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Autore: Aittam    07/07/2019    0 recensioni
Quante domande lascia in sospeso questa serie? Quante cose ci proponiamo di risolevere seguendola eppure nulla viene mai rivelato completamente? Ecco a voi la prima parte del Ciclo dei Miracoulus (oppure, visto che recentemente l'italiano è da sfigati: The Miracoulus Cycle) ovvero un insieme di serie che vadano a rispondere ad ogni nostro dubbio amletico riguardo a questo affascinante mondo.
In questa prima parte vedremo ciò che è stato nel passato a noi conosciuto: chi furono i primi portatori? che ruolo ebbero nelle varie età storiche e come si interfacciavano ai Kwami in dati periodi in cui la magia era più semplice di quanto in realtà non sia?
ovviamente non sarà una specie di libro di storia: ogni capitolo racconterà un evento che avrà come protagonisti alcuni portatori, alcuni realmente esistiti e altri inventati di sana pianta da me medesimo con uno studio ben strutturato dei personaggi e uno sviluppo caratteriale, in molti casi, ben studiato e organizzato... il tutto sarà guidato dai Kwami principali che, in un certo senso, saranno i nostri agganci veri e propri alla serie... non mancheranno però riferimenti diretti alla serie originale o anche ad altri media... aspettatevi molte citazioni.
Genere: Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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L’ERRORE FATALE DEL POPOLO PIUMATO
 
La gente di Mexica si distingueva dagli antichi popoli: non viveva più nelle valli e nei boschi spostandosi a seconda della stagione e seguendo i branchi di prede. Non viveva più attorno al fuoco e cacciando vestiti solo con pelli di cervo e piume legate al capo: vivevano ora in città maestose rette da sovrani potenti e vestivano abiti di pregiata fattura e riccamente decorati. Il popolo di Mexica era il più potente del mondo.
Potenti erano le loro lance, le loro spade dentate e i loro archi, gloriose le gesta dei loro signori e affascinante era il loro credo che, come dicevano loro, era fatto di sangue e magia impastati tra loro: i loro dei erano molti e potenti, i loro padri li veneravano come i figli e i loro riti erano tra i più complessi e organizzati al mondo conosciuto.
E così pensava il giovane Micazoyolin, il Guerriero Coccinella, il sacro servitore di Xipe Totec e difensore del popolo azteco.
Se ne stava ritto e fiero alle porte del Tempio Maggiore, e osservava la magnifica città in cui era nato e cresciuto: Tenochtitlan, la degna capitale del degno impero: posta al centro del lago Texcoco e costruita su numerosissime isolette collegate tra loro da strade rialzate e palazzi grandiosi: la più grande delle città nel mondo.
Egli portava, appeso ad ogni lobo, un orecchino che aveva ottenuto sull’altare prima di essere sacrificato agli dei: gli erano comparsi in mano mentre, alla tenera età di 12 anni, stringeva con tutte le forze il pugno per evitare di pensare al tremendo dolore che lo attendeva e lo avrebbe condotto nel Tlaloclan. Appena apparvero quegli orecchini vennero interpretati dal sommo sacerdote, poco prima che il pugnale d’ossidiana trapassasse il suo sterno, come segno che il dio Xipe Totec l’avesse eletto come suo campione: il rosso era il suo colore e il mito narrava che avesse deciso di rinunciare alla sua stessa pelle pur di donare cibo e abbondanza all’uomo: egli era il dio della buona sorte che aveva garantito al popolo di Mexica il suo più grande campione.
Al suo fianco i suoi più fidati amici: Xenetotec, il Guerriero Colibrì, prescelto da Huitzolopochtli, garante del sole, e Chalamaniqan, il glorioso Eletto del Giaguaro, con il quale Mycazoyolin aveva combattuto molte battaglie che li avevano portati ad avvicinarsi abbastanza da diventare amici molto stretti: il prescelto di Tezcatlipoca, dio della notte e della magia, era il più stretto collaboratore e, assieme al tranquillo Xenetotec passavano tutto il tempo libero dalle battaglie e dalle imprese a fare ciò che amavano di più: divertirsi.
Ed ora, dopo aver passato un’intera giornata senza fare nulla di eclatante ma stando in semplice compagnia, i tre giovani guerrieri se ne stavano tranquilli ad osservare il sole che tramontava oltre le folte chiome dei grandi alberi tropicali.
Micazoyolin se ne stava appoggiato ad una colonna mentre Xenototec affilava la punta della lancia seduto ai piedi della colonna a fianco. Chalamaniqan intanto stava mezzo sdraiato sulle gradinate difronte a loro, come un giaguaro poco prima di addormentarsi, stringendo con la mano destra la lunga e spessa spada dai bordi dentati che si premurava di tenere lucida come uno specchio.
Nel frattempo Micazoyolin pensava: egli si era distinto nei campi di battaglia combattendo con onore e gloria e aveva difeso il popolo di Tenochtitlan da ogni pericolo che gli si parava dinnanzi: mostri, demoni, invasori e qualsiasi altro tipo di avversità che turbava lo status quo del glorioso impero. Un impero gestito da un vero tiranno, certo, Micazoyolin lo sapeva: Montezuma era una vera e propria bestia seduta su un trono ma, ogni volta che lo diceva a suo padre, che apparteneva alla ridottissima cerchia di persone ce avevano il diritto di guardarlo in volto, lui sosteneva che faceva ciò per garantire la calma all’interno della capitale e dei territori del grande impero: ognuno doveva sottomettersi a lui poiché solo lui sapeva come gestire le cose.
Micazoyolin era piuttosto scettico su questa visione delle cose: un imperatore non ha il diritto di esercitare il suo potere con crudeltà però… se lo diceva suo padre… piuttosto pensava che la calma che era calata sull’impero negli ultimi tempi iniziava a farsi opprimente: era come se tutto il mondo attorno a loro si stesse preparando ad un futuro grande evento.
Eppure qualcosa accadde, lontano, sulle costa orientale dello Yucatan, alcune donne videro profilarsi le vele squadrate delle imbarcazioni che venivano da oltre l’oceano e che avevano portato solo distruzione e morte: i conquistadores.
Passavano i giorni, i mesi e le stagioni e il popolo di Mexica seppe ciò che accadeva ai loro confini: un uomo veniva seminando il terrore e cavalcando draghi immortali da cui sguinzagliava cani demoniaci assetati di anime; egli indossava il mantello di piume variopinte e la pelle del serpente: egli si faceva chiamare Hernan Cortes ma tutti, nella vasta Mexica, sapevano chi in realtà fosse: il messia che attendevano da quando l’uomo era nato: Quetzalcoatl.
Eppure Micazoyolin pensava che il dio che li aveva creati e li aveva istruiti a vivere non poteva certo apparire come un demone assetato di sangue quando fosse tornato: giravano storie terrificanti su ciò che Cortes facesse: non conosceva pietà e tutto ciò che voleva era conquistare l’Impero degli Aztechi che erano temuti da tutti i popoli che abitavano in quel tempo nelle Americhe.
 
Nello stesso tempo in cui Micazoyolin pensava ciò, a diverse miglia ad Est un drappello composto da pochi uomini avanzava attraverso la giungla facendosi strada a colpi di spada e spronando le loro possenti cavalcature a proseguire: in testa vi era la possente figura di un uomo vestito con armatura, elmo piumato e mantello in groppa ad un possente stallone bianco e dietro di lui la sua brigata composta non solo da quei pochi uomini a cavallo ma anche dai numerosi indigeni che era riuscito a portare dalla sua parte prima che decidesse di farli fuori: da sotto l’elmo egli pareva serio e impassibile, come una statua di cera, e dai suoi occhi fissi e statici non traspariva alcuna emozione.
Una donna camminava al suo fianco, era di etnia Azteca e conosceva sia la lingua che egli parlava, lo Spagnolo, e ben due lingue amerinde che conosceva alla perfezione: la sua lingua natale, il Nahuatl, e il Maya.
Doña Marina, così la chiamavano i conquistadores sebbene fosse stata chiamata Malintzin nella sua famiglia natale, in un antica città ormai conquistata da Cortes da cui i genitori l’avevano allontanata per disfarsi di lei vendendola come schiava agli schiavisti Maya che, a loro volta, l’avevano consegnata agli spagnoli. Qui Doña Marina era stata battezzata con questo nome ed era rimasta una semplice prostituta al servizio dei piaceri dei conquistadores prima che lo stesso Cortes non scoprisse ciò che in realtà era in grado di fare: parlare la lingua dell’impero che aveva intenzione di conquistare allo stesso modo in cui lui parlava lo spagnolo; così egli decise di portarla con sé in ogni spedizione così che gli facesse da interprete.
Quando la sera si fece vicina ed erano ormai giunti in prossimità dello sbocco sulla Valle di Mexica, da cui si poteva vedere il lago in cui sorgeva la capitale, superarono un territorio occupato da due vulcani gemelli e giunsero ai piedi di un crinale e, dopo che la vegetazione fu diradata, i soldati ammirarono stupefatti la magnifica valle: coperta a foreste lussureggianti e abitata da innumerevoli bestie: qui intendevano vivere fino alla morte poiché era un paradiso terrestre.
Quando fu calata la notte si accamparono sulle rive del fiume e Cortès fece richiamare una sentinella a fin che andasse sulle rive del lago per trattare con i servitori dell’impero.
Il giovane, che si chiamava Pedro partì al galoppo non prima che il suo comandante gli ebbe spiegato per filo e per segno tutto ciò che doveva fare: doveva recarsi sulle rive e cercare il ponte principale che collegava la costa a Tenochtitlan e di attraversarlo; alle porte della città avrebbe sicuramente incontrato degli uomini e lui, con l’aiuto di Doña Marina, avrebbe chiesto per conto suo di poter incontrare i rappresentanti dell’imperatore Montezuma per trattate di commerci e aiuto reciproco: avrebbe dovuto spiegare che non veniva per conquistare anche la città ma voleva lasciare all’impero abbastanza territorio da poter intraprendere un’attività commerciale con la Spagna in vista di una felice intesa.
Quando Pedro raggiunse la riva e trovò il ponte principale fu ben sollevato d aver quasi completato la missione: la parte difficile era fatta, ora doveva parlare con le guardie.
Quando raggiunse le ampie porte d’ingresso fu meravigliato: “Per essere dei barbari sono davvero bravi” pensò guardando con malcelato stupore le immense mura decorate e la larghezza delle porte.
Gli si pararono davanti dodici uomini capeggiati da un tale vestito in modo alquanto ridicolo: portava un mantello e un perizoma che ricordava il pelo dei leopardi e, con la stessa livrea, il suo corpo era dipinto. Brandiva una di quelle ridicole spade spesse e dentate, completamente priva della grazia e dell’eleganza delle sottili lame spagnole.
Egli si inchinò e parlò nella sua lingua: «Vengo per conto di Hernan Cortes, Signore di Veracruz e portatore della parola del nostro Re nelle vostre terre»
Marina tradusse.
Il tizio-leopardo parlò a sua volta e Marina tradusse dicendo queste parole: «Conosciamo la fama del tuo padrone: egli ha scombussolato i nostri territori e ha portato un’intera popolazione che, fino a pochi anni fa era sotto al nostro totale controllo, a ribellarsi contro di noi alleandosi con lui: non sappiamo cosa vogliate ma ciò che sia io che l’imperatore crediamo e che vogliate conquistarci».
Pedro rispose: «Cortes mi manda a dirvi che lui non intende uccidervi: vuole intrattenere un saldo rapporto di alleanza e di commercio con il vostro popolo così da legare il nuovo continente a quello vecchio garantendo così una buona alleanza»
Marina tradusse e lui rispose: «Cosa porti a garantire le tue parole?»
Pedro estrasse una busta e la aprì e la porse all’uomo che, con volto perplesso, soppesò quella strana sostanza bianca e sottile che sembrava una foglia ma non era né verde né aveva alcuna venatura «Cos’è» chiese.
«Questa è una lettera che Cortes stesso ha fatto scrivere alla sua serva, la qui presente Doña Marina, che testimonia la nostra buona fede»
Il guerriero osservò la carta e notò che c’era scritto qualcosa, lesse e decretò che il documento sfatava ogni dubbio e l’avrebbe presentato all’imperatore.
Pedro si allontanò congedandosi da quel tale e, tra sé e sé, pensò: “Barbari”.
Quando Cortes scoprì che quell’idiota di Pedro non aveva chiesto alcuna indicazione per l’ora o il giorno e se ne era tornato immediatamente all’accampamento non esitò a sollevare il braccio e a farlo saltare in aria a colpi di cannone.
Dopodiché inviò un altro che, qualche giorno dopo tornò con queste informazioni: «Dicono che vogliono organizzare una sontuosa festa in nostro onore e che ci attendono tra otto giorni alle porte principali; potremo entrare a cavallo e armati nella loro città come pattuito e verremo trattati con tutti gli onori»
Cortes annui gravemente e lo congedò.
 
Quando Chalamaniqan riferì ciò che aveva detto all’emissario degli spagnoli a Montezuma questi approvò e decise che si sarebbe consultato con i nobili e i sacerdoti per vedere se fosse giusto prolungare le trattative diplomatiche o passare direttamente agli scontri.
Micazoyolin intanto stava discutendo con Xenetotec sul da farsi: «A mio parere stiamo solo perdendo tempo mentre i nostri avversari ne stanno guadagnando» sentenziò Xenetotec con una punta di nervosismo.
«Anche secondo me ma dobbiamo pazientare: l’imperatore sa ciò che fa e non dubito che farà le scelte migliori per il nostro benessere»
«Tu lo sopravvaluti: sta invecchiando e inizia a perdere il lume della ragione mentre gli scatti d’ira si fanno più comuni… non l’hai notato?»
«Vero anche questo ma qualche sbraitata non può decretare l’inettitudine di un uomo a governare! Oppure no amico mio?»
«Io rimango comunque scettico»
«Contento tu»
 
Il Kwami di Chalamaniqam si avvicinò fluttuando a Tikki e le sussurrò qualcosa e lei annuì di risposta.
Micazoyolin chiese spiegazioni al piccolo giaguaro ma l’essere soprannaturale si dileguò troppo rapidamente e il giovane si sedette per terra battendo un pugno sul pavimento.
«Cosa c’è?» chiese Tikki.
«Cosa ti ha detto? Perché non mi ha voluto dire cosa ti ha detto?»
«Ti stai ripetendo»
«No… non uscire dal discorso: cosa state tramando?»
«Non ti preoccupare: lo scoprirai».
Quella sera Micazoyolin notò che il suo kwami era scomparso e, a detta degli altri due campioni anche loro non riuscivano più a trovare i loro; non se ne preoccuparono troppo e, verso tarda sera, li videro ricomparire improvvisamente, come se non si fossero mai mossi dal luogo in cui erano prima di andarsene,
«Allora?» chiesero i tre giovani.
«Vi diremo tutto: siamo stati ad origliare il consiglio di Montezuma e…»
«Ma è illegale!» sentenziò Xenetotec ma Chalamaniqam gli fece cenno di tacere.
«Cosa avete sentito» chiese il guerriero giaguaro.
«Ci sono tre idee comuni in tutto il consiglio: Olomontl vorrebbe impiegare subito l’esercito e liberarsi immediatamente degli spagnoli, Tamaniqan vorrebbe studiarli da lontano, individuare subito le debolezze e trovare una strategia efficace per batterli e tuo padre, Micazoyolin, vuole continuare le trattative, ritiene che visto che è in possesso di poteri divini sia impossibile da battere»
«Ma non ha poteri divini!» disse Micazoyolin incrociando le braccia… voi avvertite qualcosa in lui?
«No… non esattamente: percepiamo qualcosa di strano però, come se ci fossero altri kwami nelle vicinanze»
«Idiozia… li avreste percepiti chiaramente. Mio padre ha detto qualcos’altro?»
«Essendo il primo sacerdote ha riferito molte cose strane: il calendario individua in questo ciclo solare il ritorno di Quetzalcoatl che, in modo anomalo, corrisponde alla descrizione di Cortes»
«Si… il dio barbuto in aspetto di serpente piumato?» chiese Chalamaniqam «Effettivamente anche l’emissario che ha inviato potrebbe essere Quetzalcoatl: aveva la barba e un copricapo di ferro adornato con piume»
«Elmo strano il loro… va beh! Sarà solo una coincidenza!»
«Ehm no: sembra che Cortes abbia dalla sua gran parte delle popolazioni indigene che ha incontrato esterne alla valle di Mexica… ha anche fondato numerose colonie, la più vicina è Veracruz che si trova a pochissimi chilometri da qua»
«Ho sentito che ha bruciato le navi pur di evitare che i suoi soldati vogliano tornare alla loro terra natale»
«È un folle… ma anche un genio! Chi avrebbe fatto una cosa simile pur di tenersi stretti i soldati?»
«Io no: ci tengo alle mie risorse di spostamento» rispose Xenetotec con pesante sarcasmo.
«Abbiamo altri problemi» introdusse il kwami di Chalamaniqam: «Non siamo nel periodo adatto per combattere»
«Vero… non si possono organizzare guerre se non durante i primi mesi dell’anno»
«In ogni caso possiamo sempre scontrarci per vie traverse: attraverso guerre diplomatiche magari» propose Tikki.
«Come faremmo a… cosa sta succedendo di fuori?»
Infatti Micazoyolin si voltò verso la porta della sala dei campioni e la spalancò per vedere ciò che stava accadendo.
«Direi che siamo in guerra» disse Xenetotec afferrando la lancia.
«No! Non può essere! Perché stanno tutti imbracciando le armi?»
Una bella ragazza passò accanto a Micazoyolin e gli rispose: «Nulla di cui preoccuparsi: è una guerra rituale»
«Ah bene» disse il guerriero coccinella con una malcelata noia «Odio queste usanze inutili».
 
Nel frattempo Cortes stava avanzando verso il lago Texoco e già iniziava a sentire la brezza lacustre che percorreva le coste.
«Tra esattamente 11 giorni saremo a Tenochtitlan» disse sfiorando con la mano guantata i crini del cavallo.
«Ci accamperemo qui per attendere gli emissari di Montezuma che ci porteranno alcune loro ricchezze»
«Abbiamo ordinato agli stregoni di recarsi a Veracruz e di allontanare gli invasori? Abbiamo avuto successo? No: loro hanno continuato ad avanzare e si sono alleati con i Tlaxcala, i nostri più antichi rivali che non siamo mai riusciti a sottomettere! Poi loro cos’hanno fatto? Con gran parte degli indigeni delle terre che hanno conquistato hanno invaso, depredato, saccheggiato, stuprato e distrutto Cholula, la più grande tra le città vicine alla Valle di Mexica e noi cos’abbiamo fato? Ci siamo preparati a fronteggiarli con le nostre armi? No! Ci siamo arresi scegliendo la diplomazia! Imperatore: perché continuare con questo gioco di alleanze quando potremmo abbatterli facilmente: il loro sangue sarebbe gradito agli dei!»
Così aveva gridato, nella sala del trono, il generale dell’esercito mentre Montezuma, con una mano appoggiata sotto la guancia, lo guardava con le palpebre a mezz’asta.
«Maestà! Mi state ascoltando?» gridò il generale che, con molta probabilità, si era fatto prendere dall’impeto.
«Si Tlanalai, ti sto ascoltando… non aggredire l’imperatore o il tuo stesso esercito si potrebbe rivoltare contro di te solo grazie ad un mio ordine».
«Maestà!» continuò lui ma Montezuma, con uno scatto felino, sollevò la mano e lo congedò.
«Avanti il prossimo» disse poi con flemma.
«Imperatore Montezuma: intendiamo chiedervi aiuto per le questioni di confine: Cortes sta inviando i suoi uomini a devastare i campi e a minacciare i contadini»
«Non mi preoccuperei… avanti il prossimo»
«Maestà… sono alle porte della città» era stato Xenetotec a parlare e, a quelle parole, il re saltò letteralmente in piedi e ordinò di aprire immediatamente le porte e di allestire un corteo d’ingresso in onore dei loro attuali alleati economici.
In quel momento Micazoyolin comprese: non era un buon re dopotutto: chi aprirebbe le porte del proprio impero a uomini che lo stanno devastando?
Cortes entrò in un corteo trionfale e vide, come i suoi compagni, la magnificenza della città più grande del mondo.
«Abili… per essere dei barbari» sentenziò un soldato al suo fianco e Hernan non poté dire altro che: «Già»
Vennero condotti al foro centrale, da cui si innalzavano immense piramidi sormontate da templi squadrati riccamente decorati e in cui tutta la città si stava concentrando: fu lì che al grande conquistatore venne un dubbio atroce: “Non è che questa è la più grande imboscata della storia militare?” si chiese guardando con sospetto i soldati aztechi armati di tutto punto.
Marina si avvicinò al conquistatore e riferì a Cortes che tra poco l’avrebbe accolto Montezuma e lei stessa avrebbe fatto da traduttrice ed egli acconsentì.
 
Micazoyolin osservò con scetticismo la discussione tra i due grandi signori e notò come Cortes tendesse ad essere molto statico e asettico nelle sue discussioni: era inquietante vedere quell’uomo che si era costruita la fama di sanguinario signore della guerra parlare con tanta calma e sterilità al suo effettivo avversario.
«Mi fa paura sinceramente… spero davvero che non sia Quetzalcoatl altrimenti abbiamo sempre venerato un dio della distruzione senza accorgercene»
«Speriamo di no» dissero i suoi compagni mentre continuavano a seguire il discorso dei due capi che, ora, si era concentrato sulla descrizione della Spagna e sulle domande che Montezuma poneva nel riguardo della nazione da cui Cortes proveniva.
Passò una settimana e il padre di Micazoyolin avrebbe dovuto organizzare la cerimonia in onore di Huitzolopochtli, il dio del sole, a cui si offriva in sacrificio il corpo di un umano.
Fu scelto uno schiavo che fu preparato adeguatamente e, il giorno della cerimonia, tutti furono presenti al Tempio del sole, anche gli spagnoli.
«Spero che duri poco: non ho la minima voglia di seguire una cerimonia in una lingua che non conosco» sentenziò Cortes alla sua gente.
«Ma signore… la messa non è recitata in latino?»
«Ma quella non è una cerimonia come un'altra: è il momento in cui nostro signore Gesù Cristo si fa pane per noi quindi, non reggerà certo il confronto di un branco di uomini vestiti di piume che ballano in cerchio e rivolgono le loro blasfeme preghiere a falsi dei dell’inferno»
«Avete ragione signore».
Videro poi un uomo venir condotto dal sacerdote verso l’altare e lo guardavano mentre si stendeva.
«Cosa vogliono fare?» chiese Cortes.
«Sacrificarlo» disse semplicemente Marina.
«Come? Lo uccideranno? Sull’altare del tempio?»
«Beh… si: ne estrarranno il cuore e faranno rotolare il suo corpo giù per la gradinata»
«Ma è una cosa terrificante! Come possono fare cose così empie per i loro dei?»
«Credono che Huitlopochtli, il dio colibrì, sia il sole che sorge ogni mattino e, dopo aver tramontato, va a combattere contro le stelle guidate dalla luna e se egli perde ciò porterà alla fine del mondo»
«Non è per nulla normale: appena prenderò il potere in questa città sarà proibita una simile pratica»
«Ci vedo delle analogie con il cristianesimo» disse Marina tra se e se e fu squadrata in malo modo dal conquistatore.
«Voglio dire… Gesù si è sacrificato per permettere a noi di continuare a vivere giusto? Loro fanno l’esatto opposto»
«Quindi non è un’analogia: è un’opposizione»
«Ehm… si!» disse lei sospirando per essere scampata alla morte per un pelo.
Nel frattempo il sacerdote aveva già trafitto il cuore dello schiavo con il pugnale d’ossidiana e ne aveva estratto il cuore che espose alla gente tra acclamazioni e grida di giubilo. Dopodiché appoggiò il corpo dell’uomo a pochi centimetri dal gradino più alto e, con un colpo del bastone, lo fece rotolare tra gli applausi della folla.
Nel frattempo Montezuma osservava il suo ospite e vide che ciò non gli era gradito.
Nei giorni seguenti tra i sudditi di Cortes iniziò a circolare una voce terrificante: gli aztechi intendevano sacrificarli tutti, uno ad uno, per soddisfare i loro dei e il capo sarebbe stato l’ultimo.
«È vero mio signore?» chiese un suo stretto compagno.
«No ma non vedo perché stare tranquilli: parliamo di un popolo imprevedibile e mosso da azioni barbariche: sarebbe la prima cosa che farebbero pur di eliminarci… stimo in guardia»
Allora Cortes ordinò di distruggere tutti gli idoli e di ripulire il sangue dai templi così da migliorarli ponendovi le effigi cristiane.
Ovviamente tutti reagirono male a ciò ma Montezuma li esortava a non ribellarsi: ormai era solito seguire Cortes ovunque andasse e il signore di Veracruz lo esortava a continuare così da poterlo sempre tenere d’occhio: ormai Montezuma aveva ceduto tutti i suoi poteri a Cortes.
L’indomani giunse una lettera che veniva da Veracruz, dove Cortes aveva lasciato alcuni uomini a governare in sua vece.
«Vi riferiamo che le coste dello Yucatan sono state raggiunte da un vasto numero di Conquistadores guidati da Panfilo de Narvajes che intende agire per conto di Pedro Velasches, governatore di Cuba, vassallo del re di Spagna e vostro superiore prima che fondaste Veracruz. Intende punirvi per l’atto di ribellarsi a Velasches fondando la città sopracitata»
Quella sera Cortes decise di uscire per schiarirsi le idee e capire se dovesse partire immediatamente o aspettare ancora alcuni giorni; in quel momento notò che uno strano ragazzo gli stava andando incontro: aveva il corpo dipinto in modo strano per il suo popolo: una pelle stranamente pallida con tre cerchi neri: due in corrispondenza dei pettorali e uno appena sopra l’ombelico; il capo era adornato da un copricapo di piume rosse decorato da gioielli d’oro con effigi che ricordavano piccoli coleotteri. 
Il signore di Veracruz ordinò a Marina di approcciarlo per conto suo e di chiedere cosa volesse dal delegato di Spagna.
Marina andò dal giovane e gli parlò in Nahuatl e lui rispose; lei disse a Cortes che intendeva conoscerlo di persona perché si dava il caso che lui fosse il campione di Mexica e dell’intero impero e Cortes acconsentì.
«Qual è il tuo nome?» gli chiese Cortes.
«Micazoyolin, sono il figlio del Primo Sacerdote» riferì Marina.
«E perché vuoi parlare con me?» chiese egli.
«Vorrei sapere che intenzioni avete con il nostro impero: se ancora di impero si può parlare» rispose lui con aria sprezzante.
«Come fai a… conosci la mia lingua?»
«Tornate pure dentro signora, saprò parlargli faccia a faccia»
In quel momento Cortes notò che qualcosa in lui era cambiato: ora i punti neri non erano più tre ma ben nove: una colonna di tre che si distribuiva sull’addome e sul torace e due colonne sui fianchi; inoltre i suoi avambracci erano diventati rossi, sul suo volto era comparsa una maschera di tintura rossa con cornice nera, il copricapo d’oro splendeva di una luce strana e da esso si dipanavano lunghe piume rosse a screziature nere; il suo perizoma era diventato giallo a pois neri.
«Ora vedi ciò che sono?»
«Lo vedo: quale demone ti concede simili poteri?»
«Almeno io i poteri di un dio li posseggo? Voi sicuramente no… torniamo alla mia domanda»
«Sai benissimo che intenzioni ho: tu sei solo un ragazzino e potrei trafiggerti con la mia spada da un momento all’altro quindi non mi farò troppi problemi: sto intortando perbene il vostro imperatore così da prendere il suo posto e potervi governare tutti e civilizzarvi»
«E quindi questo che intendevate fare fin dall’inizio? Il mio popolo potrebbe anche accettarlo poiché vi crede un dio in questa terra ma io fatico a vedere ciò che gli altri vedono»
«E se io fossi davvero il messia che attendete? E se le vostre insensate profezie si rivelassero azzeccate?»
«Non credo ad un messia che tiranneggia: non insultare i  nostri dei, non ripudiare la nostra società, non schifare le nostre tradizione e non ci guardare dall’alto in basso! Noi siamo con te in un rapporto di alleanza e sappi che io, prima di tutti, sono abbastanza influente da convincere l’Imperatore Montezuma in persona delle tue malvagie intenzioni»
«Vieni ragazzo: camminiamo» disse Cortes, come per porsi a proprio agio e iniziò a passeggiare lungo le strade della città mentre Micazoyolin gli camminava accanto continuando a parlare ma fu presto interrotto dal conquistadores.
«Tu non hai capito ragazzo: sono io l’imperatore ora: io sono il signore sia di Veracruz che di Tenochtliclan ora poiché io ho in pugno Montezuma, l’intera sua corte e tutti voi ormai: non verrà sparsa nemmeno una goccia di sangue… cosa che voi avete sempre fatto per soddisfare la sete dei vostri dei. Sarà un regno magnifico il mio, mille volte migliore di quello dei vostri antenati: sotto la croce vivrete meglio»
«Tu sei un folle! Non ci piegheremo mai agli europei, io rappresento tutti: uomini e donne, vecchi e giovani, guerrieri e contadini, nobili e schiavi! Io sono il campione sacro di Xipe Totec, io sono il baluardo del popolo azteco e non mi piegherai»
«Ah si mio giovane amico? Vieni con me allora, ti dimostrerò cosa ha veramente portato il popolo Yucatan a venerarmi e a seguirmi»
Cortes si avviò verso uno dei ponti che portava alla riva e, con tranquillità, lo attraversò seguito da uno stupefatto Micazoyolin. Giunto sulla riva si inoltrò nella giungla.
Cortes avanzò attraverso la vegetazione più fitta e, quando fu giunto davanti a un grosso albero, si chinò e raccolse due oggetti che Micazoyolin non riuscì a classificare: era stato troppo veloce nell’indossarli e, appena l’ebbe fatto, due luci – una rossa e una verdastra – gli apparvero accanto similmente al modo in cui Tikki appariva al suo fianco nei momenti opportuni.
Egli sollevò le braccia e i due kwami, che avevano l’aspetto di un serpente e di un pappagallo, si infransero contro il suo corpo e il suo aspetto mutò tanto da renderlo irriconoscibile.
Ora non indossava più un’armatura di ferro, un elmo piumato, un mantello verde cupo e un paio di pantaloni bruni: ora portava un lunghissimo mantello di piume d’Ara Macao e il suo elmo aveva assunto la forma di una testa di serpente a fauci spalancate anch’essa adornata da piume di pappagallo; i suoi occhi erano diventati neri come quelli dei serpenti e la sua pelle verdastra così come i suoi abiti, non più fatti di tessuti e metallo ma intessuti di squame e piume variopinte. Il tutto si concludeva in un aspetto terrificante e grottesco: una strana accozzaglia ibrida tra un uomo, un serpente e un uccello… Micazoyolin fu colto dal terrore: primordiale che immobilizza il capibara davanti al giaguaro: egli era davvero Quetzalcoatl!
Il giovane afferrò lo Yoyo legato al fianco e iniziò a farlo roteare vorticosamente mentre il mostro rideva di gusto: «Tu avresti affrontato demoni e eserciti? Ma hai mai affrontato un dio?»
«No! Ma c’è sempre una prima volta» rispose lui tra i denti mentre l’aria iniziava a vorticare attorno a lui; sollevò il braccio e, con uno scatto, direzionò lo Yoyo verso Cortes che, con inaspettata agilità, spalancò il mantello che si rivelò come un paio di ali mastodontiche che deviarono il flusso d’aria.
«Tu non puoi niente contro di me!» gridò lui ridendo come un pazzo mentre estraeva da chissà dove due lunghi e sottili pugnali ricurvi… come i denti di un serpente?
Presto Cortes fu su di lui ma Micazoyolin fu abbastanza rapido da evitare la pugnalata; una goccia di veleno stillava dalla punta bagnando il terreno e sfrigolando su un ciuffo di fili d’erba.
«Non puoi sfuggire alla presa della morte!» gridò lui rincorrendo la coccinella che, di contro, abbatté il suoi Yoyo sull’elmo di Cortes che però non accusò minimamente il colpo.
«Assurdo! Con questo coso ho ucciso migliaia di uomini!» disse lui tra se e se osservando il dischetto ammaccato.
«Io non sono un uomo! Sono superiore all’uomo» gridò lui mentre Micazoyolin comprendeva: era troppo veloce e potente da affrontare nell’immediato: doveva distrarlo.
«Dove hai trovato quei due Kwami?»
«Ah! È così che si chiamano? Li credevo semplici demoni… beh, erano in una foresta nell’entroterra di Cuba e li ho trovati accanto ai resti di un uomo morto da molto; probabilmente era il vecchio possessore» concluse ridendo mentre Micazoyolin capì a chi si riferiva…. Il vero Quetzalcoatl era morto quindi?
«Cosa vorresti fare? Uccidermi? Tu possiedi solo uno di questi oggetti mentre io sono in possesso di due… hai mai visto una coccinella uccidere un serpente e un pappagallo coalizzati?»
«No ma…»
«Taci e muori!» gridò Cortes e, con una velocità disumana, si gettò verso Micazoyolin perforandogli la spalla con entrambi i pugnali.
«Vivi da eroe! Muori da ignorato!» gridò lui lasciandolo cadere a terra mentre volava via con un batter d’ali. Micazoyolin spirò.
 
Quando si risvegliò era in un luogo completamente diverso: non riconosceva molti alberi o piante e il clima era più freso di quello a cui era abituato… piacevole dopotutto.
Camminò per alcuni minuti sull’erba fresca di rugiada che era letteralmente infestata da innumerevoli coccinelle e intanto si guardava attorno con stupore: era finito a Tlalaocan? Il paradiso dei sacrificati? Essere uccisi dal falso Quetzalcoatl contava come sacrificio?
Sentì una voce dietro di lui: «Credi di essere in una specie di paradiso degli eroi?»
«No: dei sacrificati… chi sei?»
«Dei sacrificati? I sacrificati possono considerarsi eroi se si sono sacrificati volontariamente… molti qui si sono sacrificati per i loro compagni, i loro amanti, la loro patria e il loro ideale… tu per cosa?»
«Sono stato ucciso da un dio»
«Ah… io sono morta bruciata… non è eclatante come la tua morte»
«Come bruciata? Cos’hai fatto?»
«Non andavo a genio alle persone e sono finita nel luogo sbagliato al momento sbagliato… mi hanno catturata, portata fuori dal mio paese e bruciata per stregoneria»
«Buffo… da noi gli stregoni sono ben visti: ci aiutano e ci proteggono»
«Da me no… da dove vieni?»
«Mexica»
«Cioè?»
«Tu invece?»
«Francia»
«Cioè?»
«Lasciamo perdere, mi sto stufando di parlarti a distanza… vuoi che mi avvicino io oppure tu?»
«A me non cambia nulla»
«Vengo io allora»
Da dietro un cespuglio uscì una ragazza dai capelli corti e dalla pelle bianchissima, indossava un’armatura rossa a pois neri e sopra una veste rossa con lo stesso design.
«Hai anche tu il miraculous della coccinella?» chiese lui stupefatto.
«Beh si… qui tutti manteniamo il nostro aspetto da kwamizzati ma se vogliamo possiamo passare agli abiti civili»
«Indossi un’armatura simile a quella del tizio che mi ha ucciso»
«Buffo… vieni che ti presento un po’ di gente. Per la cronaca: mi chiamo Jeanne d’Arc»
Si avviarono lungo un prato tagliato e, poco dopo Jeanne sollevò la mano facendo cenno ad alcuni individui seduti sotto un albero a chiacchierare.
«Venite!» gridò una voce femminile e Jeanne li raggiunse con passo deciso seguito da un incerto Micazoyolin.
«Benvenuto! Finalmente un altro maschio!» disse una voce profonda adombrata dalla chioma dell’albero.
Era un uomo all’apparenza molto vecchio visto la lunghezza della barba che presentava però una muscolatura invidiabile; il mantello era rosso a pois neri e il suo volto era decorato da ghirigori rossi e neri che sembravano tracciare una maschera attorno ai suoi occhi. Portava anche lui uno Yoyo legato alla spessa cintura e accanto a lui, appoggiata al tronco dell’albero, era presente una grossa clava.
«Mi chiamo Micazoyolin… voi come vi chiamate?»
«Ma dammi del tu! Mi sono stufato delle formalità già quindici anni prima della mia morte! Vuoi che abbia ancora voglia di avere gente attorno che mi tratta con reverenza! Siediti accanto a me ragazzo e raccontami come sei morto»
Micazoyolin lo fece e raccontò all’uomo e alle donne attorno a lui ciò che gli era successo: le altre donne erano anche loro molto simpatiche: c’era una ragazza dai capelli corti e con la frangia vestita in modo molto leggero e con un mantello trasparente; aveva molti gioielli e gli occhi circondati da strani ornamenti; diceva di chiamarsi Aset aggiungendo che però ora la gran parte della gente la conosceva come Iside.
Un’altra aveva una placca di metallo sulla fronte, come una sorta di mezzo elmo, e indossava abiti ricchi di pieghe e stretti da un cinto riccamente decorato; se ne stava con la schiena appoggiata ad uno scudo con dipinta l’effige della coccinella e si chiamava Ippolita. Accanto a lei una giovane dal corpo quasi completamente nudo e dipinto di rosso parlava con calma e regalità e spiegò a Micazoyolin di averlo riconosciuto subito: lei veniva da una regione che commerciava con gli Aztechi ancora prima che gli europei raggiungessero l’America e ricordava di essere stata a Tenochtliclan poco dopo la sua fondazione; lei si chiamava
Mudekudeku ed era l’eroina degli Himba, della Namibia.  
Un’altra ragazza sedeva accanto all’uomo che si chiamava Dagda e gli assomigliava molto: aveva capelli lunghi e scuri e portava lunghe vesti rosse e nere e giocherellava con la corda dello Yoyo che si divertiva ad avvolgere attorno all’elsa di una lunga spada e così continuò finché; quando l’intreccio si era fatto particolarmente complicato e Ippolita la avvertì con una lieve punta di sarcasmo: «Sai Brigida, se continui così sarà impossibile da utilizzare»
La giovane allora si mise subito a scioglierlo mentre la principessa delle amazzoni incrociava le braccia dietro la testa e si sdraiava: «Non cambierà mai… più vecchia di me ma anche più fissata con il ricamo»
«Anche a me piaceva annodare cose con la corda della mia arma» disse la voce di un individuo che, fino ad allora, Micazoyolin non aveva notato.
«Potevi farti vedere prima furfante! Vieni ad accogliere il nuovo arrivato: è un maschio!» gridò di risposta Brigid facendo cadere la spada accanto a sé.
Da dietro l’albero apparve un ragazzo più o meno dell’età di Micazoyolin ma dalla pelle decisamente più scura, dal fisico longilineo percorso per intero da complessissimi tatuaggi circolari rossi e neri; portava legata ai fianchi una specie di gonnellina di foglie lunghe e larghe tenute insieme da corde e tessuti (rossi a pois neri) e i suoi capelli neri e ricci erano raccolti in una crocchia che sovrastava un volto tondo e sornione in cui risaltavano due grandi occhi castani.
«Micazoyolin… lui è Maui, il nostro rompiscatole di quartiere»
«Piacere di conoscerti? Azteco? Si capisce dal nome»
«Intelligente… da quanto tempo sei qui?»
«Oh da tantissimo! Sono stato uno dei primi»
«Ah… cos’ha il tuoi Yoyo?»
«Chi ha detto che è uno Yoyo?»
«Ah… non lo è?»
«Beh no… la funzione è comunque la stessa: lo uso sia per pescare che per afferrare le cose al volo» rispose lui sciogliendo la corda che portava legata in vita rivelando che, al posto del piccolo Yoyo che tutti possedevano, maneggiava un gigantesco amo da pesca abbastanza robusto da pescare uno squalo di sei metri.
«Cavolo! E come mai è cambiato?»
«Esigenze di trama… è più funzionale»
«Ah»
«Da dove vengo io la pesca era tutto… e se non pescavi almeno un  pesce al giorno eri ritenuto meno di un semplice uomo… io da piccolo non sapevo pescare poi mi è apparsa Tikki e mi ha permesso di… diciamo… migliorare lo Yoyo»
«Che razza di…» stava per dire Jeanne quando fu interrotta dal pescatore: «Cos’è Martire? Tutti noi siamo disposti a inventare roba per facilitarci il lavoro no? Io con l’amo, tu con la doppia identità, il ragazzo qui con la questione del dio protettore! È tutto organizzato no?»
«Si Maui… si»
«In più ci terrei a dire: io sono stato tra i primi a raggiungere il paradiso di Tikki, ho vissuto quando dei vostri antenati non si parlava ancora e quando la scrittura non era ancora stata immaginata»
«Sei un eroe preistorico? Davvero? Giuro: sono qui da quasi trecento anni ma imparo sempre più roba» rise Jeanne per poi rivolgersi a Micazoyolin «Devi conoscere la prima: Huit’salamad’inna… ah eccola!»
«Sei tu Micazoyolin?» chiese una strana ragazza vestita di pellicce rosse e nere e armata di una lancia rozzamente intagliata da cui ricadeva lo Yoyo.
«Ehm… si»
«Vieni con me: ti vuole vedere»
«Chi?»
«La signora?»
«Chi?»
«Uff! Tikki idiota!»
«Ah… la signora? Seriamente? Un cosino piccolo così che si fa chiamare signora?»
«Non è “piccolo così” ora»
Micazoyolin si fece guidare dalla ragazza nel folto del bosco finché non raggiunse una grande fonte al cui centro sorgeva una piattaforma circolare rossa a pois neri… poi la piattaforma spalancò le ali e per poco Micazoyolin si prese un colpo.
«COSA! Dovreste chiamarla Mostro non Signora a questo punto! Qui è una coccinella gigante? Scherziamo?»
«Quella è solo la sua cavalcatura idiota!» rispose lei ringhiando e tirandogli un colpo in testa con la lancia e indicandole il punto in cui le elitre si aprivano, li, all’esatto centro, c’era un trono su cui era seduta una figura che tutto ricordava tranne Tikki.
Nel frattempo la coccinella si avvicinava alla riva e la figura si alzò dal trono e, con passo deciso e aggraziato, scese dalla strana cavalcatura e raggiunse i due giovani.
«Eccoti… iniziavo a temere che la tua anima si fosse bloccata da qualche parte… talvolta capita e devo intervenire per salvarla»
«T… Tikki?»
«Già»
Micazoyolin si dette due sberle e si stropicciò gli occhi per poi tornare a guardare la sua vecchia amica… era umana! O meglio: divina!
Una figura femminile ammantata da un alone rosastro e brillante, i dettagli della sua immagine erano abbastanza confusi e caratterizzati da un solo colore: il rosso vivo che risplendeva come quello di una stella morente… la sua figura era molto più che umana: il suo corpo era quello di una giovane non più che ventenne ammantata di veli trasparenti e dal corpo pressoché perfetto: i suoi capelli legati in due code, la sua pelle e i suoi abiti erano rossi mentre gli occhi brillavano di una luce azzurra; nella mano destra faceva oscillare con nonchalance lo Yoyo mentre nell’altra reggeva un corto scettro rosso circondato da filamenti di energia.
«Cosa… come è possibile? Tu sei questo?»
«Mi definiresti una dea Micazoyolin?»
«Forse di più…»
«Ti do ragione; non dovresti essere qui: sei morto troppo presto ed è il momento che tu torni in vita e ristabilisca la pace oppure muoia provandoci ma dando l’esempio e ispirando il cuore della tua gente. Vieni Micazoyolin e fatti sfiorare»
Il guerriero azteco camminò lentamente verso la dea coccinella mentre lei gli porgeva la mano e lo sfiorava sulla fronte imprimendogli un’energia che attingeva direttamente dal pozzo della vita. Si sentì rinvigorito e cadde a terra davanti a lei mormorando: «Vado… ci vediamo dopo»
 
Quando si fu risvegliato, Micazoyolin era in un posto che non conosceva: una caverna in mezzo al deserto e capì di trovarsi lontanissimo da casa.
Appena si fu alzato notò che qualcuno l’aveva nutrito, accudito e coperto durante le fredde notti.
Appena ebbe indossato gli orecchini Tikki gli apparve con la forma solita: testone sproporzionato e corpo minuscolo.
«Non sei più un essere divino?» chiese lui stupito.
«Lo sono sempre stato: il mio potere è limitato all’esterno del Miraculous… dentro mi paleso alla mia piena potenza»
«Ah… e ora dove siamo?»
«Boh»
«Non sei una dea?»
«Sono la dea della creazione! Non dell’onniscienza… se devi chiedere qualcosa del genere almeno chiedilo al Kwami giusto»
«Cioè?»
«Un tale di nome Jinn… vive in una lampada ed è ancora più vecchio di me»
«Come fa ad essere più vecchio di te se… insomma… tu hai creato tutto»
Lei rispose con una lieve punta di frustrazione: «Fermo! Attenzione! Io non ho creato nulla… o meglio, ho creato ciò che mi serviva… io sono la creazione non colei che crea… perché proprio adesso queste domande?»
«Boh Tikki! Non lo so! Forse perché siamo in mezzo ad un deserto e non so cosa fare in questo momento?»
«Forse tornare a dormire ti farebbe bene» rispose una voce che fece saltare letteralmente in aria il guerriero.
Dietro di lui un tale se ne stava appoggiato a un grosso cactus mentre si rigirava un pugnale bianco con la punta nera tra le mani.
«Chi diavolo sei?»
«Chi sei tu piuttosto che spunti nel mezzo del mio territorio mezzo morto!»
«Ma io neanche so come ci sono arrivato qui»
«E io allora cosa dovrei dirti? Che ti ci ho portato io? Non ci credo proprio»
«Mi hai accudito tu mentre ero in coma?»
«Si… avevi bisogno di riprenderti. Ora fuori di qui.»
«Ma. Io voglio sapere perché propri tu»
«Come proprio io? Sono solo un povero idiota che si trovava nei paraggi e, mentre inseguiva un corridore della strada sono inciampato nel tuo cadavere»
«Eh? Come hai fatto a non vedermi»
«La sabbia»
«Ah si… certo… la sabbia»
«il deserto non è mai uguale, cambia sempre e dove una mattina c’è una collina la sera dopo potrebbe esserci una valle»
«Già… come mai hai una pelliccia di coyote addosso»
«E tu come mai hai quei vestiti ridicoli? Ah si! Porti il kwami della coccinella: ovvio!»
«E tu porterai quello del coyote. Non ne ho mai sentito parlare»
«Oh si invece: urca se ne avrai sentito parlare»
«Mi spiace, non mi è giunta voce di un eroe coyote di recente»
«Wewecoyotl?»
«Ma quello è un dio… ed è vissuto cinquemila anni fa no?»
«Certo… continua a crederci»
«Sei tu?»
«Già»
«Il vecchio uomo coyote è vecchio quanto me?»
«No»
«Ma avrai al massimo tre anni in più di me, non di più»
«Beh, io non ho mai tolto il miraculous del coyote da quando l’ho messo la prima volta: questa roba da longevità lo sai?»
«Ah… e da quant’è che vai in giro scusa?»
«Ottomila anni o giù di li»
«E tu saresti l’unico portatore del Coyote da così tanto tempo?»
«Conosco ogni angolo del continente, ogni montagna e ogni valle, ho vagato quando i grandi elefanti lanosi con le zanne ricurve calpestavano questo suolo e ho parlato con i primi che giunsero in Nord America da Beringa… quando erano ancora barbuti come gli europei»
«Tu sei di quei tempi? Seriamente?»
«Già… ora, prima che tu te ne vada… vuoi sapere cosa ti aspetta? Un sacrificio inutile: morirai combattendo contro il dio serpente piumato e il tuo sacrificio sarà vano quanto lo è stato quello di Montezuma che ora sta morendo ucciso dal suo stesso popolo»
«Come lo sai?»
«Devi sviluppare i tuoi poteri e, più indossi il miraculous e più i tuoi poteri si sviluppano fino a raggiungere livelli di quasi onniscienza»
«Tu cosa puoi fare esattamente… oltre a vedere tutto»
«Volare, illusioni, super forza, muta forma, magia di sorta, indurre la follia… io sono colui che rappresenta la follia sacra: lo scemo del villaggio per dire!»
«Lo sciamano pazzo quindi?»
«Ehm… si credo»
«Insegnami a sviluppare i miei poteri oh grande Coyote»
«In cambio mi devi qualcosa, qualcosa di semplice… creami il più bel regalo immaginabile»
«E come?»
«Attingi al caos… l’hai mai fatto?»
«Credo di si: per evocare gli oggetti di cui mi servo per uscire dai guai in cui mi caccio»
«Fallo!»
Tra le mani di Micazoyolin apparve un flauto di canne e Coyote lo afferrò.
«Incredibile: è perfettamente conservato! Come diavolo…. Non importa, ora ho ritrovato il mio vecchissimo flauto. È il momento che tu apprenda»
Passarono alcuni mesi in cui Coyote insegnò il modo di sviscerare tutti i poteri del miraculous della coccinella: spiegò a Micazoyolin che, quando lui era ancora giovane, aveva collaborato con una squadra composta da tutti i portatori di Miraculous: apparteneva in origine alla prima popolazione che aveva ricevuto direttamente i sigilli dei Kwami ma ora di quel popolo non rimaneva altro che lui stesso; perciò sapeva così tante cose riguardo al Miraculous della coccinella: era sua sorella a portarlo, la stessa ragazza che aveva guidato l’Azteco al cospetto di Tikki.
Nel frattempo Micazoyolin stava facendo passi da gigante: non credeva che il miraculous che indossava da così tanti anni avesse così tanto potere potenziale: ora poteva letteralmente decidere cosa creare e non gli costava nemmeno troppa energia; poteva letteralmente evocare uno sciame di coccinelle luminose che era in grado di direzionare e con cui poteva eliminare i possibili danni causati durante uno scontro: poteva praticamente piegare la realtà al suo comando e non vedeva nessun altro modo per battere Cortes.
Il giorno dopo che egli imparò anche a modificare la forma dello Yoyo facendogli assumere prima quella di uno scudo, poi quella di una spada dentata e poi quella di un bastone arrivò davanti alla grotta una ragazza dai capelli neri con in testa un copricapo ricavato dalla testa di un giaguaro nero accompagnata da un kwami che somigliava a un piccolo felino – gli aztechi non conoscono ancora i gatti – che chiese di poter parlargli.
Micazoyolin era stupito di ciò: erano mesi che non vedeva qualcun altro che non fosse il vecchio Coyote e lei intanto iniziava a fargli domande a raffica: «Dove diavolo sei stato tutto questo tempo? Cos’è successo dopo che tu e Cortes siete spariti? Non hai mai pensato a noi? Cosa vuoi fare adesso? Seguirmi o restare qui? Perché non mi rispondi? Vuoi una richiesta scritta o una lettera di invito a rispondermi? Mi vuoi rispondere? Ti sei bloccato»
Fu in quel momento che Micazoyolin la riconobbe: «Mistontli»
«Bravo! mi hai riconosciuta! E allora? Vuoi venire o no?»
«Tu? La figlia di Montezuma in persona che viene qui a chiedermi di tornare a Tenochtliclan? Cos’è successo adesso? Gli spagnoli hanno…»
«…sterminato mezza città»
«Cosa?»
«E mio padre è morto»
«Ah… mi spiace»
«Non è vero: nemmeno a me se devo dirla tutta»
«Cavolo… figlia dell’anno»
«Padre del secolo! Vuoi venire o no?»
«Cosa vorresti fare?»
«Beh: prima di tutto ucciderli tutti, poi cercare di ricostruire Tenochtliclan… in qualche modo»
«E non puoi farlo da sola? Dopotutto è una sola città e tu hai un miraculous da quanto vedo. A proposito, da quanto è che ce l’hai?»
«Saranno alcuni giorni: si chiama Plagg ed è un gatto»
«Un che?»
«E io che ne so?»
«Appunto»
«Vieni?»
«No! Devo finire di sviluppare al meglio i miei poteri»
«Allora resto anche io qui: se lo fai anche tu vorrà dire ce lo farò anche io»
«Se proprio vuole signorina» rispose Coyote che intanto stava seguendo con distrazione la conversazione.
«E quel tizio chi è?»
«Coyote»
«Chi? Quel tizio li sarebbe un altro portatore? Ma per favore»
«Bada signorinella che io sono in giro da secoli e quindi dovresti portarmi rispetto! Per questa mancanza da oggi sei costretta a chiamarmi Wewecoyotl ogni volta che ti rivolgerai a me sostituendolo a Coyote o a qualsiasi altro modo per identificarmi!»
«Va bene signore»
«WEWECOYOTL PREGO!» gridò lui di risposta.
«Va vene Wewecoyotl»
«Brava… vuoi imparare a sviluppare il miraculous del gatto nero allora? Bene!»
Plagg si avvicinò al viso di Coyote e disse: «Ti riconosco: eri nella tribù ancor prima che venissimo rinchiusi… sbaglio o ho per sbaglio fatto fuori tuo padre?»
«Si, l’hai fatto»
«E ciò non ti provoca odio nei miei confronti?»
«Il tempo cancella anche l’odio… e pure mi ricordo ogni momento: venivi verso di noi anche se avevamo preso tempo il prima possibile fuggendo dal nostro accampamento; eri come un’onda di distruzione che si muoveva verso di noi devastando ogni cosa… gli animali che fuggivano, le piante che avvizzivano… l’odio nel tuo sguardo acido… la paura negli occhi dei miei fratelli e in quelli di mio padre che non si poteva muovere visto che proprio lui ti aveva provocato…»
«…Ora basta Coyote! È tutto passato… iniziamo questo gioco inutile»
«Va bene… sapevi ragazza mia che il tuo bastone può diventare una lancia? Lo vuoi imparare?»
Passarono alcune settimane e Mistontli imparava in modo rapido: il suo aspetto da kwamizzata era bellissimo, a detta di Micazoyolin risaltava le sue parti migliori: indossava una tunica nera con ricami verdastri sui bordi legata in vita da una cintura verde da cui pendeva una lunga fascia che le arrivava alle caviglie a cui erano legate attraverso gli intrecci dei sandali ciuffi di piume verdi e nere. Portava delle fasce di stoffa alle braccia e gli avambracci, così come le spalle, erano colorate di nero. Indossava in testa il suo solito copricapo di giaguaro nero da cui ricadevano piume lunghe e fluenti nere come la notte e con basi verde acido; infine portava una lunghissima treccia. Ora il suo bastone terminava con una larga e spessa punta di lancia dentata che, al solo tocco, distruggeva irrimediabilmente ogni cosa.
L’ultima lezione fu strana: tutto iniziò con Coyotel che introdusse il tutto dicendo:
«Micazoyolin, Mistontli: oggi sola teoria»
«Perché?»
«Non dovrete mai fare ciò che vi spiego?»
«E allora perché lo spieghi?»
«Per completezza… e perché, in extremis, vi aiuta»
«Cosa?»
«Ci arrivo: sapete che i vostri poteri si completano no? Tu Mistontli hai un potere prettamente negativo mentre tu, Micazoyolin, hai poteri di base positiva: se uniamo il tutto abbiamo una forza neutra e perfetta»
«Ok… va avanti» disse lei.
«Ora immaginatevi i vostri poteri come questo simbolo»
Prese un pezzo di carta e, con della pittura nera tracciò un simbolo a forma di goccia ritratta su se stessa e con della pittura bianca ne tracciò un altro che andava a completare un cerchio dopodiché, al centro della goccia nera pose una punta di pittura bianca e l’esatto opposto fece con l’altro.
«Che significa?» chiese Micazoyolin confuso.
«Beh: tu sei la goccia bianca che ha una punta di pittura nera, la tua amica qui è la goccia nera che ha una punta di pittura bianca: dentro i vostri poteri è presente una minima parte di potere opposto: tu puoi esercitare un “incantesimo” negativo e l’esatto opposto può fare lei: hanno comunque risvolti analoghi alla vostra natura»
«Cioè?» chiese Mistontli con un sorrisone che fece quasi spaventare i due tanto era eccitato.
«Allora: tu hai in possesso il “Rancore della Dea Rossa” e lui la “Piaga del Dio Nero”»
«Rancore della Dea Rossa? Vuoi dire che mi arrabbio e divento rossa?»
«Si: l’intenzione che porta alla nascita questa forza è generalmente positiva: sei portata a proteggere qualcuno – te stessa in certi casi – per sbloccarlo… lui invece deve provare un fortissimo sentimento negativo come odio o rancore: getterebbe una maledizione che porta eterna sfortuna sull’indicato al prezzo della morte del portatore: alla fine uccidere una coccinella porta sfortuna no?»
«Ah! E c’è un modo per evitare che ciò si verifichi?» chiese Micazoyolin.
«No… per Mistontli c’è la possibilità: devi bloccare la sua forza omicida ma il casino avviene quando lei è in stato di furia e tu stai maledicendo e morendo contemporaneamente»
«Come mai si chiama Maledizione del Dio Nero? Si riferisce a Tezcatlipoca? Dopotutto è come suo campione che sei stata chiamata dal popolo no?»
Prima che Mistontli rispondesse Coyote disse «No… a un altro dio… da quello che mi ha detto una volta Tikki il nome viene da un dio che verrà adorato in futuro, alla fine del mondo»
«Com’è possibile?»
«Boh… non lo so nemmeno io»
«Ora che facciamo?»
«Fuori di qui»
«Cosa?»
«E alla svelta! Sono stufo di avere due adolescenti in casa con i loro ormoni che mi appestano l’aria!»
«Ma che…»
«Via! Voglio un po’ di pace adesso! FUORI!»
«Va bene signor scorbutico»
«Mistontli! Cosa ti ho detto?»
«Nulla mio signore»
 
Gli uomini di Cortes stavano fuggendo da Tenochtlilan attraversando la strada rialzata principale ma Micazoyolin evocò una conchiglia e vi soffiò all’interno: tutti gli uomini che si erano appostati uscirono allo scoperto guidati da Mistontli e circondarono gli spagnoli sia a piedi che con navi da guerra da cui raggiunsero il ponte intrappolando i loro avversari in una tenaglia di navi che, man mano che si restringeva, restringeva anche le possibilità di sopravvivenza che spettava al popolo invasore.
Nel giro di poche ore furono pochissimi i superstiti di Cortes, incluso lo stesso, e questi furono costretti alla ritirata.
Micazoyolin fu applaudito e festeggiato e, quella sera, lui e Mistontli si baciarono per la prima volta suggellando il loro amore e la festa durò per ben tre giorni.
Il mattino dopo, quando i due portatori si svegliarono l’uno accanto all’altra, conclusero che era il caso di affrontare definitivamente Cortes, solo loro lui contro lui solo, così da fermare finalmente quell’insensata guerra e vivere finalmente in pace, crescere dei bambini magari e regnare su Tenochtliclan come nuovi imperatori.
Due settimane dopo Micazoyolin inviò il suo ara macao a Texcala, dove intanto gli spagnoli si erano stabiliti e da cui avevano iniziato a inviare continui drappelli di indigeni e conquistadores ad attaccare ad intervalli prolungati la capitale ma, fino ad ora, i due guerrieri erano riusciti a mantenere salva la regione difendendo il nuovo imperatore, un cugino di Montezuma.
Quando tornò l’ara macao portava con se una lettera che il giovane lesse senza alcuna difficoltà: il potere che aveva coltivato sotto la guida di Coyote ora lo rendeva in grado di capire qualsiasi lingua scritta e parlata.
 Cortes accettava di scontrarsi da solo contro i due paladini aztechi e li avrebbe combattuti sulla sponda settentrionale del lago Texcoco.
Micazoyolin si misero in cammino lasciando il controllo della situazione a Chalamaniqan e a Xenetotec e si incamminarono attraverso i sentieri godendosi la pace che si respirava nella foresta.
Dopo gironi di cammino e di aiuto reciproco raggiunsero il luogo pattuito e qui trovarono Cortes ad attenderli in groppa al suo cavallo.
«Combatti in modo paritario Cortes: in ogni caso il cavallo ti servirà poco… sbaglio o ti ho disarcionato con la lancia l’ultima volta?» lo avvertì Mistontli puntandogli la lancia.
«Sono un uomo d’onore» rispose lui scendendo da sella e attivando i due miraculous.
«E anche noi» risposero entrambi attivando i loro e preparandosi allo scontro.
Mistontli fu la prima a partire, veloce come una freccia volò verso il Serpente Piumato pronto a colpirlo con la lancia ma lui, con un movimento serpentino, la evitò facendola rotolare sull’erba.
«Vieni avanti coccinella!» gridò lui puntandogli il pugnale avvelenato.
«Non me lo faccio ripetere biscia d’acqua!» gridò lui facendo roteare lo yo-yo sulla sua testa che andò presto a cozzare contro l’elmo dello spagnolo.
«Banale… hai passato sei mesi lontano da casa e tutto quello che mi porti sono mosse riciclate dal nostro primo scontro?»
Lui rispose «No: osserva questo!» tirando i due dischetti che, allontanandosi, dettero vita a un bastone d’energia bianca che iniziò a usare come una lancia mentre si gettava verso Quetzalcoatl.
«Banale!» disse lui parando il colpo con il pugnale.
«Solo l’inizio!» gridò di risposta richiudendo il bastone e premendo tra loro i dischetti facendo comparire uno scudo energetico che usò per parare il colpo del pugnale.
«Sorprendente! Ma non abbastanza» gridò lui mentre, dietro di lui, Mistontli aveva attivato il cataclisma e lo stava abbattendo su un tronco appena dietro a Cortes che, al solo tocco, crollò fragorosamente al suolo colpendo di striscio Cortes.
«Indebolito eh?» chiese lei facendo ruotare la lancia pronta a colpirlo in un punto vitale. Cortes chiuse le ali sul suo corpo e il colpo finì a vuoto.
«Idiota! non puoi nulla contro di me!»
«Dei è impossibile fare fuori questo qui!» gridò la gatta verso Micazoyolin.
«Impossibile da uccidere dici? Osserva la cosa migliore che abbia mai fatto in vita mia!»
«Intendi…»
«Hai capito benissimo micetta: la Tempesta di Spade»
Cortes si voltò verso Micazoyolin con un espressione interrogativa: «Ehi tu! Cosa vuoi dire?»
«Vedrai… Quiyahatl Machuitl! La mia ultima invenzione!»
 
Mentre diceva queste sue ultime parole il cielo fu illuminato da innumerevoli luci abbaglianti e un numero imprecisato di spade iniziò a piovere addosso a Cortes che, con la rapidità datagli dai miraculous che portava, riuscì a schivare ma fu comunque ferito alle spalle dai denti di una di queste.
«Fuggi codardo! Ciascuna di queste spade è stata creata da me! Ho forgiato più di mille spade per questo!»
Cortes  continuò a correre come un pazzo attraverso la foresta mentre veniva inseguito dalla pioggia di spade.
«Ti prego! Fermati!»
«Vedila così: sono le spade di tutti gli aztechi di cui hai ordinato lo sterminio!»
Nel frattempo Mistontli lo inseguiva facendo salti altissimi aiutandosi con l’asta della lancia.
«Non sfuggirai alla furia della sfortuna!» gridava lei.
«Non temo la sorte! Mi è sempre stata favorevole!»
Micazoyolin intanto faceva roteare lo Yoyo la cui corda aveva subito una piccola modifica: ora lungo tutta la sua lunghezza erano disseminate spine lunghe come quelle di una rosa.
Si trovarono sulla cima di un crinale e, in quel punto favorevole, mentre Cortes dava l’idea di stare per arrendersi, Micazoyolin fu preso completamente alla sprovvista: il conquistadores si voltò di scatto e lanciò il pugnale che andò a trafiggere il guerriero coccinella nella milza.
«NOOOOO!» gridò Mistontli voltandosi di scatto e cercando di soccorrere il prima possibile Micazoyolin ma non riuscì ad afferrarlo prima che cadesse a terra esanime.
«Cos’hai fatto… hai tolto ciò che avevo di più caro, Ora subirai la mia ira!» aveva detto queste parole con calma e tranquillità ma, nella vibrazione della sua voce, Cortes percepiva una rabbia primordiale farsi strada e sconfiggere la calma.
«Tu non vedrai più la luce del sole! Vedrai solo me! La MORTE!» e detto ciò si scagliò verso di lui mentre i suoi lineamenti perdevano stabilità iniziando a vibrare come – oggi diremmo – un pessimo disegno in pixel art.
Mentre correva verso di lui la lancia si tingeva di un color rosso sangue partendo dalla punta e diffondendosi lungo tutta l’arma e coprendo anche la ragazza che, ora, sia per quanto riguardava il corpo che per quanto riguardava gli abiti, era diventata color sanguigno.
Cortes fu colto dal terrore più puro: al confronto della pioggia di spade questo era un’eruzione vulcanica.
Spiccò il volo con le possenti ali variopinte mentre, dietro di lui, un’ondata di distruzione era guidata dalla ragazza gatto che ora ricordava molto la dea egizia Sekhmet, che era temuta da uomini e dei per la sua distruttività ma che era in realtà Bastet, la gatta domestica.
Cortes fuggì verso nord il più possibile mentre dietro di lui quel demonio avanzava inesorabile travolgendo ogni cosa sul suo cammino: nulla sopravviveva e tutto deperiva, uomini e animali, piante e funghi… dietro di sé non cresceva nulla… terra bruciata, sale sui campi.
Ad un certo punto Mistontli fece un balzo immenso e saltò tra le ali di Cortes ma lui fu veloce e, con un  colpo di pugnale, la fece ricadere avvelenata prima che lei potesse strangolarlo.
La dove cadde Mistontli non si fermò: si rialzò e, seppur sanguinante, riuscì a correre per alcuni chilometri fino a raggiungere la costa settentrionale devastando tutto nel mentre ma, ormai stremata dalla forza, si accasciò a terra evocando un’ultima volta il Cataclisma più devastante che il mondo avesse conosciuto: fu spettacolare e terribile allo stesso tempo: creò letteralmente uno dei crateri più grandi mai esistiti – il cratere di  Chicxsulub – che, come ben sappiamo dalle sagge parole di Plagg, non causò la morte dei dinosauri visto che fu proprio lui ad andare in giro a fare esplodere rettili per divertirsi.
Fu l’ondata distruttiva più spettacolare che l’uomo poté vedere: abbastanza grande da distruggere ettari di foresta e deviare il corso dei fiumi. Nessuno sopravvisse.
Poco dopo che ebbe fatto ciò qualcuno le pose una mano sulla spalla «Mia amata» disse una voce a lei famigliare.
Si voltò: un ragazzo coperto di cenere quasi da sembrare europeo la guardava con un sorriso triste: le piume che una volta decoravano il suo capo erano annerite, i suoi occhi una volta bellissimi e fieri erano tristi e sconsolati. «Non è giusto che solo tu getti nel caos il popolo che ci invade»
Micazoyolin si alzò lentamente, affaticato dal dolore lancinante e dalla morte che era riuscito ad allontanare pur di raggiungerla.
«Io maledico il popolo che giungerà in questa terra: egli spodesterà gli antichi abitanti ma allo stesso tempo subirà la più cocente delle sconfitte: la perdita di ogni valore» e detto ciò stramazzò a terra morto mentre il suo corpo diventava sempre più scuro finendo per somigliare ad una statua di carbone.
Mistontli pianse lacrime rosse mentre abbracciava il corpo del bel guerriero mentre, anche la sua anima, si apprestava a raggiungere il paradiso dei guerrieri.
 
Il paradiso dei guerrieri che Mistontli raggiunse però non se lo immaginava così… strano.
Si ritrovò in mezzo a una foresta oscura abitata da innumerevoli gatti neri che venivano a farle le fusa. Un grosso giaguaro nero si avvicinò a lei e, sebbene inizialmente fu titubante nell’avvicinarsi, lei le pose una mano sul muso e lui parve molto rassicurato.
Gli saltò in groppa e si fece guidare dalla belva fino ad una zona in cui il bosco si diradava leggermente lasciando spazio ad una lunghissima tavolata in cui molte persone stavano parlando animatamente.
«Ehi vecchio gatto! Non chi avevi avvertito di un nuovo arrivo» gridò un tale vestito con una pesante armatura medievale «Aspetta un attimo… è una donna!»
Tutti si alzarono e, praticamente ognuno di loro, le andò incontro scortandola a uno dei posti vuoti.
«Buoni ragazzi buoni» gridò una voce famigliare dal fondo della tavola.
«Mi spieghi dove sono Plagg?»
«Oh: a casa mia! Vuoi del Camabert? Parmigiano? O la signorina preferisce dell’Emmental?»
«Tu vivi in un bosco?»
«Il bosco vive in me carina»
«Ah… e chi sono questi qui?»
«Dei polli: come te!»
Appena Mistontli si fu seduta guardò nella direzione della voce e poté finalmente vederlo: non era più il cosino con la testa sproporzionata a cui era abitata: ora era alto e bello, dalla carnagione nera come l’ebano, i capelli ancora più scuri e occhi grandi, brillanti e completamente verdi con la sottile pupilla nera al centro.
I suoi baffi ora erano lunghi un metro l’uno e la sua coda raggiungeva i tre metri di altezza tracciando un arco sopra di loro e pendendo all’altezza delle sue lunghe orecchie.
«Ma cosa… sei umano?»
«Tu sei umana: io sono un kwami… ti ho già fatto questo discorso no?»
«Ma non sei più così… tu»
«Lo capirai vedendo»
Mistontli guardò i due tizi a cui si era seduta accanto: alla sua destra c’era un ragazzo non più vecchio di lui con un bastone legato a tracolla che terminava con una lama squadrata, una coda folta e lunga ed indossava un abito che lui spiegò era legato al ruolo che aveva assunto in vita: un ninja. Il suo nome era Nekomata ed aveva preso parte ad un’antica guerra che si era svolta in un arcipelago chiamato Giappone e che aveva causato molti danni sia a livello naturale che umano; era specializzato nel marionettismo dei cadaveri.
Alla sua sinistra c’era un tizio vestito in modo regale: una lunga veste nera su cui aveva posto una toga rosso porpora con ricami neri; nella mano portava il bastone che, questa volta, aveva una torcia accesa sulla cima; indossava una corona di foglie d’oro nero e disse che il suo nome era Nero ma ora tutti lo conoscevano come Nerone, il distruttore di Roma.
Davanti a lei mangiava un altro tizio con una gran testa leonina calata sul capo e vestito con una pelle del medesimo animale; portava un’armatura nera e la sua pelle era così abbronzata da sembrare che avesse vissuto in un mondo in cui splendeva sempre il sole.
«Mi chiamo Eracle. Sono stato un grande eroe ai miei tempi? Tu invece ragazza?»
Lei rispose e si misero a parlare e si aggiunsero ai loro discorsi anche una donna vestita con una tunica pesante, una pelliccia appuntata con grossi anelli di bronzo e capelli biondo rame legati in larghe trecce; il suo nome era Freyja e veniva dal nord.
Nel frattempo due uomini, uno magro e longilineo dai capelli biondi come il sole e dallo sguardo astuto e un altro simile di corporatura ma vestito con un’armatura nera ricca di decorazioni verdi e indossante anche un elmo nero con orecchie aggiunte stavano facendo braccio di ferro e la tenzone si faceva davvero interessante: le due braccia tremavano simultaneamente e quella del biondo, che in parte era scoperta, riluceva di sudore mentre i muscoli risaltavano nella carne rosata e scalpitavano come cavalli.
Alla fine il tizio in armatura fu colto dalla stanchezza e cedette prima del biondo che, con sguardo esausto, mentre si asciugava il sudore dalla fronte, disse: «Bravo Achille… sempre vincitore morale vedo!»
«Lo puoi dire razza di barbaro!» disse lui sollevando un bicchiere ricolmo di vino.
«Ti voglio bene anche io Ellenico del cazzo!» rise l’altro brindando con il suo, ricolmo di whiskey.
Il vicino del biondo gli mise la mano sulla spalle e disse: «Ohi papà, non esagerare che poi ti si sloga di nuovo il braccio»
«Sono o non sono Lug dal lungo braccio eh? Nessuno può battere la forza che impiego nello scagliare la lancia o nel battere questo qui!» rise l’altro e trangugiò il whiskey mentre suo figlio, un uomo dai capelli lunghi e nerissimi con il corpo ricolmo di cicatrici e tatuaggi rideva di gusto asciugandosi le lacrime dagli occhi.
Alla fine Mistontli, quasi senza accorgersene, finì per trovarsi perfettamente a suo agio in quella gabbia di matti e il tutto finì in allegria, tarallucci e vino – letteralmente, alla tavola di Plagg puoi trovare sicuramente due cose: tutti i formaggi della storia e tutti gli alcolici del mondo – e quando gli fu chiesto per l’ennesima volta perché queste due cose lui rispose così: «L’alcol è distruttivo, il formaggio invece è una questione più complicata»
«Spiegala» lo spronò quella che, Mistontli aveva imparato, si chiamava Bastet ed era stata una di quelle che aveva imparato a padroneggiare il Rancore della Dea Rossa.
«Beh… diciamo che quando ti innamori di una ragazza che fa parte di una famiglia di allevatori nomadi ti viene naturale amare il formaggio, il latte, la panna e tutti gli alimenti che in genere si danno ai gatti affamati!» e detto ciò sollevò il suo bicchiere e propose un brindisi mentre tutti lo imitarono e iniziarono a cantare quelle fantastiche canzoni da bevute.
 
“C’è una locanda, una locanda, una vecchia locanda
Allegra sotto la collina grigia
E li fabbricavano una birra così scura che l’Uomo della Luna scese
Una notte per bere il suo bicchiere.
 
Lo stalliere ha un gatto ubriaco che suona un violino a cinque corde
Su e giù muoveva l’archetto
Ora un suono alto e stridulo,
ora basso come le fusa
ora uno nel mezzo
 
Ora il gatto con il suo violino suonò He Diddle,
una giga che avrebbe svegliato i morti
cigolò e suonò e accelerò la melodia
mentre il padrone scosse l’Uomo della Luna
“Sono le tre passate” lui disse.
 
Ora più veloce il violino suono Diddle Dum Diddle
Il cane iniziò a ringhiare
Le mucche ed i cavalli tirarono su la testa
Gli ospiti saltarono furi dai letti e danzarono
 
Il tondo Luna rotolò dietro la collina
Mentre Sole sporgeva la sua testa
Non credeva ai suoi occhi ardenti
All’improvviso era giorno
Tornarono tutti a letto!”
 
 
WEILLA!
Come va? Vi sono mancato? Spero di si altrimenti smetto di scrivere. No dai scherzavo: mi sono preso un po’ di tempo per capire bene come scrivere qualcosa di storicamente decente sulla società azteca; sapete è un’ambiente abbastanza lontano da noi e non ci ho mai avuto molto a che fare quindi mi sembrava doveroso approfondire… “miei Kwami! È una fa fiction” direte voi… ma io le cose le voglio scrivere bene e quindi le scrivo con roba etnica realistica.
Non dimenticate nulla mi raccomando: soprattutto il discorso di Coyote (personaggio che, piccolo spoiler, ricomparirà nella seconda serie) e fate i bravi.
 
Per cogliere meglio la citazione a Tolkien vi consiglio questo video, in particolare l’ultima canzone da cui ho tratto la traduzione un po’ raffazzonata… vi deve dare l’idea dell’atmosfera che regna nel miraculous del gatto nero:

 https://www.youtube.com/watch?v=iUKjJn0rOecn

Magari il tutto condito con gente che balla sui tavoli distruggendo le vivande come loro solito
Scusate eventuali errori di battitura ma questo non deve distrarvi troppo.
   
 
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