Fanfic su artisti musicali > Placebo
Segui la storia  |       
Autore: Aslinn    26/07/2009    0 recensioni
Brian Molko non è da capire. O lo ami o lo odi. Ma a me è riservato un grande privilegio: accettarlo semplicemente. {Brian/Stefan, sul loro legame...non amicizia, non amore}
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Nuovo personaggio, Stefan Osdal, Steve Hewitt
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Pure morning Note:Salve gente! Sono ancora qui con una nuova FF, ebbene sì. Il titolo ha senso qui e non ne ha, non chiedetemi perché l'ho scelto, è meglio per la nostra sanità mentale ò.ò In alcuni punti sarà...emm...diciamo contorta. Spero che però alla fine tutto sia chiaro.
Attenzione: i Placebo appartengono solo a se stessi, io non ci guadagno nulla a scrivere ste cose se non un modo per uccidere la noia. Non voglio offenderer quei tre ragazzotti, e nessun altro. I caratteri sono inventati, supposti, e non corrispondono a quelli reali!
La trama non è nulla di che, ma un'occasione per approfondire i personaggi e il loro rapporto, per dare una mia spiegazione del particolare legame che tiene incollati Stefan e Brian. Beati entrambi!
Il titolo della FF è una canzone dei Placebo, come anche alcuni titoli di capitoli.
Commenti e/o critiche sempre ben accetti.
Buona lettura!

Capitolo 1: Pure Morning


Ci sono giorni in cui anche il più insignificante rumore diventa il sottofondo di uno sguardo sereno. In cui la luce è solo il veicolo di colori stupendi, che ti cullano gli occhi e l’animo. In cui ogni sensazione tattile è l’esplosione dei sensi.
E ci sono giorni in cui i rumori sono solo pugnalate nel cranio, frantumano ogni osso e ti ricordano che sei uno stronzo senza ragione, perché sei causa del tuo stesso dolore. Continui a farti male per sentirti sanguinare, perché non sai evitarlo. E’ divertirsi e pensare solo a quello, niente conseguenze, bene o male.
Quello era uno di questi giorni dannati. Le lenzuola mi scivolarono sul corpo in maniera odiosamente irritante, quasi strusciando producessero un rumore insopportabile che ronzi nei timpani e ti faccia prudere le orecchie e il cranio. La luce che filtrava dallo spicchio schiacciato di finestra mi bruciava gli occhi, costringendomi dopo attimi infiniti di semicoscienza a voltarmi. Non ero esattamente sveglio, forse non lo sarei stato per tutto il giorno, e mai mi sarei destato, né fisicamente né mentalmente, se nel voltarmi non avessi sentito qualcosa. Non solo la nausea causata dallo stomaco in subbuglio, non solo il trapano che mi passava da una tempia all’altra senza piacere, ma qualcosa di concreto più di tutto ciò: un corpo. Il caldo che emanava dall’epidermide in sudorazione passiva, l’odore della pelle e di ciò che tra le lenzuola c’era stato, e infine la prima sensazione che giungeva come ultima: il tatto.
Pelle pulita, pelle tiepida e morbida, pelle bianca.
Sentivo su un lato del corpo il calore del letto, sull’altro delle lenzuola….e di fronte a me c’era lui. Risalii dal petto che avevo per prima visto fino al collo sottile e poi i capelli spettinati e appiccicati alla fronte…e il viso. Dormiva rannicchiato, in posizione fetale, come sempre. Così piccolo, così indifeso, così dolce. E non era niente di tutto ciò. Lo sapevo bene, ma mi piaceva vivere nell’illusione che fosse un tenero cucciolo, fantasia alimentata da questi attimi. Gli occhi chiusi, le lunghe ciglia a sfiorare gli zigomi, la fronte liscia e rilassata, le morbide labbra languidamente schiuse in un respiro calmo e regolare, così naturale.
Quelle stesse labbra che si incurvavano in sorrisi ironici e arroganti, che fremevano di rabbia, che si atteggiavano a bronci bambineschi, infantili. Sbagliava: lui era un attore, e non ci credeva.
Temevo quasi nel svegliarlo, non volevo che quell’idillio d’osservazione terminasse. Ma la testa mi scoppiava e la nausea mi assaliva, insieme alla consapevolezza che se lui si trovava nel mio letto c’era solo un motivo, un’unica spiegazione. Ci ero ricascato.
Ricordavo convulsamente qualcosa, ma era confuso. Più che altro odori…e sapori.
Mi abbandonai al cuscino e sprofondando la mia testa fece rialzare la stoffa, nascondendomi parzialmente il suo viso. Mi sentivo a pezzi e l’aria di sogno cominciava a sfumare e a dissolversi per lasciar posto a un molto meno poetico nervosismo.
Guardai il bianco e improvvisamente mi balzò alla mente il “White Unicorn”, il locale dove ci saremmo dovuti esibire quella sera. E ci aspettava il soundcheck. Dovevamo muoverci.
Mi alzai e corsi in bagno per prepararmi. Mentre mi rialzavo dal lavello un improvviso senso di vertigine mi catturò la mente e mi chiuse lo stomaco. Mi gettai sulla tazza e vomitai nel cesso. Rimasi sospeso su quel buco bianco per qualche secondo, cercando di riprendere fiato e di reprimere i conati, malgrado sapessi che era meglio lasciarli sfogare.
“Brutta nottata?”
Mi voltai e vidi sull’uscio Brian, in slip neri, che mi guardava sorridendo malizioso. Non mi sembrava proprio il momento di scherzare, ma io e lui abbiamo sempre avuto diverse concezioni dell’opportunità di dire e fare certe cose in determinate situazioni.
Improvvisamente sentii schifo per me stesso, non volevo che mi vedesse così. Mi alzai e, accigliato, mi sciacquai il volto e la bocca nel lavello. Brian mi passò alle spalle e mi carezzò la schiena ancora nuda con le dita sottili. Sentii subito l’istinto di sottrarmi a quelle sue carezze fortuite. Non capiva quanto valessero, almeno così sembrava. Era sempre stato così. Si dimostrava amabile e affabile con tutti, dava carezze leggere ma sapienti, pacche sulle braccia, mani sulle ginocchia, sorrisi e sguardi. Ma sentiva veri solo il 10% d’essi. Ed entrava in contatto solo quando era lui a deciderlo. Ora ha affinato questo modo d’essere, risultando ancora più elegantemente gentile e affabile.
Ma non capivi mai cosa gli passasse in mente. Era volubile, ingannevole. Il giorno prima amava una persona, il giorno dopo giurava il suo disprezzo per essa.
Ma con me ero certo che fosse sempre stato il vero Brian. Quello che ti teneva sveglio per le sue chiacchiere difficili da seguire, soprattutto a tarda ora e dopo esibizioni o prestazioni varie, e quando ormai eri allo stremo e lui si era stancato chiedeva: ti sto annoiando, vero? Sempre con quel suo sorriso.
Ma lui era anche altro. Era quello che per un intero giorno non ti parlava, se ne stava solo a fumare o scrivere musica, e poi quando voleva si avvicinava a te e ti chiedeva coccole che non potevi negargli. Era arrogante, presuntuoso, sicurissimo della sua superiorità mentale, pronto a mortificare se stesso per sentirsi poi più forte, ma anche incredibilmente fragile, come un pupazzo di ghiaccio, lunatico. Sempre tra gli estremi: iperattivo o mollemente adagiato sulla vita, ilare o depresso, fiero o schifato da sé.
Ti usava e ti gettava via, ma non voleva ferirti, almeno così credevo. Lo faceva per sopravvivere. E da me era sempre tornato…ancora oggi mi chiedo se in realtà non fossi io a tornare da lui. Perché possiede quel qualcosa di magnetico così raro e terribilmente superbo.
Mi defilai dal bagno, mentre lui mi guardava con una finta faccia shoccata e poi subito dopo un broncio infantile, il suo broncio infantile.
“Stronzo!”
Chiusi la porta del bagno e lo sentii ridacchiare nel suo modo nasale e profondo, come se scavasse con le unghie per portare stremato a riva la sua felicità, o la creasse sul momento, quasi avesse una massa di creta da modellare a piacimento e tirarne fuori parole dolci e incoraggianti, sorrisi, occhi illuminati.
Un attore della vita.
E io cos’ero? Il suo costumista, quello da cui correva quando la sua maschera si stava sciogliendo nelle lacrime, corrodendolo dall’interno.
Ed ero pronto a raccogliere i suoi pianti e lavare via il suo trucco, per farlo tornare a sorridere in mezzo alla folla acclamante. Nessuno lo conosceva, forse neanche io. Ingurgitavo il suo dolore, pian piano mi corrodeva, ma stavo bene perché mi stava bene. Un compromesso per entrambi. Ingenuo! Non sapevo quanto male stavo facendo, ci stavamo procurando.

Il cellulare che squillava mi destò dal mio stato di catalessi, in piedi di fronte alla porta chiusa del bagno.
Risposi subito e automaticamente, forse avevo bisogno proprio di una chiamata che mi spronasse e distraesse.
“Sì?”
“Stef ma dove diamine siete finiti tu e quell’altro imbecille?”
Riconobbi subito la voce irosa di Steve, quando si arrabbiava era un carro armato. Anche per questo Brian lo usava come guardia personale, quando si ficcava in casini più grossi di lui, con quella dannatissima parlantina.
“Senti Steve…”
“No, non sento nulla, sbrigatevi che ho da fare, io!”
Chiuse la chiamata calcando per bene su quell’ “io”.
Era un tipo impaziente, ma anche fondamentalmente buono e limpido. Se urlava era sicuramente arrabbiato, se sorrideva era certamente felice o per lo meno sereno. L’opposto di Brian. Steve non sapeva fingere.
Gettai un po’ stizzito il cellulare sul materasso, tra le lenzuola attorcigliate e la coperta che ricadeva su un lato del letto.
Bussai con il pugno alla porta del bagno urlando a Brian di muoversi.
Mugugnò qualcosa in risposta, ma dovetti attendere dieci minuti prima che uscisse, nei quali mi ero già vestito, in modo semplice. Brian fece capolino dietro le mie spalle mettendosi in punta di piedi nell’invano tentativo di sbirciare cosa facessi con il cellulare. Stavo solo inviando un messaggio a Steve, per dirgli che stavamo arrivando. E sapevo che Brian non era davvero interessato alla cosa.
Mi voltai con rimprovero e lui mi sorrise come un bimbo.
“Che c’è?”
Lo squadrai, considerando che aveva cambiato solo i boxer.
“Devi muoverti, Brian. Steve ci aspetta.”
Sbuffò annoiato da quei rimproveri, non gli piaceva molto, ma sembrava trovare gusto a farmi arrabbiare. Fino a un certo limite, però. Poi la farsa gli diveniva troppo pesante e si chiudeva in un mutismo snervante. E se insistevi ti faceva capire con poche, precise e studiate parole che era ora di smetterla. Ecco l’arma che più usava per ferire: il silenzio.
Si diresse al mio armadio e cominciò a frugare tra i vestiti, mettendoli in disordine con precisione maniacale.
“Che fai?” chiesi contrariato.
“Qui ci deve essere qualcosa di mio….ah, ecco!” esordì estraendo dal caos che aveva creato in così breve tempo una t-shirt e un paio di jeans scuri. Sorrise soddisfatto mostrandomeli.
Roteai gli occhi e lui per risposta si spostò i capelli di lato in un gesto molto femminile e mi guardò reclinando appena il capo, con l’intento di intenerirmi in quella posa infantilmente sensuale. Era troppo. Presi le chiavi e mi diressi alla porta con il cellulare.
“Ti aspetto giù, muoviti.”
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Placebo / Vai alla pagina dell'autore: Aslinn