e fu certo, in quel fischio, di sentire il
suo stesso dolore parlargli. Più e più volte,
avvertì la testa
spaccarsi contro il tavolo, udì uno schiocco secco che non
seppe se
fosse
il legno o il cranio, fino
a
che
qualcuno trascinò via il
suo vecchio, che ancora lo insultava, come se ne valesse comunque la
pena.
Tim
allora
cercò di rimettersi
in piedi, anche se barcollava, non aveva più
l’equilibrio e il
volto era
ricoperto di sangue. Non sentiva più niente eppure
al tempo stesso avvertiva male, né si accorse di avere uno
squarcio
sul lato destro della fronte. Cercò di toccarselo, senza
vedere
altro che bordi neri attorno a sé, e a malapena
udì Ellie urlare e
piangere, o Mathieu che gli aveva preso la testa tra le mani,
sporcandosele, e cercava di dirgli qualcosa mentre il resto del
gruppo allontanava Waltie
Westfield che giurava, su tutto quello che era sacro, di
disconoscerlo, di non avere più un figlio, che la sua donna
si era
uccisa perché un rottinculo
era un peso troppo grande da portare.
Il
ragazzo non
perse conoscenza,
ma rimase catatonico per qualche ora.
Fu
solo quando uscì dall’ospedale,
con dei punti e il volto gonfio, che Tim si bloccò in mezzo
alla
strada, per poi guardare Mathieu; ah,
Mathieu, che
non la smetteva
di dispiacersi e di arrabbiarsi con quel patetico
figlio di
puttana razzista e omofobo.
Anche se davanti aveva un altrettanto
patetico
ragazzino sporco, ormai
senza
genitori, squarciato e privo di soldi, dall’educazione
scolastica
precaria e privo di alcun reale talento, fascino o pregio.
Senza
parlare, con gli occhi azzurri sgranati, Tim invece puntò
all’improvviso il dito oltre il suo compagno; oltre i tetti
bassi,
oltre i negozi dall’intonaco che si staccava, le insegne
vecchie e
i marciapiedi dissestati. Oltre. Dove un tempo l’aveva
puntato
Mathieu: attraverso il lago, i fiumi, le distese paludose della
Louisiana. Verso New York; poi, il resto del mondo.
“Là”
annunciò Tim in un sussurro roco.
Per
un istante Mathieu non capì. Aveva ancora le mani sporche di
sangue
e gli occhi liquidi di paura. Poi, realizzò di cosa Tim
stesse
parlando, e si sentì stupido, per avergli detto
all’epoca quelle
parole con tanta rabbiosa indignazione.
Sorrise.
E
quando sorrise, Tim realizzò che Mathieu non lo avrebbe
seguito in
quel là. Ciò che erano finiva
in quella strada, il loro
viaggio, ma i ricordi sarebbero stati per sempre, come cartoline mai
spedite.
Tim
sarebbe partito comunque. Con autostop, passaggi di fortuna,
spendendo ciò che aveva messo da parte in pullman, bibite e
merendine. Dormendo dove capitava, lavandosi ai bagni delle stazioni,
utilizzando qualche ulteriore centesimo per telefonare a Ellie e
scusarsi, mentre lei a sua volta gli chiedeva scusa e lo pregava di
stare attento.
Mathieu
gli aveva ancora scritto un paio di volte, dicendogli che gli mancava
e si pentiva di non aver avuto la sua forza. Ce l’aveva con
se
stesso e con Waltie Westfield:
Tonton Macoute ti
ha portato via da me. Un giorno riandremo sul lago, anche se magari
staremo con persone diverse e saremo cambiati: torneremo a nuotare,
senza paura, alla luce del sole.
Sproloqui di una zucca
Questa volta il prompt era coming out. Ho giocato molto sui parallelismi in questo capitolo, sperimentando su una struttura narrativa a più riprese, con collegamenti e il riferimento alla canzone di George Micheal collegata, Outside. Spero di aver trasmesso le atmosfere della Louisiana, con riferimenti alle tradizioni, alla cultura cajun, creola, al voodoo, ma anche al cibo e ai luoghi. Allo stesso modo in cui ho cercato di dare qualche atmosfera di Pittsburgh e degli U.S.A. in generale, per quanto non sia facile rendere per scritto le differenze d'accento. A questo proposito ci sono un sacco di video a tema simpaticissimi.
Grazie per aver letto, spero mi accompagnerete ancora in questo percorso.