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Autore: Adeia Di Elferas    04/07/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina teneva tra le dita la lettera di Fortunati appena arrivatale e guardava un punto indefinito davanti a sé, con una mano davanti alla bocca e una gamba che non smetteva un attimo di muoversi, sintomo del nervosismo che cresceva via via in lei.

Era seduta sulla poltrona che un tempo era stata il rifugio diurno preferito del suo Giacomo e alla scrivania davanti a lei stava Cesare Feo, che, tra il ricontrollare un conto e compilare una pagina del registro, ogni tanto le lanciava uno sguardo un po' preoccupato.

La missiva del piovano era arrivata da circa mezz'ora e, dopo averla letta una prima volta, la Contessa si era chiusa in quello strano mutismo e non aveva più cercato in alcun modo di interagire con il castellano.

Quello che più di tutto occupava in quel momento la mente della Tigre non era nemmeno tanto il sospetto di Fortunati – ovvero che vi fosse qualche spia che tenesse informati i fiorentini riguardo ogni sua mossa – perché di orecchie troppo lunghe e lingue troppo loquaci ce n'erano ovunque e quindi non se ne sarebbe stupita. A colpirla era stata la fretta che le metteva, nella prima parte della lettera, riguardo la necessità di far soldi.

Non era nella natura di Francesco, farsi cogliere a quel modo dal panico. Eppure quelle parole sembravano vergate da qualcuno convinto che le sue frasi potessero fare la differenza tra la vita e la morte.

La donna ripensò ai gioielli che aveva impegnato a Venezia. Non erano molti e non erano i più pregiati. Quelli aveva giurato di tenerli solo ed esclusivamente per i suoi figli. Aveva poco da vendere, a parte le armi, ma quelle le servivano per la guerra che stava arrivando. Avrebbe potuto mandare a soldi i suoi uomini, ma non poteva privarsene, esattamente come per i pezzi d'artiglieria.

Cosa le restava? Opere d'arte, a Forlì, quasi non ce n'erano, e quelle poche erano di proprietà non sua. Alzare le tasse sarebbe stato un suicidio, e pretendere il versamento di un contributo una tantum da parte dei più ricchi sarebbe stato ancora peggio.

Le venne da ridere pensando che se fosse stata una donna raffinata come dicevano fosse Isabella, la moglie di Francesco Gonzaga, magari avrebbe potuto rivendere i propri vestiti, ma i suoi abiti, a differenza di quelli della Marchesa, non erano tempestati di perle e pietre preziose, ma di macchie di sangue delle bestie che cacciava e di polvere del cortile d'addestramento.

Nel vederla trattenere una risata amara, il castellano si accigliò e le chiese: “Tutto bene, mia signora?”

La Sforza richiuse finalmente la lettera di Fortunati e, con un sospiro, si alzò dalla poltrona dicendo: “Tutto bene, Cesare. Tutto bene come sempre.”

Il castellano intese ciò che la Tigre intendesse, ma cercò di essere conciliante nel commentare: “Io credo che voi stiate facendo già il meglio che si possa, per questa terra.”

“Dobbiamo cercare di trovare qualcuno che ci guardi le spalle...” borbottò tra sé la Contessa, senza ascoltarlo: “Finora mi sono illusa di poter trovare alleati. Forse è venuto il momento di cercare un altro tipo di protezione...”

Il Feo non disse nulla, ma sentendo le campane che ricordavano a tutti l'arrivo del mezzogiorno, posò la penna sulla scrivania e propose: “Io andrei a mangiare qualcosa, così posso riprendere a lavorare presto... Avete fame anche voi?”

Caterina, persa nei suoi pensieri, scosse il capo e disse solo: “Ho bisogno di pensare.”

 

“Mi spiace, ma io non sono d'accordo.” disse Alessandro Bentivoglio, incrociando le braccia e guardando in terra: “Non è una cosa che si possa fare.”

“Parli così – ribatté il fratello, Annibale, cominciando ad alterarsi – solo perché tua moglie è una Sforza!”

I toni, tra i due giovani bolognesi, si erano alzati a quel modo solo perché il padre non era ancora arrivato. In sua presenza, nessuno dei due osava esprimere in modo troppo aperto i propri pensieri, e, dunque, se non sfruttavano quei momenti di solitudine per confrontarsi in modo schietto, sapevano che non avrebbero avuto altre buone occasioni, prima che lui decidesse del loro destino.

“Parlo così perché conservo ancora un briciolo d'onore.” mise in chiaro Alessandro, che era tornato a Bologna più o meno un giorno prima del fratello, non appena aveva subodorato il pericolo della sconfitta pavese, per mettere in salvo soprattutto Ippolita.

Annibale, invece, aveva abbandonato il Moro e quel che restava delle difese si Milano per un motivo molto meno nobile. Il Duca, nella confusione del momento, ancora non gli aveva pagato il corrispettivo del mese appena passato e, dunque, il figlio di Giovanni Bentivoglio aveva ben pensato di lasciare la sua posizione e tornarsene in Emilia, ritenendosi libero da ogni accordo.

Onore!” sbuffò Annibale, alzando le braccia: “Al giorno d'oggi non esiste parola più vuota di questa! Onore!”

L'altro si sentiva sbeffeggiato e oltraggiato dal modo in cui veniva smontato ogni volta che apriva bocca, ma stava cercando di mettere da parte un po' d'orgoglio per provare a convincere il fratello a non esprimere la sua idea al padre. Sapeva che il signore di Bologna sarebbe stato subito pronto a seguire la traccia suggerita dal suo figlio preferito e lui, suo malgrado, sarebbe rimasto coinvolto.

Così tentò un'ultima volta: “E va bene, lasciamo perdere l'onore. È una cosa sbagliata e basta e non ci porterà a nulla, se non a farci additare come dei traditori!”

“Traditori o meno, saremo dalla parte dei vincitori!” lo zittì Annibale e, proprio quando l'altro Bentivoglio stava per controbattere, finalmente il padre arrivò nel salone.

Li squadrò entrambi con un misto di delusione e rabbia e poi chiese, quasi abbaiando: “E adesso che avete fatto parte del patetico carosello che è stato il tracollo del Moro, cosa avete ancora da dire? Uno non è nemmeno stato in grado di farsi pagare e l'altro è tornato, completamente istupidito da una donna che vuole fare l'uomo! Siete penosi!”

Alessandro sentì le guance farsi di fuoco, nel sentire quel riferimento alla sua Ippolita, e abbassò il capo, a mo' di penitenza, mentre Annibale non si fece scoraggiare e disse subito: “Padre, so come risollevare la nostra situazione.”

Giovanni non gli avrebbe concesso nemmeno un minuto del suo tempo, se solo non fosse stato così disperato da non sapere più a che santo votarsi. Così, rigido, gli fece un cenno del capo, per chiedergli di parlare.

Annibale fu preciso e puntuale nello spiegare come, secondo lui, se si fossero prostrati ai piedi del re di Francia, che di certo sarebbe entrato a giorni a Milano, Luigi avrebbe per forza dovuto riconoscere la loro buonafede e la loro lealtà nei suoi confronti, perdonandoli per aver combattuto contro i suoi e accettandoli nei suoi quadri di comando.

Al Bentivoglio quello sembrava un piano un po' strampalato e troppo ottimista. Tuttavia, si disse, con sua figlia Francesca madre del signore di Faenza, alleato di Venezia, e sua figlia Violante moglie del Malatesta, uno dei bracci armati del Doge, forse il re di Francia, alleato della Serenissima, avrebbe avuto per loro un occhio di riguardo.

“E sia. Dopo che Luigi sarà entrato a Milano, voi due – disse Giovanni, indicando prima Annibale e poi Alessandro – cavalcherete fino a Milano e porgerete a lui e ai suoi i miei più rispettosi omaggi e vi offrirete come suoi servi.”

Alessandro non voleva, per nessun motivo, tornare a Milano. Voleva stare con Ippolita, voleva passare con lei ogni notte e imparare a conoscerla giorno dopo giorno. Ma sapeva di non avere la forza di opporsi al padre. Non l'aveva mai avuta.

“Non vi deluderemo.” promise Annibale, il petto gonfio e un sorriso un po' trattenuto, segno della propria soddisfazione, nell'essere stato ascoltato.

“Tu non dici nulla?” fece il signore di Bologna, rivolgendosi al più giovane.

“Non vi deluderemo, padre.” disse allora Alessandro, con la voce tanto fioca da sembrare quasi quella un morto.

 

Il Consiglio di Guerra si era appena sciolto. Il punto che era stato maggiormente discusso quella mattina era l'arrivo di Dionigi Naldi a Cotignola. Il capitano aveva con sé seicento fanti e, quando era arrivato, aveva trovato subito un terreno abbastanza facile.

Gli attacchi di Meleagro da Forlì erano stati dispersivi e poco efficienti, tanto che erano bastati duecento sforzeschi a metterli inizialmente in fuga. A Naldi era bastato entrare in città e piazzare accuratamente i suoi uomini.

All'aggressione avevano partecipato anche Giacomaccio da Venezia e Pandolfo Malatesta – che, si diceva, aveva provveduto personalmente a piantare le bombarde. Tuttavia nessuno dei due era riuscito a incidere più di tanto, anzi, il riminese era rimasto addirittura ferito durante la fuga, aveva perso nove cavalli e si era ritirato in fretta e furia a Piangipane.

Caterina, sentito tutto quanto aveva spiccato l'ordine, per Naldi, di restare in zona e respingere gli attacchi attesi da parte di Venier. Una volta sistemata la questione e messi di stanza un po' di soldati, l'avrebbe richiamato a Imola, per affidargli la rocca e permettere finalmente a Gian Piero Landriani di ritirarsi una volta e per tutte a vita privata.

Ormai i Consiglieri avevano lasciato la Sala della Guerra e con Caterina rimanevano solo suo figlio Galeazzo, il castellano e Luffo Numai. Il Governatore non si era presentato alla riunione, mentre Pirovano era stato tra i primi ad andarsene.

La Sforza aveva notato come tanti tra i presenti l'avevano guardato, nell'accorgersi della sua fretta.

Nemmeno lei sapeva dire esattamente cosa l'avesse portato a congedarsi tra i primi, ma poteva immaginarlo. Quel giorno, fin dal risveglio, non avevano fatto altro che lanciarsi frecciate a vicenda, come se entrambi avessero voglia di litigare, ma non trovassero il coraggio per dare inizio allo scontro.

La Tigre capiva i motivi di insofferenza del suo amante, ma non sapeva come porvi rimedio. Lui era troppo giovane, si diceva, per riuscire a gestire in modo sereno ciò che era diventata la loro relazione. Era un uomo saldo, ma aveva poco più di vent'anni, era legittimo che fosse confuso.

E così la Contessa lasciava correre, sperando che alla fine Giovanni da Casale sarebbe riuscito a rimettere ordine nella sua testa e accettare quello che gli veniva offerto senza porsi troppe domande né lanciarsi in troppe valutazioni.

Però i suoi collaboratori non la pensavano certo come lei e qualcuno, le era giunta voce, cominciava a credere che lei e il suo amante stessero attraversando un momento di crisi, legato soprattutto alle tensioni con Firenze e alle pressioni – presunte – del Pirovano nei confronti della Leonessa verso Milano.

Caterina stava finendo di sistemare il segnalino con il suo stemma sopra a Cotignola, chiedendosi per quanto sarebbero riusciti a tenere quella posizione, e Galeazzo, accanto a lei, osservava assorto la mappa.

Come capitava praticamente sempre, il ragazzo non aveva aperto bocca, durante la riunione, ma aveva assorbito tutto quanto, come una spugna, cercando di farsi la propria idea sulla situazione e di trovarvi una soluzione.

“Cosa ne pensi, Galeazzo?” chiese la Tigre, in un soffio, guardandolo da sopra la spalla.

“Io credo che Roma, Venezia, Firenze e la Francia stiano facendo tutte e quattro lo stesso identico gioco.” disse piano il Riario, indicando i tre Stati uno dopo l'altro: “E che finiranno per schiacciarci nel mezzo.”

Cesare Feo lo guardava in silenzio e anche Luffo Numai si era fatto contrito. Ammettere a voce alta che anche Firenze era, di fatto, contro di loro per via della sua neutralità e del suo essere restia a concedere una condotta vantaggiosa per Ottaviano, non era una cosa da poco.

“Lo credo anche io.” confermò la Sforza, con un sospiro cupo.

Quell'ammissione, tanto spontanea, quanto abbastanza improvvisa, spostò l'attenzione sia del castellano, sia del Consigliere sulla Leonessa. Fino a quel momento la loro signora era stata abbastanza attenta a non lasciarsi andare troppo a quel genere di pessimismo, ma in quel momento pareva a entrambi pronta a dichiararsi sconfitta ancor prima di metter mano alle spade.

Caterina, dopo aver stretto per un momento le labbra, si rivolse di nuovo al figlio e gli chiese, quasi in cerca di una conferma del proprio tacito ragionamento: “E, quindi, cosa pensi che dovremmo fare?”

Il Riario deglutì un paio di volte. Si era fatto un'idea abbastanza precisa di quali fossero le loro opzioni, ma un po' lo spaventava, dirlo a voce.

Tuttavia, seppur con una vaga esitazione, il ragazzino spiegò: “Secondo me, abbiamo due possibilità. O restare e combattere fino alla morte, cercando almeno di salvare l'onore...”

“Oppure?” lo incalzò la madre, trovandosi d'accordo almeno su quella prima prospettiva.

“Oppure cercare la protezioni di un alleato potente e passare così dalla parte dei francesi. Di fatto, arrendendoci...” concluse Galeazzo, gli occhi verdi che cercavano con ansia quelli della madre e poi tornando a fissare la mappa d'Italia, in particolare in direzione di Venezia.

La Contessa seguì il suo sguardo e, a malincuore, scoprì che anche il figlio aveva avuto la sua stessa visione della situazione, e così, annuendo piano tra sé, gli diede un colpetto sulla spalla e gli sussurrò: “Quello che penso anche io.”

Ci fu un lungo momento di silenzio e poi la Sforza disse al figlio che era libero di andare, raccomandandogli di passare dalla cittadella, per controllare come stesse procedendo lo spostamento delle riserve di cibo nelle dispense del Paradiso.

Non appena il Riario fu uscito dalla Sala della Guerra, la Tigre si voltò verso il castellano e gli chiese, mesta: “Non abbiamo notizie di Tommaso, vero?”

Il Feo si rabbuiò ancora di più e scosse il capo: “No, niente.”

“Siamo sicuri che sia ancora vivo?” domandò Caterina, sentendo il cuore battere più rapido, mentre cominciava, per la prima volta in assoluto, a prendere seriamente in considerazione l'ipotesi che Tommaso potesse non essere sopravvissuto al passaggio dei francesi dal Bosco.

Cesare sollevò le sopracciglia e poi, atono, ribatté: “Come possiamo esserne sicuri?”

La Leonessa si morse l'interno della guancia. Non voleva nemmeno sfiorare l'idea che Tommaso Feo, uno dei pochi uomini di cui si era fidata davvero nel corso della sua vita, potesse essere morto.

Sentiva un nodo alla gola e cercò di scioglierlo, dicendo, un po' burbera: “Giuro che se quei dannati francesi gli hanno fatto qualcosa di male, quando arriveranno qui, farò in modo che se ne pentano.”

Né Luffo né il castellano commentarono quella minaccia, molto sentita, per quanto abbastanza vaga.

“Se mi cercate – tagliò corto la donna, che, improvvisamente, non aveva più alcuna voglia di pensare alla guerra e a tutte le sue implicazioni – mi trovate nella Sala delle Armi. Ci sono degli elmi da controllare e...”

I due uomini non avanzarono obiezioni e così la Sforza lasciò la sala a passo spedito. Però, non appena si trovò in corridoio, si rese conto di non aver alcuna voglia di dedicarsi a degli elmi ammaccati da controllare.

Iniziò a camminare più lentamente, fin quasi a fermarsi. Era quasi arrivata all'angolo, quando sentì la voce del suo primogenito dire qualcosa, in una sorta di sibilo. Non le piaceva quel tono, tanto meno in bocca a Ottaviano, perciò riprese velocità e svoltato a sinistra, finalmente lo vide.

Anche lui si accorse subito della sua presenza e così tacque all'istante. Davanti al Riario c'era Bernardino, che, invece, non aveva notato la madre e così era rimasto spiazzato dal fatto che il fratellastro avesse smesso improvvisamente di parlare.

“Stai mentendo – gli disse, quindi, convinto di essere riuscito a far tacere Ottaviano per qualche oscura ragione – e io non ti credo! Sei cattivo e basta!”

Solo dopo l'ultima esclamazione il bambino comprese che alle sue spalle dovesse esserci qualcuno e così si girò, lentamente. Nel vedere la madre, ebbe una reazione che nemmeno lui comprese a fondo.

Benché in quel momento la Leonessa fosse l'unica persona al mondo che il piccolo Feo avrebbe voluto vedere e abbracciare, quando incrociò i suoi occhi distanti, ebbe solo l'istinto di scappare.

Con Bernardino che correva via veloce come il vento, la Sforza si avvicinò con passo marziale al primogenito e gli chiese: “Che cosa gli stavi dicendo?”

Ottaviano temeva troppo l'ira materna per ammettere la verità. Non poteva dirle di essere in collera con il fratellastro perché l'aveva interrotto mentre filava dietro a una ragazza di servizio. Non poteva confessare di avergli detto, al solo scopo di ferirlo, che la loro madre non lo voleva e non l'aveva mai voluto, che per lei lui era solo un peso e che, se fosse dipeso solo ed esclusivamente dalla tremenda Tigre, lui non sarebbe mai andato a vivere alla rocca, ma sarebbe rimasto nei bassifondi, assieme ai topi di fogna che l'avevano cresciuto fino ai suoi cinque anni.

“Niente.” provò a schermirsi il giovane.

“Hai vent'anni e ancora non hai imparato a mentire bene.” fece Caterina, digrignando i denti, trattenendosi a stento dall'alzare le mani e convogliare tutta la rabbia che covava dentro di sé, scaricandola contro il figlio: “Che cosa gli stavi dicendo?”

Il Riario fece mezzo passo indietro e poi rispose, a mezza bocca: “Cose che non dovevo.”

La Contessa non sapeva come fare, e, proprio mentre stava per ribattere in qualche modo, un ricordo le arrivò alla mente, con un tempismo decisamente crudele.

Rivedeva distintamente davanti a sé il suo Giacomo che, in una mattina tranquilla, passata tra i boschi, le diceva: “Dovresti mollare tutto, lasciare le tue città e il tuo titolo e vivere con me in campagna. Vivremmo di quello che ci danno i campi e degli animali che cacceresti e saremmo felici.”

Se quella proposta l'avesse ricevuta in quel momento, avrebbe accettato, a costo di rischiare la vita, anche a costo di lasciare indietro tutti gli altri suoi figli.

Con la sua ingenuità, forse, Giacomo aveva capito tutto.

“Stai attento a quello che fai – sibilò Caterina, prendendo Ottaviano per la collottola, portandoselo tanto vicino da potersi specchiare nei suoi occhi vuoti e impauriti, tanto da poter sentire l'odore stantio della pomata che usava per tenere i riccioli inanellati rigidi, tanto vicino da poter scorgere sul suo viso tutti i punti che lo accomunavano a quello del padre, Girolamo – perché ci metto un attimo a farti partire per il fronte milanese e, senza nessuno che ti copra le terga, questa volta ti ammazzerebbero davvero.”

Ottaviano parve abbastanza terrorizzato e, di conseguenza, convinto, da quella minaccia e così, non appena la madre lo lasciò andare di scatto, il giovane si scusò di nuovo, febbrilmente, e, prima di incappare in qualche pena maggiore, sgusciò via e se la diede a gambe.

Due figli su due le erano sfuggiti davanti al naso nell'arco di pochi minuti. Quella costatazione era abbastanza deprimente, specie per una donna come la Tigre.

Sospirò pesantemente. La proposta di Giacomo, fatta tanti anni prima, non le era mai sembrata così attraente. Sarebbe stato così bello, poter vivere da soli, senza uno Stato da portare avanti, senza tutte quelle vipere pronte a mordere tutto quello che capitava loro a tiro... Una casetta tranquilla, in mezzo ai boschi. Solo lei e Giacomo. E il loro unico figlio...

“Madre...” Bianca era arrivata dalle scale, e portava in braccio Giovannino: “Vi stavo cercando.”

“Cos'è successo ancora?” chiese la Sforza, esasperata.

La ragazza capì che doveva essere appena capitato qualcosa di molto spiacevole, perché sul volto della madre poteva scorgere le rughe profonde che le segnavano la fronte quando era preoccupata per qualche motivo.

Così, con cautela, rispose solo: “Nulla... Mio fratello voleva stare un po' con voi, tutto qui.”

Caterina lasciò cadere l'occhio sul suo ultimogenito. Il piccolo Medici la fissava con serietà, la manina tozza che si protendeva verso di lei. In quel suo modo di fare c'era un che di autoritario che spiazzava spesso quelli che si prendevano cura di lui. Solo la Contessa sembrava non farci caso.

Se lo fece passare, stringendoselo al petto, e poi, dopo averci pensato sopra un istante appena, disse a Bianca: “Non ho voglia di occuparmi dei soldati, oggi. Ti va di farmi vedere i tuoi progressi con il ricamo?”

La ragazza si rese conto che quello era solo un pretesto per svuotare la mente e che, in realtà, alla madre importava molto poco dei suoi ricami. Tuttavia era un'occasione abbastanza rara di avere la sua attenzione per quel genere di cose, così annuì subito.

Mentre seguiva la Riario, diretta alla sua stanza, la Leonessa si trovò a dirsi che, non potendo più riavere il suo Giacomo e tanto meno scappare a vivere nei boschi, poteva solo ritagliarsi qualche momento di normalità, prima che si abbattesse il cataclisma.

 

“Ma pensi che il Cardinale che è passato da Firenze lunedì sia davvero un messo del papa per il re di Francia?” chiese Lucrezia Medici, portandosi alla bocca un altro cucchiaio di minestrone.

Forse non era il pasto migliore, con quel clima torrido, ma né lei né Jacopo avevano rinunciato a un piatto fumante di pasta e verdure. I figli erano già tutti nelle loro camere e fuori c'è già buio. Era da un po' che non capitava loro di cenare a lume di candela in estate. Anche se era già settembre, avrebbe potuto benissimo essere luglio, per il caldo che c'era.

“Sì, doveva per forza essere un ambasciatore di Alessandro VI.” annuì il Salviati, dopo aver soffiato per qualche istante sul brodo: “E il fatto che stesse correndo al nord...”

Marito e moglie, per qualche istante rimasero in silenzio, guardandosi. Sapevano entrambi che cosa significava, l'invio di un ambasciatore vaticano a Luigi. Era un modo come un altro per dire che erano in combutta, e farlo passare da lì, piuttosto che dalla più comoda via Emilia, altro non era se non un messaggio molto chiaro per Firenze.

Jacopo si aspettava che, a breve, che al Consiglio dei Priori di cui faceva parte, sarebbe stata portata all'ordine del giorno la discussione circa l'opportunità di allearsi in modo palese coi francesi e il passaggio del Cardinale da Firenze aveva solo alimentato questo suo presentimento.

Come se entrambi trovassero la cosa troppo pesante, per andare avanti a discuterne mentre cenavano, sia Lucrezia, sia il marito cambiarono espressione e la donna si mise a parlare subito d'altro: “Ma è vero – chiese, pescando un paio di maccheroncini – che Machiavelli ha presentato il conto per le spese aggiuntive della sua ambasceria a Forlì?”

Il Salviati annuì, plateale e, finendo il suo piatto, confermò: “Ebbene sì. L'ha chiamato addirittura 'risarcimento'. L'ha presentato l'ultimo giorno di agosto. Ha chiesto ben diciannove fiorini larghi.”

“E la Signoria glieli darà?” chiese, scettica, la donna.

Jacopo si versò due dita di vino e poi, la luce della candela che gli gettava sul volto delle ombre molto particolari, disse: “Forse sì. A nessuno piace vederlo arrabbiato. È molto sgradevole, quando è su tutte le furie. E poi, è comprensibile che chieda un risarcimento...”

“Perché?” domandò la moglie, che aveva a sua volta finito il suo minestrone: “Dicono che la Tigre di Forlì sia una delle donne più belle d'Italia. Dovrebbe essere felice di averla potuta vedere, altro che chiedere dei risarcimenti...”

“Sarà anche una delle donne più belle d'Italia...” fece piano Jacopo, asciugandosi i lati della bocca con la mano e tornando a fissare la Medici: “Ma pare che abbia gusti molto precisi, e chi non le va a genio, viene trattato da lei così male che finisce per odiarla.”

“Mi piacerebbe conoscerla.” soppesò Lucrezia, prendendo il calice di vino tra le mani, mentre il marito si alzava e le andava alle spalle.

Il Salviati sollevò un sopracciglio e, con le mani che si posavano sulle spalle della moglie, lasciate nude dall'abito un po' scollato, avvicinò le labbra all'orecchio di lei e disse: “Sai, non so come si comporti con le donne... In fondo, dicono che l'unica con cui fosse amica, sia finita impiccata davanti al suo palazzo...”

La donna piegò un po' la testa, già troppo distratta dalla presenza di Jacopo vicino a lei, per poter pensare lucidamente alla Sforza e alle voci che giravano su di lei. L'uomo ne cercò le labbra e la Medici non gliele negò. Dopo quel breve bacio, però, il silenzio di quella sala mise in testa a entrambi una strana idea.

Siccome volevano cenare da soli e con calma, avevano congedato i servi, dicendo loro che avrebbero potuto sparecchiare e sistemare anche il mattino dopo. I figli erano tutti a dormire e nessuno sarebbe arrivato a disturbarli.

Lucrezia si alzò e diede un altro bacio al marito, questa colta molto più profondo e insinuante, e Jacopo capì. La prese per i fianchi con una certa decisione e, smettendo per un solo istante di rispondere ai suoi attacchi, spense la candela con un soffio.

Nel buio quasi perfetto e nella quiete surreale in cui si trovarono immersi, il Salviati, a memoria, fece indietreggiare la moglie fino al muro, per avere un punto d'appoggio. Mentre le sollevava veloce le gonne, si trovò a pensare che, da che era nata Maria, avevano ritrovato un'intesa e una passione più uniche che rare.

Il loro matrimonio, caduto l'imbarazzo dei primi tempi, era sempre stato acceso da una forte attrazione, ma in quei mesi si stavano riscoprendo in modo travolgente e insperato. Era come essere tornati ragazzi. Il Salviati, che aveva trentotto anni, se ne sentiva almeno venti in meno, mentre Lucrezia, di ventinove, era guizzante e rapace come un'adolescente.

Mentre il marito scendeva a solleticarle il collo con il mento un po' ispido di barba, la Medici si lasciò scappare una risatina, a cui l'uomo rispose con un suono più profondo, ma altrettanto divertito. Due ragazzini incoscienti, pronti a sfidare la sorte e le convenzioni sociali, che si appartavano per sfuggire agli sguardi ammonitori dei genitori, ecco come si sentivano.

Quasi a sottolineare quella sensazione, Lucrezia sussurrò: “Dobbiamo fare piano, non devono sentirci...”

E Jacopo, sempre attento agli ordini della moglie, annuì e, quasi per indurre anche lei al silenzio, riprese a baciarla, impedendole di emettere pressoché qualsiasi suono.

 

“Hanno saccheggiato il palazzo di Galeazzo Sanseverino, ti rendi conto?” stava dicendo Caterina, seduta alla sua scrivania, mentre si controllava allo specchio, il barattolo di crema aperto davanti a sé.

“Non vedo che ci sia di strano.” ribatté Giovanni da Casale, già a letto, con addosso le brachette e basta, tormentato dal caldo, tanto stufo di quel clima impietoso, che stava continuando benché settembre fosse iniziato da quasi una settimana, da essere tentato di spegnere tutte le candele che illuminavano la camera.

“Lo so che non è strano.” rimbeccò la donna, finendo di spalmarsi la crema e richiudendo il barattolo: “Ma mi fa specie comunque, pensare che i milanesi siano stati capaci di tanto.”

“Il Duca è scappato. La popolazione è insorta. E presto i francesi entreranno in città senza trovare opposizioni. È la guerra. Anzi, è la guerra condotta male da tuo zio.” fece annoiato Pirovano, con uno sbuffo: “Allora, hai finito o no di sistemarti?”

Come se il suo amante non avesse nemmeno aperto bocca, la Contessa andò avanti per la sua strada: “Stanno tradendo tutti quanti Milano. Anche quelli che avevano giurato di difenderla. È una vergogna.”

“Vieni a letto.” la incitò l'uomo, mettendosi seduto e guardandola con insistenza.

Era stata l'ennesima giornata infernale. Alla cittadella erano arrivati i primi soldati, per mettersi lì di stanza, e Giovanni da Casale aveva capito subito che non sarebbe stato facile, per lui. Prima di tutto, veniva percepito in parte come uno straniero e in parte come un raccomandato e quindi farsi ubbidire non era facilissimo. E, come aggravante, in ogni uomo a cui dava ordini, Pirovano vedeva un possibile amante occasionale della sua donna e trattenersi dal prendere uno a pugni e l'altro a schiaffi era davvero difficile.

Convincendosi infine a dar retto al milanese, la donna lasciò la scrivania e si avvicinò al talamo. Si sedette sul bordo, dando le spalle al giovane e si perse ancora qualche minuto nei suoi pensieri.

Era tardi, era stanca, ma ancora non poteva far riposare la mente, per quanto ci provasse. L'idea che le frullava in testa da qualche giorno stava prendendo sempre più forma e voleva parlarne anche con Giovanni.

Questi, però, non sembrava molto in vena di parlare. Le si era fatto vicino e, scostatele i capelli, le stava sfiorando il collo con le labbra. Con una mano le accarezzava la spalla e, non trovando ostacoli, scese fino al braccio e da lì si sposto al seno, con maggior prepotenza, il respiro che si faceva un po' più corto e i baci più insistenti.

Fu allora che la Tigre lo fermò: “Milano...” cominciò a dire.

Pirovano, a quel punto, perse la pazienza. Scostandosi di scatto da lei, si alzò dal letto e cominciò a misurare la stanza a passi veloci.

“Milano! Milano!” gridò: “Ormai Milano non esiste più! Che cos'è, Milano?! Un'accozzaglia di palazzi e chiese, ecco cos'è! Nulla!”

“Milano è un'idea!” fu il pronto contrattacco della donna, che, lasciato a sua volta il letto, si era messa a fronteggiare l'amante: “Milano è un ideale! I miei nonni volevano che...”

“I tuoi nonni sono morti da decenni!” la zittì Giovanni, senza voler sentire ragioni: “Anzi, da quel che dicono, tua nonna è morta per mano di tuo padre!”

La Tigre agì d'impulso, come se avesse davanti un uomo qualunque e non quello che aveva scelto come proprio favorito.

Lo afferrò per i corti capelli neri, storcendogli la testa di lato, cogliendolo tanto di sorpresa da rendergli impossibile qualsiasi forma di difesa: “Non dirlo.” gli intimò, tirando un po' di più, tanto da farlo quasi lacrimare per il dolore: “Non dirlo mai.”

Lo rilasciò quasi subito, già pentita di non essersi trattenuta. Anche se con Ottaviano Manfredi si era lasciata andare spesso e volentieri a quel genere di scatti, con Pirovano non avrebbe voluto. Per lei, quel giovane uomo era e doveva restare un appiglio fatto di pace e sicurezza, non l'ennesimo motivo di insoddisfazione e rabbia.

“Abbiamo quasi quindici anni di differenza – sussurrò, come a volersi convincere prima di tutto se stessa – è normale avere una visione diversa delle stesse cose.”

Giovanni, ancora scosso per il furioso attacco dell'amante, si massaggiò la testa, laddove aveva sentito tanti capelli strapparsi, e controbatté: “No, non è solo per via della differenza d'età, Caterina... Noi due ragioniamo in modo diverso su tante cose e basta.”

“E allora?” chiese lei, un po' intimorita.

Nelle parole del milanese aveva scorto qualcosa di oscuro. Aveva quasi paura che stesse per dirle che aveva intenzione di lasciarla, di andarsene, di cercare fortuna altrove, troppo stanco di dover sopportare i suoi sbalzi d'umore e le sue intemperanze.

“E allora... A volte mi piacerebbe se provassi ad ascoltarmi.” concluse Pirovano: “Ma...”

La Sforza stringeva le mani lungo i fianchi, non sapendo cosa dire o fare. Riconosceva le ragioni del suo amante, ma non lo amava abbastanza da provare ad assecondare in modo serio le sue richieste.

Giovanni parve capire al volo quello che la Contessa stava pensando e, con una cecità che Caterina riconosceva bene – perché aveva guidato spesso anche lei – provò a tamponare quella ferita aperta seguendo la fame del proprio corpo, illudendosi che ritrovare la sintonia fisica li avrebbe aiutati a scoprire anche una sintonia mentale che, fino a quel momento, era stata molto labile.

La Leonessa accolse i baci e le strette voraci del giovane, lasciò che le strappasse via la sottoveste, l'aiutò a far scivolare in terra le brachette e, quando lui la gettò sul letto di peso, senza la minima dolcezza, lo lasciò fare. Invece di provare a contrastarlo, diede lei stessa sfogo a tutto quello che aveva tenuto dentro quel giorno, ripagando la sua forza bruta con altrettanta rabbia, finendo per metterlo quasi in difficoltà.

Quando non ebbero più né fiato né voglia, stremati, sudati e un po' spenti, Pirovano e la Sforza restarono supini, l'uno accanto all'altra, sfiorandosi appena con la punta delle dita.

Giovanni sentiva la schiena graffiata, il collo e una spalla che pulsavano, per colpa dei denti di lei.

Si sentiva svuotato, inerme, e quasi non si riconosceva. Non aveva mai preso una donna a quel modo e quasi se ne vergognava. Riusciva ad accettarlo solo perché anche Caterina l'aveva voluto.

La Tigre, per parte sua, ancora non credeva di aver cercato l'amante con quella furia. Aveva rotto in parte la patina di rispetto e gentilezza che avevano sempre avuto l'una verso l'altro. Era stato come oltrepassare il Rubicone.

“Sto pensando che dovrei avvicinarmi a Venezia.” disse, senza tanti preamboli, la voce un po' arrochita, una mano sul ventre che saliva e scendeva lento: “Ormai Milano è persa e Firenze non mi aiuterà mai. Al papa non posso rivolgermi, dato che mi ha sollevata dal mio titolo, e i francesi mi hanno umiliata troppo, l'ultima volta che sono passati dalla Romagna. Resta solo il Doge.”

Pirovano, esasperato, non poteva credere che la donna che gli stava accanto volesse davvero parlare ancora di affari di Stato, ma, quella volta, non osò lamentarsene apertamente.

“Voglio che sia tu a provare a trattare con la Serenissima.” concluse la Contessa, guardandolo.

Giovanni trattenne il fiato un istante e poi, distogliendo lo sguardo e mettendosi a fissare il soffitto buio, ribatté: “Mi spiace, ma a Venezia io non ci vado.”

“Allora manda qualcuno di cui ci possiamo fidare, ma cura tu le trattative, anche se a distanza.” si trovò a dire lei, senza più la forza di arrabbiarsi: “Dobbiamo provarci. Se Venezia ci dirà di no, allora ritorneremo al piano di partenza.”

“Restare fino alla morte.” ricordò lui, con tono incolore.

“Lo farai?” chiese lei, riferendosi al trattare con Venezia.

Pirovano, desideroso sia di ritrovare quell'equilibrio che aveva sempre avuto, prima di arrivare a Forlì e conoscere Caterina, sia di rivalutarsi agli occhi di lei, si spostò con delicatezza, cingendole dapprima un fianco con la mano e poi cercando di mettersi sopra di lei: “Certo. Io morirò al tuo fianco, combattendo. Te l'ho giurato e io non mi rimangio le promesse. Lo sai che ti amo.”

La Leonessa non disse nulla, né lo fermò. Sapeva che per lui quella notte non era finita e che quella volta l'avrebbe presa con più tranquillità, con fermezza, come sempre, ma senza più l'arroganza di poco prima.

Mentre accettava quel suo nuovo assalto, stringendolo a sé in modo significativo, gli sussurrò all'orecchio: “Quello lo so. Io ti sto chiedendo se tratterai con Venezia per me.”

Il milanese, il fiato già corto e la mente completamente annebbiata dal sentore della pelle della sua amante e dal calore ancestrale del suo corpo, disse solo: “Farò tutto quello che vorrai...”

 
 
   
 
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