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Autore: Adeia Di Elferas    30/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Come mai avete voluto vedermi?” chiese Isabella d'Aragona, le due figlie di cinque e sei anni per mano.

Avevano cercato di convincerla a lasciarle fuori dalla sala, ma la donna aveva insistito e non si era staccata da loro per nessun motivo, troppo prevenuta nei confronti dello zio acquisito per permettere a qualcuno di separarla dalle due bambine.

Ludovico fece un sorriso un po' incerto, benché nei suoi progetti quella sul suo volto avrebbe dovuto essere un'espressione rassicurante, all'Aragona diede solo una sensazione di pericolo.

“Mia dilettissima nipote...” cominciò a dire lui, una delle grosse mani che si apriva e si allungava verso Isabella, come a darle il benvenuto: “Io mi sono reso conto di aver sbagliato moltissimo con voi, moltissimo, moltissimo davvero.”

La napoletana taceva, e così le sue figlie. Al Moro sembravano un terzetto di fantasmi. La vedova di Gian Galeazzo era pallida e il suo viso lasciava trasparire solo in parte il fascino che aveva avuto qualche anno addietro. Le due bambine, invece, erano emaciate e come spente, un po' come se fossero reduci da una fatica enorme.

“Non c'era bisogno di chiamarmi fin qui nel vostro palazzo per dirmi queste cose.” fece l'Aragona, ritrovando un po' di colore nelle gote: “Che mi abbiate trattato male e che tutt'ora mi impediate di vedere mio figlio, lo so benissimo anche da me, senza che lo diciate.”

Ludovico deglutì. Era più difficile del previsto, ma doveva andare fino in fondo. Non aveva alcuna intenzione di lasciare che Francesco, il figlio di suo nipote, restasse a Milano e rischiasse di diventare un fantoccio nelle mani di re Luigi, avendo così salva la vita e salvo il futuro.

Aveva provato a ipotizzare di portarlo con sé fuori dal Ducato, ma era stato informato del fatto che, dopo la brutta questione dell'omicidio del suo tesoriere, s'era creato un vero e proprio picchetto fuori dal castello di Pavia di fedelissimi di Isabella e Francesco e quindi prendere il ragazzino sarebbe stato pressoché impossibile, salvo decidere di spargere il sangue dei suoi sudditi, in un momento già tanto delicato.

E poi, il Duca quasi si sentiva uno sciocco nel pensarlo, ma strappare in modo tanto definitivo quel figlio dalla madre non gli piaceva, come idea. Sentiva che tutto quello che gli stava capitando era solo una punizione divina per quanto aveva fatto a suo nipote prima e a Isabella poi e quindi non voleva peggiorare la situazione.

“Io vi ho chiamata per ben altro, infatti.” disse, rafforzando il sorriso tirato: “Io voglio offrirvi i feudi che abbiamo in Puglia e in Calabria, voglio darvi il Ducato di Bari.”

Nel dire ciò, l'uomo recuperò sulla scrivania un documento e lo mostrò alla donna che, pur di non lasciare le mani delle figlie, si limitò a leggerlo a distanza, senza impugnarlo.

“Il titolo che era di vostra cugina Beatrice – continuò l'uomo, sforzandosi di suonare convincente e amichevole – a titolo di controdote.”

“E in cambio che volete da me?” chiese l'Aragona, aspettandosi il colpo di coda dallo Sforza.

“Che ve ne torniate immediatamente a Napoli con vostro figlio Francesco.” rispose Ludovico.

Ci fu un lungo momento di silenzio. Isabella credeva di aver capito male, ma il modo in cui il Duca la fissava le lasciava intendere che, invece, avesse capito benissimo.

Strinse con più forza le manine delle sue figlie e si permise, per un solo istante, di immaginare il suo Francesco, di riabbracciarlo, di rivederlo, finalmente e di poterlo portare con sé, al sicuro, nella sua bella Napoli.

Poi, però, si ricordò della vipera che aveva davanti.

“La vostra proposta mi interessa.” disse, senza scomporsi, come se la prospettiva di poter ritrovare il suo figlio primogenito la sfiorasse solo molto marginalmente: “Mi prenderò, però, qualche giorno per ragionarci.”

Ludovico fu colto di sorpresa da quell'obiezione. Si era aspettato di vedere la giovane prostrarsi a terra, sciogliersi in pianti di gioia, ringraziarlo per la sua immensa magnanimità... E invece era lì, fredda e glaciale, impassibile, effige perfetta di una statua priva di sentimenti ed emozioni.

“Sappiate, comunque, che il titolo di Duchessa di Bari ormai è vostro...” sottolineò lo Sforza, per invogliarla a sciogliersi: “Il titolo che era di mia moglie Beatrice...”

“Me ne compiaccio, ma per gli altri punti del nostro accordo, voglio prendermi del tempo.” ribadì la donna, riuscendo a far affiorare un vago sorriso sulle labbra ceree.

Il Moro sentiva che sotto quell'atteggiamento tanto serafico doveva esserci qualcosa, un disegno, un progetto, ma non riusciva a capire quale. Ne avrebbe parlato con Ermes, ma, intanto, gli era impossibile chiudere l'accordo nell'immediatezza, come invece aveva sperato di poter fare.

“Vostro figlio Francesco ha un disperato bisogno di voi...” provò a insistere il Duca, senza accorgersi che, così facendo, stava solo confermando a Isabella la presenza di qualche secondo fine nella sua generosa proposta: “Dicono che pianga notte e giorno, invocando il vostro nome, che creda che l'abbiate abbandonato, che...”

“Basta così!” scattò infine la donna, attirando di più a sé le due bambine, come a farsi coraggio, prima di dire lapidaria: “Io non me ne andrò da Milano. Non so cosa vogliate, mandandomi a Napoli con mio figlio, ma qualsiasi cosa sia, io non mi muoverò da qui.”

“Ma re Luigi sta arrivando! Prenderà la città! Voi non capite, voi..!” farfugliò il Moro, alzando sempre più la voce, perdendo la pazienza molto più in fretta di quanto avrebbe voluto: “Voi non sapete..! Siete solo una stupida donna che..!”

Mentre il duca inveiva contro di lei, finalmente l'Aragona capì il suo gioco, intuì il timore primario dell'uomo che aveva usurpato a suo marito il Ducato e che, adesso, lo vedeva minacciato dai francesi che, per comodità, avrebbero potuto benissimo scegliere proprio Francesco come governatore fantoccio.

Risoltasi improvvisamente di fare esattamente ciò che l'uomo temeva, Isabella si ripromise di correre incontro al re di Francia, quando fosse giunto a Milano, e offrire volontariamente il figlio proprio a quello scopo. L'avrebbe avuto libero, vivo e protetto niente meno che da Luigi XII.

“Io resto, Ludovico.” disse allora, quasi trionfante, le labbra che stavolta si aprivano in un sorriso vero e pieno: “Ma voi farete bene a scappare. So che Milano comincia a non volervi più. Dovrete lasciar qui la tomba di mia cugina e rinunciare alla vostra aspirazione di essere sepolto accanto a lei...”

Lo Sforza non aveva ancora pensato a quel risvolto. Se fosse scappato a Innsbruck e non fosse mai riuscito a tornare, quello che quella maledetta napoletana stava dicendo si sarebbe avverato...

“Vedrò che potrò fare, quando sarete morto, per accontentare questo vostro desiderio da sentimentale, Duca...” concluse l'Aragona, facendo un mezzo inchino, imitata dalle figlie e, prima che l'altro potesse trovare la voce per ribattere, uscì dal salone e chiese alle due guardie che l'avevano scortata armati fino a lì di riportarla nella sua gabbia dorata, nel palazzo vicino al Duomo che, ormai, poteva quasi chiamare casa.

 

Caterina era soprappensiero. Aveva radunato il Conciglio di Guerra perché dal nord erano arrivate tremende notizie che volevano Pavia già lambita dai francesi e Milano preda di una sorta di guerra civile.

Era difficile districarsi facilmente in quelle notizie, ma era ormai certo che il cuore duro del Ducato era stato violato e che, ormai, la spaccatura nella pietra non poteva che allargarsi sempre di più, lasciando filtrare i nemici dapprima a piccoli flutti e poi come un fiume in piena.

I suoi Capitani, il Governatore, Numai e tutti gli altri stavano discutendo, quasi accapigliandosi e gli unici che se ne stavano zitti erano la Sforza, suo figlio Galeazzo, concentrato, ma muto, accanto a lei e Giovannino, che le stava in braccio tranquillo, quasi addormentato, come se quella confusione non lo sfiorasse nemmeno.

Perfino Giovanni da Casale, che di solito in quelle riunioni cercava di non intromettersi troppo nei litigi degli altri, si era messo a far voce, specie contro il Governatore, accusandolo non troppo velatamente di voler fare più gli interessi della sua Firenze che non quelli della sua signora. E Simone, di contro, rimandava l'accusa al mittente scambiando Firenze con Milano.

Caterina, però, li sentiva solo con un orecchio e non stava nemmeno seguendo la sequela di recriminazioni reciproche che i due si scambiavano.

Se la Tigre era così distratta lo doveva soprattutto a quel suo ultimogenito. Il giorno prima aveva ricevuto una lettera di Lorenzo Medici che l'avvisava che Puccio Pucci sarebbe arrivato nel giro di pochi giorni a Forlì per constatare se lei aveva adempiuto alla prima parte del loro accordo, pubblicando il matrimonio e spargendone la notizia. Inoltre avrebbe riscosso la prima parte dei soldi dovuti.

La Sforza aveva subito risposto, dicendo che non c'erano problemi e che, quando Pucci avesse controllato tutto come si doveva, le avrebbe fatto piacere poter ridiscutere della parte di eredità che spettava a suo figlio e che quindi lei, come sua tutrice legale, avrebbe potuto, anzi, dovuto avere in suo possesso al fine di amministrarla.

Solo a lettera già partita da qualche ora aveva avuto il dubbio di aver commesso un errore tattico, nel citare così presto l'eredità di Giovanni. Tuttavia, che altro poteva fare? Aveva un disperato bisogno di liquidi, e quei soldi erano suoi di diritto. Il Medici l'aveva sposata anche per quello, per poterle offrire quell'aiuto economico che le serviva, e anche per poter rendere sia lei sia i suoi figli cittadini di Firenze.

A cosa era servito, quello slancio di generosità, se poi Lorenzo vanificava tutto a quel modo?

“Allora, mia signora?” chiese Numai, risvegliando la Contessa dai suoi pensieri: “Che intendete fare con Naldi?”

Caterina sospirò. Suo figlio Galeazzo la guardava, in attesa e anche gli altri presenti si erano zittiti, volendo sentire cos'avrebbe deciso.

Per fortuna ci aveva già ragionato in solitudine quella mattina, appena aveva saputo della situazione in Lombardia, e quindi sapeva benissimo cosa dire: “Voglio che Naldi si ritiri subito e si sposti a Cotignola. È troppo vicina a noi per permettere che passi nelle mani dei veneziani, o, peggio, dei francesi. Voglio che Naldi contrasti il Malatesta.”

“Quindi per il momento a Imola resterà come castellano Gian Piero Landriani..?” chiese Luffo, che invece si era aspettato, nel sapere della prossima caduta di Pavia e quindi poi di Milano, di vedere la Tigre rinforzare il loro confine più settentrionale sollevando il vecchio Landriani in favore di un uomo del valore di Naldi.

“Per ora, preferisco portare la guerra in casa d'altri.” spiegò la donna, abbassando lo sguardo verso la mappa che aveva dinnanzi: “Naldi lo richiameremo a Imola quando saranno gli altri a portare la guerra in casa nostra.”

Nessuno trovò le parole per ribattere a quella sentenza e così, dopo qualche battibecco ancora, si decise di mandare subito l'ordine a Dionigi Naldi e il Consiglio si sciolse, in attesa di nuove notizie dal nord.

“Galeazzo – disse la Tigre, rivolgendosi al figlio – porta Giovannino in camera sua e poi torna qui, voglio spiegarti delle cose.”

Il Riario, sempre assetato sia di imparare sia di passare del tempo con la madre, annuì subito e, preso il fratellino in braccio, andò alla porta.

Ormai nella sala non c'era quasi più nessuno. Solo il Governatore che aveva atteso un momento di quiete per scambiare due parole con la Contessa e Giovanni da Casale.

Non appena Simone ebbe finito il suo resoconto riguardo le difficoltà pratiche che stava incontrando nella sua impari guerra ai ratti, Pirovano si affiancò alla Leonessa. Guardò con aria di sfida Ridolfi, ancora agitato per lo scontro verbale di poco prima e, quando il fiorentino finalmente si decise ad andarsene, il milanese mise una mano sul fianco della Sforza e la spinse un po' verso il tavolo delle mappe, cominciando a baciarla.

“Aspetta...” fece lei, frenandolo subito.

“Che c'è?” chiese lui, piccato: “Quando mi vuoi tu devo subito ubbidire, ma se sono io a volere te ho bisogno di un permesso scritto per averti?”

Se la stessa domanda fosse stata posta in tono scherzoso, Caterina avrebbe anche potuto farsi una risata e passarci sopra. Ma la voce del suo amante era scivolata fuori dalle sue labbra con una rabbia e un'aggressività che le avevano reso quella sorta di battuta particolarmente indigesta.

C'erano tanti motivi per cui voleva dirgli no, primo tra tutti il ricordo ancora vivo di quando un altro Giovanni la stringeva tra le braccia proprio in quella sala, incurante di farsi scoprire da qualcuno e di dare scandalo.

Però, per convincerlo a desistere, dato che, malgrado lei si stesse dimostrando chiaramente non disponibile, continuava a baciarle il collo, tenendola ferma con una prepotenza che non gli si addiceva, la Contessa disse, perentoria: “Mio figlio tornerà a momenti. Non ho tempo per te.”

Pirovano scosse il capo e provò a imporsi di nuovo su di lei, con maggior fermezza. Nei suoi gesti la Tigre poteva sentire tutta la frustrazione e l'insoddisfazione che, evidentemente, il suo ruolo incerto gli stava dando.

“Ricordati perché sei qui.” fece allora, prima di decidersi a scansarlo con la forza: “Sarai il comandante della cittadella, la roccaforte più importante dopo Ravaldino.”

Siccome Giovanni appariva quasi confuso, e, benché si fosse fermato, non accennasse a retrocedere, la Leonessa fece un ultimo tentativo, prima di passare alle vie di fatto.

“Sei qui per servire una Sforza, non per piegare una donna al tuo volere.” gli sussurrò.

“Sei tu che dovresti renderti conto che non puoi sempre piegare gli uomini al tuo volere.” ribatté lui, le mani che correvano ai fianchi di lei e alle cosce, a un passo dall'iniziare a sollevarle le gonne.

“E perché no? Sono la figlia di uno degli uomini più prepotenti che sia mai esistito sulla Terra, quindi posso esserla anche io.” disse lei di rimando, mentre la vicinanza tanto stretta del suo amante cominciava a vincerla un po', rendendole molto più difficile rifiutarlo.

A sorpresa, proprio quando, anche a costo di rischiare grosso, Caterina si era sentita pronta ad accettarlo, Pirovano si staccò da lei all'improvviso, facendo due passi indietro, le mani sollevate e un'espressione mesta in viso: “Hai ragione.” le disse solo e, senza aggiungere altro, raggiunse la porta.

“Avrai quello che vuoi stanotte.” promise lei, sistemandosi un po' l'abito, mentre il milanese spariva dalla sua vista.

Galeazzo, nel tornare alla Sala della Guerra, incrociò Giovanni da Casale, e, vedendolo particolarmente scuro in volto, ebbe il sentore vago di quello che potesse essere successo tra lui e sua madre, ma non volle pensarci sopra troppo.

Quando raggiunse la Contessa, la trovò assorta davanti alla cartina d'Italia e, quando lei si accorse della sua presenza, gli disse: “Sei arrivato... Avvicinati, voglio spiegarti meglio cosa sta succedendo a Milano e quello che credo potrebbe accadere presto qui...”

Mentre la madre indicava questa o quella città, illustrandogli accuratamente quanta potenza di fuoco e quanti uomini avesse questo o quell'altro Signore, il Riario l'ascoltava solo con un orecchio.

Anche se era interessatissimo a tutto quello che stava sentendo, non poteva non accorgersi del tono di voce più dimesso del solito della Contessa, o al suo sguardo sfuggente.

Non voleva sapere cosa fosse successo tra lei e Pirovano, ma, qualsiasi cosa fosse, sperava in cuor suo che si riappacificassero in fretta, magari anche sotto le lenzuola, non gli importava. Ciò che contava era che sua madre tornasse la Tigre di sempre, perché, per come gliela stava spiegando, quella guerra sarebbe stata un vero inferno, per loro, e, per avere anche solo una possibilità di farcela, lei doveva essere al massimo delle sue potenzialità.

“Qualsiasi cosa capiterà – concluse Caterina, massaggiandosi la fronte – promettimi che farai del tuo meglio per restare un uomo giusto, e per proteggere i tuoi fratelli e tua sorella.”

Galeazzo deglutì, teso. Non era poco quello che sua madre gli stava chiedendo, e lo sapevano entrambi. Potevano sembrare parole vuote, ma madre e figlio si intendevano abbastanza bene da sapere entrambi che in quel caso non le erano. Si trattava di una promessa vincolante e solenne.

“Lo prometto, madre.” disse il Riario, dopo un paio di minuti di silenzio.

La Leonessa, a quel punto, gli accarezzò la testa e poi il viso lungo e, con un sospiro un po' spezzato, commentò: “Sapevo che c'era molto più di buono in te di quanto non dica il tuo cognome.”

“Per metà sono uno Sforza anche io.” fece presente Galeazzo.

Un po' risollevata da quell'affermazione, la Contessa annuì e propose: “Avanti, è quasi ora di cena, che ne dici di andare a mangiare qualcosa?”

Il figlio accettò subito e, anche se immaginava, come di fatto fu, che sarebbero rimasti in silenzio per quasi tutto il tempo, si sentì felice e importante, all'idea che sua madre lo volesse al suo fianco e si fidasse a tal punto di lui da raccomandargli i fratelli e la sorella.

 

Pavia era caduta e quando Alessandro Sforza, Lucio Malvezzi e Galeazzo Sanseverino avevano riparato a Milano, il Duca aveva deciso che fosse tempo di mettere in salvo la pelle.

Non gli interessava quello che i milanesi avrebbero fatto o pensato, tanto meno, in quel momento concitato, gli importava della sorte di Isabella d'Aragona o del di lei figlio. Voleva solo mettere più distanza possibile tra sé e gli uomini di Gian Giacomo da Trivulzio, perché era certo che i francesi non l'avrebbero lasciato in vita, se fossero entrati nel palazzo di Porta Giovia e l'avessero trovato ancora lì.

Non si fidava di nessuno, quasi nemmeno dei suoi più stretti collaboratori, ma doveva fare uno sforzo e mettere da parte le sue remore, se voleva uscire da quella storia vivo.

Radunò in fretta la sua corte, spiegò che era il caso di far bagaglio molto rapidamente e diede ordine ai servi di riempire subito tutti i bauli che avessero trovato coi tesori della sua famiglia, affinché a re Luigi non restassero che le briciole.

Si assicurò che fossero pronti a partire con lui anche il cognato ventenne, Ippolito Este, che sembrava paralizzato dalla paura, quel giorno, e il Cardinale Federico Sanseverino che, malgrado avesse quasi il doppio degli anni dell'altro, era altrettanto atterrito.

Dopodiché ordinò al nipote Alessandro e a Lucio Malvezzi di preparare i soldati, quattrocento cavalleggeri, duecento fanti italiani e quattrocento fanti tedeschi, affinché li scortassero senza pericoli verso la Valtellina, e da lì verso l'Impero, dove l'attendevano i suoi figli.

“E Alessandro Bentivoglio?” chiese il Moro, rendendosi conto solo mentre si trovava davanti gli altri comandanti dell'assenza del bolognese.

Malvezzi e lo Sforza si guardarono un momento un po' in imbarazzo, poi fu Alessandro a spiegare quanto accaduto: “Vedendoci persi, a Pavia, lui e mia nipote Ippolita hanno deciso di riparare in Emilia.”

Ludovico avrebbe voluto gridare, dimostrare tutta la sua rabbia, sia nei confronti del figlio di Giovanni Bentivoglio, sia, soprattutto, verso Ippolita Sforza, che, se non altro, avrebbe dovuto convincere il marito a non abbandonare Milano in un momento del genere.

Però il Duca non aveva nemmeno il tempo di arrabbiarsi, quella mattina, così liquidò la questione borbottando: “Bene, che difendano Bologna invece che Milano, spero per loro che li catturi il Ligny e li faccia a pezzi.”

Mentre lasciava Malvezzi e Alessandro, per dirigersi in un'altra ala del palazzo a sistemare le ultime cose, lo Sforza, ancora furibondo, si imbatté in Galeazzo Sanseverino.

“E voi!” sbottò, arrivando a brandire la spada che aveva al fianco, sentendo riaffiorare per quel suo mezzo parente un odio antico, legato alla morte di sua figlia Bianca Giovanna e al sospetto mai sopito della colpevolezza del Sanseverino: “Tutta colpa vostra! Prima avete abbandonato Alessandria! Ora Pavia! Io mi fidavo di voi, ma non siete un comandante valoroso! Siete solo un vile!”

Galeazzo, spaventato per quell'attacco inatteso del Duca, si protesse sguainando a sua volta il ferro, ma lo Sforza, dopo aver mimato appena un affondo, lasciò perdere, capendo che sarebbe stata una mossa sciocca, uccidere il Sanseverino in quel momento e così, placati gli animi, rimise a posto la spada e gridò: “Correte a preparare i soldati! Rendetevi utile, una volta tanto!”

Quelli che avevano assistito alla scena – qualche servo affaccendato e qualche cortigiano troppo pettegolo – videro in quella scena molto più di quel che c'era da vedere e, nel giro di pochi minuti, per tutto il palazzo si diceva che il Moro avesse ferito alla gamba messer Galeazzo incolpandolo della disfatta cui stavano correndo incontro.

E dunque il Sanseverino, per acquietare tutti quanti, dovette sottrarre tempo alla preparazione della fuga per andare a destra e a manca a dimostrare che non era affatto ferito, rassicurando quelli che, pensando a uno scontro tra chi li doveva guidare, si vedevano già perduti.

“Ma... Ma io non so se ne sarò in grado...” si schermì Bernardo da Corte, che era stato scelto dal Duca come nuovo castellano del palazzo di Porta Giovia: “Insomma, non so se potremo resistere, se i francesi...”

“Che diamine!” urlò Ludovico, che da una buona mezz'ora sembrava non aver altro tono di voce se non quello: “Ci sono provviste per sei anni, in questo palazzo!”

Ovviamente le sue stime erano troppo ottimiste, e Bernardo, terrorizzato al pensiero di dover restare a Milano in balia degli invasori vedeva la situazione ancor più grigia di quel che era.

“Io non so...” provò di nuovo a dire.

“Scegliete, per Dio!” ululò il Moro, rimettendo mano alla spada, gli occhi pesti e venati di sangue che lampeggiavano pericolosamente: “O restate e fate il vostro dovere, o vi ammazzo con le mie mani subito!”

“Farò il mio dovere...” sussurrò allora Bernardo da Corte pensando che un futuro incerto era meglio di un presente certo, se il presente certo era la morte.

Sistemato anche quel dettaglio, il Duca tornò dai soldati e, appurato che tutto era pronto per partire, radunò nel cortile la sua corte e, messosi in sella, diede l'ordine di lasciare il palazzo.

“Se avesse avuto la stessa prontezza e fermezza di oggi nel preparare la fuga, nell'organizzare la guerra – si lasciò scappare Ermes, al fratello Alessandro, che cavalcava accanto a lui – i francesi non sarebbero mai riusciti a uscire da Asti...”

Per fortuna suo zio era troppo lontano per sentirlo e quindi non ebbe modo di ribattere a tono o con qualche minaccia – dato che quel giorno sembrava non riuscire a far altro che sollevare la spada verso tutti quelli che gli davano sui nervi – e solo Alessandro condivise quel pensiero di Ermes, dandogli ragione con un cenno del capo.

E così, in un silenzio irreale, quel lunedì 2 settembre 1499, una colonna di circa mille persone, tra cortigiani, servi e notabili di vario rango, e quasi altrettanti soldati di scorta, uscì dal portone del palazzo ducale e prese la via più diretta per Como, sperando, da lì, di poter giungere senza pericoli fino a Innsbruck.

“Dove vole fortuna – sospirò Ludovico, voltandosi un'ultima volta verso lo stemma sforzesco che campeggiava sulla facciata del palazzo che tanto, negli anni, aveva desiderato per sé, e che era diventato la sua rovina – sapere non vale.”

 
 
   
 
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