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Autore: Adeia Di Elferas    07/07/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quel 6 settembre la Porta Ticinese era battuta da un solo lattescente che conferiva al suo profilo un'aura quasi magica.

Gian Giacomo da Trivulzio era già passato di lì molte volte, nella sua vita, ma in quel momento gli sembrava di non aver mai visto una simile magnificenza.

Al suo fianco cavalcava Don Giuliano di Ligny e, appena dietro di lui, c'era Troilo de Rossi, formalmente alla guida dei duecento cavalieri francesi che facevano loro da scorta in quel trionfale ingresso in città.

Avevano aspettato di essere certi che il Moro fosse scappato e che la popolazione fosse insorta contro di lui, saccheggiando e devastando tutti i palazzi dei suoi cortigiani. Solo allora avevano osato provare a entrare in Milano, e, come previsto, non stavano trovando alcun intralcio.

Solo a un certo punto, appena dopo la Porta Ticinese, una delegazione di sedicenti guelfi andò loro incontro, ma senza armi, né stendardi. Volevano solo accompagnarli in quella trionfale cavalcata in mezzo alle vie della città.

“Quando arriverà il re di Francia?” chiese uno di questi guelfi, cercando di avvicinarsi un po' di più al Trivulzio.

Gian Giacomo sapeva che Luigi non si sarebbe visto finché non fosse stato sicuro oltre ogni ragionevole dubbio di poter far il suo ingresso senza rischio alcuno, perciò fare una stima della prudenza – o, meglio, a suo modo di vedere della codardia – del re era quasi impossibile.

“Presto – rispose, con un sorriso che voleva dire tutto e niente – presto, molto presto.”

Il guelfo parve soddisfatto e si mise a gridare motti di gioia, seguito da suoi e, in breve, da tutti quelli che si erano assiepati lungo la strada per salutare i 'liberatori'.

“Francia! Francia! Francia!” gridavano tutti e il Trivulzio, che a Milano era nato e che si sentiva ancora più milanese che qualsiasi altra cosa, vedeva in quell'urlo ritmico e assordante il segno più tangibile della catastrofe che era stato il governo di Ludovico Sforza.

Arrivati davanti al Duomo, il comandante decise di smontare da cavallo, per entrare un attimo in chiesa e ringraziare Dio del favore che aveva dimostrato a lui e ai suoi uomini.

“Isabella d'Aragona vive qui vicino, giusto?” chiese poi, mentre si immergeva nell'attonito silenzio della navata centrale.

Troilo, al suo fianco, annuì appena e sussurrò: “Così dicono.”

“Bene. Dobbiamo incontrarla, prima che arrivi il re.” fece il Trivulzio, a mo' di memorandum.

Il de Rossi si fece il segno della croce e, un po' rigido, chinò il capo, lo sguardo rivolto all'altare lontano e concordò: “Come richiesto da re Luigi.”

 

“Non è il caso di essere così nervosa...” disse Giovanni da Casale, finendo di allacciarsi il giustacuore leggero.

“Lo è invece. Eccome, se lo è!” ribatté Caterina, che, invece, stava litigando con le stringhe di una delle maniche del suo abito rosso, che si era allentata e non voleva tornare a posto: “Dannato laccio!”

“Lascia fare a me...” intervenne Pirovano, con una parvenza di pazienza, che, in realtà, cominciava a venire meno.

Era quasi mezzogiorno e nemmeno un'ora prima era giunta alla rocca una missiva che annunciava il pronto arrivo di Puccio Pucci per incontrare la Contessa. La donna si era attesa almeno qualche giorno di anticipo, per potersi preparare a mente fredda, e invece nel giro di poco i suoi osservatori avevano avvistato il piccolo corteo del fiorentino al limitare delle porte della città.

La Sforza aveva in programma, per quel giorno, un fitto confronto con Giovanni e con i suoi più fedeli Consiglieri, per decidere come muoversi con Venezia, e invece doveva occuparsi di quella questione odiosa.

A peggiorare la situazione, poi, quel mattino la Leonessa aveva avuto un pesante diverbio con il Governatore, che, a fronte di una decina di nuovi casi di peste, invece di offrirsi per occuparsi di persona di controllare l'isolamento e la gestione dei malati, aveva cominciato a millantare impegni dei più vari, finendo per far andare la sua signora su tutte le furie.

“Voi siete il Governatore di questa città!” gli aveva ricordato la Tigre: “Io sono qui a un passo dal chiudere le porte di Forlì, per arginare l'epidemia e voi mi venite a dire che non avete tempo per fare il vostro lavoro?!”

“Non posso prendermi la peste solo perché me lo ordinate voi!” aveva ribattuto lui, senza farsi problemi ad alzare la voce, benché fossero in un punto della rocca abbastanza trafficato: “Se voi siete così pazza da voler passare le vostre giornate in mezzo ai bubboni, fate pure! Io non rischio la vita per un motivo tanto stupido!”

“Attento a come parlate – l'aveva allora ripreso lei, cercando di abbassare i toni, ma senza smorzare la rabbia che faceva vibrare la sua voce – perché siete sotto il mio comando, e posso disporre di voi come meglio credo!”

“Non sono il vostro burattino! Non sono un altro Tommaso Feo!” aveva allora sbottato lui, e, approfittando dello stordimento che quell'esclamazione aveva indotto nella Sforza, se n'era andato.

Caterina avrebbe tanto voluto farlo arrestare e punire, ma non era il momento. Aveva appena pensato di andare dal castellano per chiedere un consiglio, quando le era stata recapitata la lettera di accompagnamento di Pucci.

“Io so che mio cognato l'ha fatto apposta.” disse la Contessa, mentre Giovanni da Casale, con le sue mani, normalmente abilissime nel adoperare le armi, ma così maldestre nel sistemare un abito da donna, cercavano di metterle a posto la manica: “Vuole cogliermi impreparata, spera di trovarmi in fallo. E invece io tratterò Pucci con gentilezza e cortesia... Maledetto vestito!”

Le ultime due parole erano scivolate fuori dalle sue labbra con tanta violenza che a Pirovano sarebbe venuto da ridere, se solo non fosse stato teso almeno quanto lei. Aveva capito benissimo cosa la sua donna si stava giocando e quindi non poteva restare calmo, per quanto lo volesse.

“Vai subito a chiamare Argentina. Anzi, vai a chiamare mia figlia.” ordinò di punto in bianco la Leonessa: “Lei è brava con ago e filo, me lo faccio sistemare da lei... E prendi tempo, se incontri il castellano o chi per lui. Digli che sono quasi pronta.”

Pucci l'attendeva al palazzo e la Sforza non voleva sembrare irrispettosa. In altri frangenti, non gliene sarebbe importato nulla, di far aspettare un ambasciatore, ma quello era un caso molto particolare.

“Perché non ti fai confezionare un abito nuovo?” chiese Pirovano, andando alla porta: “Questo è bello, ti sta bene, ma è distrutto...”

“Pensa agli affari tuoi!” gli abbaiò dietro lei e poi, per sfruttare quel momento morto, si mise a guardarsi allo specchio, cercando subito uno dei suoi unguenti nel cassetto, per mascherare come meglio poteva i segni di una notte insonne.

Bianca arrivò praticamente correndo, il necessario per rammendare stretto al petto. Si fece mostrare dove fosse il problema e poi, senza dover nemmeno chiedere alla madre di togliersi l'abito, le sistemò come meglio poteva la manica scucita.

La Contessa controllò il risultato con la coda dell'occhio e poi, rivolgendo uno sguardo di approvazione alla figlia, la ringraziò dicendo: “Alla fin fine le tue lezioni di ricamo sono servite davvero a qualcosa... Bada ai tuoi fratelli e impedisci a Bernardino di uscire da Ravaldino. Non voglio che Pucci si imbatta in lui mentre è con quella banda di esagitati che ha per amici...”

La Riario annuì, chiedendosi come avrebbe fatto a farsi ubbidire dal fratello minore che, quando voleva, sapeva sgusciare via da chiunque, perfino dalla loro madre.

“Allora! Sei pronto o no?!” chiese poi la Contessa, incapace di celare la propria agitazione, rivolgendosi a Pirovano.

Il giovane, che aveva appena finito di lisciarsi il giustacuore, alzò le mani e disse: “Sono pronto, che diamine! E poi perché devo esserci anche io?!”

“Perché devi farmi tacere, se ti accorgi che inizio a perdere il controllo.” spiegò la Tigre, perdendo un po' dell'aggressività di poco prima.

Mentre Giovanni si domandava come avrebbe potuto trattenerla davvero, dato che quando ci aveva provato lei non l'aveva mai ascoltato, la Leonessa si raccomandò un'ultima volta con Bianca e poi andò a passo di marcia verso il corridoio.

L'uomo la seguì subito, salutando a stento la figlia di lei con un cenno del capo e le filò dietro fino alle scale.

Bianca, rimasta sola, lanciò uno sguardo alla stanza della madre. Il letto era sfatto, sull'inginocchiatoio giaceva immota una vestaglia da notte, in terra erano state lasciate un paio di brachette da uomo, sulla scrivania c'erano ancora gli oggetti di Giovanni Medici, che si mescolavano a quelli della Tigre e a quelli di Pirovano.

La ragazza rimase per qualche istante a fissare le lenzuola arruffate, i cuscini appallottolati, da un lato cercando di immaginare quello poteva essere successo lì quella notte, e dall'altro sforzandosi di non pensarci. Era una cosa strana, una specie di nodo che si stringeva attorno al suo stomaco, dandole una lieve vertigine. Avrebbe voluto capire che cosa teneva uniti sua madre e quel milanese, ma si rendeva conto che per lei si trattava di qualcosa difficile da cogliere.

Deglutendo e dicendosi che non spettava a lei farsi quel genere di domande, recuperò i suoi ferri da ricamo, andò alla porta, se la chiuse con cura alle spalle e, con un sospirò, decise di mettersi alla ricerca di Bernardino, in modo da poter almeno provare a tener fede alla promessa fatta a sua madre.

 

Galeazzo Sanseverino ascoltava in silenzio, mentre gli riferivano quanto stava accadendo alle porte di Cremona.

Era arrivato lì, nel palazzo dei suoi parenti, i Ponzone, appena da qualche giorno, eppure sembrava che la guerra lo rincorresse.

Esattamente come gran parte delle persone che stavano seguendo il Moro nella sua fuga verso Innsbruck, anche lui, arrivato a Tirano, aveva disertato, abbandonando alla chetichella la colonna di milanesi. Aveva il preciso piano di nascondersi a Cremona fino alla fine della guerra, e rispuntare solo quando i giochi fossero stati chiari, ma evidentemente il fato aveva altro in programma per lui.

Quello che gli stavano dicendo era infatti gravissimo: Giampaolo Manfrone era penetrato nel cremonese, occupando Castelleone, mentre Bartolomeo d'Alviano, che aveva appena conquistato Soncino, era proprio lì, a Cremona, con centocinquanta armigeri e settanta balestrieri a cavallo, intento in quei momenti a trattare con il castellano Antonio Battaglia.

“Quindi capisci bene, parente mio...” gli disse piano il capofamiglia dei Ponzone: “Non posso rischiare di tenerti sotto il mio tetto...”

Galeazzo capiva benissimo e, a parti invertite, avrebbe fatto lo stesso. Malgrado ciò, un po' per via della paura, e un po' per la delusione, fece una smorfia molto significativa e andò veloce verso la porta del salone.

“Levo subito il disturbo – disse, già chiedendosi che fare, una volta fuori da quella casa – e spero per voi che, senza la mia scomoda presenza, i veneziani vi risparmino.”

Andò nel suo alloggio, preparò le valigie in modo caotico, e poi chiamò a sé il suo attendente, l'unico che l'avesse seguito fino a lì dopo la fuga da Tirano.

“Dove andiamo, mio signore?” chiese il giovane, seguendolo in strada.

“A Milano, ragazzo mio.” rispose Galeazzo, decidendo in un attimo quale sarebbe stato il suo destino: “A Milano a invocare la clemenza di re Luigi, sperando che gli servano, un buon braccio e una spada ben affilata.”

 

Quando Caterina e Pirovano arrivarono nel salone in cui Puccio Pucci era stato messo ad aspettare, il fiorentino non si accorse subito di loro, o, meglio, fece finta di non averli notati.

Pur sentendo, infatti, i loro passi alle sue spalle e intravedendo il riflesso delle loro figure nei vetri un po' opachi delle grosse finestre, rimase voltato ancora un po', dando loro le spalle, prendendosi il tempo necessario per cercare di capire chi fosse l'uomo alla destra della Tigre.

Non appena fu abbastanza sicuro che si trattasse di Giovanni da Casale, lo stesso milanese che quella donna aveva mandato poche settimane prima come ambasciatore a Firenze, allora Puccio si girò, simulando una grande sorpresa nel vedere la padrona di casa: “Contessa!” esclamò: “Non vi ho sentita arrivare...”

Ritrovarsi davanti il volto un po' smunto di Pucci ebbe uno strano effetto sulla Sforza. Se lo ricordava bene, anche se, negli anni, non aveva più ripensato a lui. Lo trovava invecchiato, ma la luce insinuante nei suoi occhi era sempre la stessa.

Voleva chiudere in fretta quell'incontro e voleva farlo nel modo più indolore possibile, perciò cercò di stirare un sorriso e ribatté: “Perdonatemi, se vi ho fatto attendere, ma avevo impegni molto importanti da portare a termine...”

“Capisco.” fece il messo fiorentino, i cui occhi erano subito corsi alla generosa scollatura dell'abito rosso della donna, senza, però, rimanervi sopra troppo a lungo: “Nel frattempo, ho avuto modo di capire, già da un breve passaggio in città, che avete in effetti adempiuto al primo punto dell'accordo con messer Medici.”

“Ho provveduto a divulgare la notizia che io e Giovanni Medici eravamo legalmente sposati senza problemi. Come detto al vostro signore, non avevo motivo di tenerlo nascosto.” disse con calma la Tigre, Pirovano al suo fianco, abbastanza vicino da poterlo quasi sfiorare.

Pucci guardò il milanese e poi la Leonessa e cercò di farla innervosire – perché questo gli era stato chiesto di fare, da Lorenzo – dicendo, candidamente: “Non mi presentate la vostra guardia?”

“Lui non è la mia guardia.” mise in chiaro la Contessa, ben immaginando che il fiorentino conoscesse già l'identità del suo amante: “Lui è Giovanni da Casale, Capitano della cittadella.”

“Un titolo molto importante.” commentò Puccio, con un inchino rigido rivolto al milanese.

L'inviato del Popolano ricordava ancora molto bene quando accanto alla Contessa c'era stato Giacomo Feo. Ricordava altrettanto bene i titoli con cui la donna l'aveva ricoperto e il modo altisonante in cui la Sforza aveva detto 'Capitano della cittadella' gli lasciava spazio per tutta una serie di interessanti parallelismi.

Guardando meglio il milanese, l'uomo si rese conto che le voci che lo volevano come amante favorito della Tigre erano più che plausibili. Giovane, ma molto virile, alto, dal bel viso e dal corpo più che prestante: non c'era da sorprendersi che una donna come la Leonessa se lo fosse scelto.

“Allora? Cominciamo?” chiese Caterina, indicando il piccolo plico di documenti che il fiorentino portava con sé: “Ditemi se ho qualcosa da firmare e poi vi autorizzerò a passare dal mio contabile per...”

“Prima di occuparci di questa questione – fece Puccio, scorgendo nella sua interlocutrice uno spiraglio per farle perdere un po' il controllo della situazione – non ho mai avuto l'occasione per farvi di persona le mie condoglianze per la perdita del Barone Feo.”

La Sforza sentì Pirovano irrigidirsi accanto a lei. Quello che doveva essere il suo punto fisso rischiava, nel sentir citare il grande amore di lei, di trasformarsi in un impiccio.

“Vi ringrazio, ma, come certo sapete, mi sono risposata e sono rimasta vedova un'altra volta. Da parte vostra, quindi, sarebbe stato più gentile farmi le condoglianze anche per la morte del mio terzo marito, o non farmene affatto.” ribatté la donna, fredda.

“Non volevo essere indelicato.” si scusò Pucci, con un sorriso a metà: “Solo... Il Barone io l'ho conosciuto...”

Nel dire ciò, lo sguardo del fiorentino cadde volutamente su Giovanni da Casale, quasi a lasciargli intendere che stesse facendo un confronto e che, purtroppo, il milanese ne stesse uscendo sconfitto.

“Ricordo che con il vostro Barone Feo – riprese Puccio, scegliendo con cura le parole – si andava d'accordo. Era un uomo aperto al dialogo e io stesso ho avuto modo di trattare personalmente con lui...”

“Lui – mise in chiaro la Contessa, indicando Pirovano – non è come Giacomo, quindi potete anche scordarvi di mettere in atto qualcuno dei vostri giochetti per raggirare me e favorire Firenze.”

Il messo sgranò gli occhi, fingendosi molto offeso e, con un ritardo notevole, Giovanni sfiorò il braccio della Tigre, per frenarne la lingua.

Anche se con un tempismo pessimo, il milanese aveva ricordato alla sua amante perché erano lì e come avevano deciso di gestire quell'incontro. Così la Leonessa si calmò, anche se solo all'apparenza.

Si scusò con il fiorentino, dicendo che non era più il caso di rivangare il passato e questi, pur dichiarandosi offeso per quello che era stato insinuato, le diede ragione ed estrasse dalla cartelletta il foglio in cui si riassumeva ciò che andava fatto nel corso di quel primo incontro.

“Avevamo pattuito rate molto più basse.” costatò Caterina, scorrendo la pagina, scritta fittamente da Aldrovandini, che aveva redatto e seguito personalmente quell'affare.

Pucci si finse stupito e lesse da sopra la spalla della Sforza la cifra indicata, borbottando: “Sono solo un messo, non conosco i termini dell'accordo... Ma se preferite, posso tornare a Firenze e chiedere che correggano il tutto...”

La tentazione di accettare era grande, e per qualche istante la Tigre accarezzò l'idea. Però sapeva che Lorenzo non gliela avrebbe fatta passare liscia. Era una trappola, una prova. Se avesse fatto ripartire Pucci, probabilmente il Medici avrebbe sfruttato quell'episodio per accusarla di non voler pagare e avrebbe ottenuto seduta stante l'affidamento di Giovannino. Non era affatto il caso di rischiare.

“No, non c'è problema...” fece allora la donna, facendo intanto mente locale per pensare a come racimolare fisicamente i soldi da consegnare al fiorentino: “Tra due ore potrete andare dal Governatore a ritirare l'intera cifra.”

Puccio nascose bene il suo disappunto. Non aveva mai creduto che quell'espediente avrebbe funzionato, perciò non era rimasto troppo deluso.

“Infine – soggiunse il messo, appena prima che l'incontro si concludesse, miracolosamente senza incidenti diplomatici – come potete leggere nell'ultimo punto, mi si chiede di controllare di persona che il bambino sia in salute e ben curato.”

“Va bene...” accettò subito la Leonessa, volendo togliersi il prima possibile da davanti gli occhi Pucci, prima di fare qualche scivolone proprio all'ultimo: “Lo farò portare qui e...”

“No, devo vedere le sue stanze e valutare l'idoneità della sua sistemazione.” precisò lui, rimettendo a posto i documenti e allargando un po' le spalle: “Per quanto io dubiti che una rocca piena di soldati sia un posto adatto a un bimbo così piccolo, basterà che la dimora rispetti i limiti di decenza imposti dall'accordo.”

Quella dicitura mise paura alla Sforza, perché poteva significare tutto e niente. L'unica cosa che le era chiara era che lei non doveva essere presente, o avrebbe finito per arrabbiarsi e rovinare tutto.

“Va bene.” accettò di nuovo: “Presentatevi alla rocca dopo aver ritirato i soldi.”

Puccio era rimasto un po' contraddetto dalla facilità con cui la donna aveva acconsentito, perciò, credendo che sotto quella remissività ci fosse chissà quale calcolo, si oppose: “No, vi seguirò alla rocca ora.”

Caterina stava per esplodere. Sentiva tutta una serie di improperi molto coloriti risalirle la gola e sfiorarle le labbra, ma Pirovano, quella volta, fu abbastanza abile nel leggere il colore livido del suo volto e, senza troppe cerimonie, parlò al suo posto.

“Come preferite – disse – la Contessa diceva così solo per darvi il tempo di riposare dopo il lungo viaggio che avete fatto.”

Pucci sollevò le sopracciglia, e, visto che la Tigre non ribatteva, né sembrava adirata con Giovanni da Casale per quell'intervento improvviso, non poté far altro che dire: “Vi ringrazio. Allora verrò con voi a Ravaldino.”

 

“Se non posso conquistare Cotignola e spazzare via quel maledetto Naldi – disse Pandolfo Malatesta, rivolgendosi al messo veneziano che si era appena presentato a colloquio da lui – mi spiegate che diamine ci faccio qui?”

Il palazzo di Piangipane in cui aveva preso temporanea dimore gli sembrava quasi una stamberga, rispetto al suo. Però, malgrado fosse indubbiamente più comodo di un padiglione, il ventiquattrenne anelava tornare al campo. Gli piaceva, la vita del soldato, e, trovandosi in difficoltà nel fare il signore delle sue terre, avrebbe preferito di gran lunga rimettersi l'armatura e scendere in battaglia, perché quello era l'unico momento in cui poteva dar sfogo alla propria natura senza essere additato come un mostro.

L'uomo del Doge allargò le braccia e, dopo un'occhiata di biasimo al calice di vino che il riminese continuava a farsi riempire, spiegò: “L'abbiamo già spiegato anche a messer Meleagro, che infatti è partito subito per Chioggia, comportandosi come un soldato leale, rispettando gli ordini... Sappiamo che potete contrastare e battere i forlivesi, ma gli accordi che Venezia ha preso con re Luigi sono chiari e Cotignola non deve diventare veneziana.”

Al Malatesta tutti quei sotterfugi sembravano non solo inutili, ma avvilenti. Era pagato per fare la guerra, per ammazzare i nemici e conquistare nuove terre. Che senso aveva, prendere uno stipendio e poi restare bloccato davanti a un ordine tanto stupido?

“Mi viene da chiedermi perché mai mi abbiate preso a condotta, a questo punto.” fece il signore di Rimini, vuotando ancora una volta il calice di vino, trovando nel calore che gli dava l'unica consolazione di quella calda giornata di settembre.

“Per Dio, lo sapete benissimo perché...” sbuffò il veneziano: “Se non vi avessimo mandato via da Rimini con questa scusa, Rimini si sarebbe ribellata e il Doge avrebbe perso un'alleata importante!”

Il Pandolfaccio storse le labbra sottili di lato e poi, già pensando a come avrebbe reagito sua moglie Violante nel vederlo tornare così presto a casa, decretò, senza possibilità d'appello: “Ebbene, se le cose stanno così, sappiate che io non sono il burattino di nessuno e che se la mia spada qui non serve, me ne torno a casa subito. Porgete le mie scuse al Doge e a tutti i veneziani, ma non mi piace, sentirmi inutile.”

“Vi avverto che il vostro comportamento non piacerà alla Serenissima.” mise in chiaro il messo, sentendo lo spiacevole sentore vinoso dell'alito di Pandolfo, mentre questi gli si avvicinava con fare minaccioso.

“E io vi avverto che a me non piace il comportamento della Serenissima.” fu la risposta del riminese, che, gettando il calice vuoto in terra, gridò ai suoi soldati che erano di guardia appena fuori dalla stanza: “Avanti! Prepararsi a partire! Si torna a Rimini!”

 

Erano quasi arrivati a Ravaldino, e la strada dal palazzo alla rocca alla Tigre non era mai parso così lungo. Puccio le stava accanto e Pirovano li seguiva a breve distanza, come se volesse rendere meno ingombrante la sua presenza.

“Quindi – stava dicendo lei, mentre attraversavano il ponte levatoio – vi sarei grata se poteste riferire le mie richieste... Una condotta per mio figlio Ottaviano sarebbe un saldo legame, tra il mio Stato e Firenze, ma non alle condizioni che mi hanno proposto...”

L'uomo affettò un sospiro e le fece presente: “Non sono qui in veste di ambasciatore, ma solo come mero esecutore di una sentenza...”

“Lo so, ma so anche che siete qui per conto di mio cognato Lorenzo, e Lorenzo è l'uomo più influente di Firenze.” ribatté la Contessa.

Puccio la fissò un istante, mentre si apprestavano a oltrepassare il portone d'ingresso di Ravaldino e si chiese che tipo di donna avesse davanti. Il Governatore della sua città più importante era fiorentino. Il suo amante era milanese. Il suo secondogenito, Cesare, era ormai un uomo di Chiesa e stava a Roma...

“Non posso assicurarvi nulla.” concluse Pucci, cercando, senza successo, di impedire ai suoi occhi di scendere una volta di più dai capelli bianchi, lunghi e sciolti che incorniciavano il volto della Tigre fino al suo seno generoso, messo in risalto dall'abito succinto.

“Andate a cercare mia figlia e ditele che ho un importante incarico da darle subito.” ordinò la Sforza, al Capitano Mongardini non appena questo, preoccupato nel vederla assieme a qualcuno che non viveva a Ravaldino, le si era avvicinato: “So che farete tutto quello che è in vostro potere, messer Pucci.” soggiunse la Leonessa, tornando al fiorentino.

Bianca arrivò nel giro di pochi minuti, da sola. Caterina si chiese di sfuggita dove fosse Bernardino, ma, a quel punto, sarebbe stato meglio se fosse stato fuori dalla rocca. Era un bambino sveglio, di bellissimo aspetto, ma era turbolento e la donna temeva che, per qualche motivo imponderabile, avrebbe finito per infastidire il messo del Popolano, creando qualche spiacevole inconveniente.

“Messer Pucci – spiegò la Contessa alla figlia, puntando gli occhi verdi in quelli blu della ragazza, sperando che capisse più di quel che poteva dirle apertamente – vuole vedere in che condizioni viva tuo fratello Giovannino, per essere certo che siano idonee a un bambino della sua età e del suo rango.”

La Riario annuì subito e, cominciando a sudare freddo, conscia dell'importanza di quell'ispezione improvvisa, disse: “Prego, messer Pucci, venite con me. Mio fratello, come sempre a quest'ora, sta riposando. Seguitemi.”

Mentre la giovane spariva al piano superiore con il fiorentino, che aveva già cominciato a far domande, la Tigre si permise di fare un lungo sospiro. La parte per lei più difficile era finita, e adesso poteva solo confidare in Bianca e al suo sangue freddo.

“Andrà tutto bene.” disse piano Pirovano, appoggiandole protettivo una mano sulla spalla.

La rocca a quell'ora pullulava di soldati e servidorame. Agli occhi della Tigre non c'era nulla di più bello di quel brulicare di vita. Le dava sicurezza e la faceva sentire pronta a tutto. Però si chiedeva se Puccio Pucci avrebbe avuto la medesima sensazione e se, in tutta coscienza, avrebbe valutato Ravaldino per quello che era: il posto più sicuro e vivo dove far crescere Giovannino.

“Ha visto il palazzo, ha visto che non è più abitabile...” disse tra sé, come a volersi convincere: “Si accorgerà che questo è l'unico posto in cui mio figlio possa crescere...”

Giovanni da Casale fece un suono gutturale per darle ragione e poi, vedendola troppo tesa, le suggerì: “Andiamo nella Sala della Guerra a parlare di quello che dovrò trattare con Venezia?”

La Sforza avrebbe voluto accettare. Le premeva molto, quella faccenda, ma non aveva la mente abbastanza libera.

“No. Io vado nello studiolo del castellano ad aspettare che abbiano finito. Tu fai pure quello che ti pare, anche se ritengo che dovresti andare alla cittadella. Ti ricordo che la voglio operativa al massimo entro un mese, e ci sono ancora tante cose da sistemare.” e poi, già allontanandosi, soggiunse: “Di Venezia ne parliamo stasera in camera.”

Pirovano non trovò il modo di ribattere. Avrebbe voluto dirle una volta di più che preferiva quando lasciavano fuori dalla loro camera da letto gli affari di Stato, ma capiva che in quel momento la Tigre era troppo nervosa per ascoltarlo. Avrebbe finito solo per farsi gridare addosso.

Con un sospiro pesante, l'uomo lanciò un'ultima occhiata alle scale che avevano inghiottito la sua amante, e poi si girò, dando loro le scale e tornando al portone, diretto al Paradiso.

'Dove preferiresti mille volte poter tornare con il tuo amato Giacomo – pensò tra sé il milanese, non senza un desolante senso di avvilimento – piuttosto che restare con me in questa rocca...'

 
 
   
 
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