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Autore: Adeia Di Elferas    13/07/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Francesco Alidosi si rivoltò tra le lenzuola, trattenendo uno sbadiglio. Doveva essere ancora notte fonda, a giudicare dal buio che lo circondava.

Allungò una mano alla sua destra, ma nel letto accanto a lui non c'era nessuno. Assonnato, si stropicciò gli occhi e cercò di scrutare le ombre della stanza, in cerca di Giuliano.

Il Della Rovere, la vestaglia da notte addosso, era in piedi immobile vicino alla finestra e gli dava le spalle. Non era la prima volta che il suo amante lo trovava in quello stato. Era da qualche tempo che Giuliano sembrava non trovare pace, come se qualcosa gli rimordesse il fondo dell'anima e gli impedisse di riposare e ragionare con lucidità.

“Non riesci a dormire?” chiese Francesco, mettendosi a sedere e stiracchiandosi un po'.

La Francia, a quanto pareva, lo rendeva tanto sonnolento così come invece aveva trasformato il Della Rovere in uno spettro insonne.

Il Cardinale lanciò uno sguardo al suo segretario che, volutamente languido, aveva lasciato scivolare il lenzuolo quel tanto che bastava per mostrargli il suo petto ancora tonico e un accenno di fianchi magri e stretti.

Alidosi aveva quarantaquattro anni, dodici in meno di lui, ma quando stavano insieme, Giuliano aveva l'impressione di aver trovato quello che si poteva definire uno spirito affine. La differenza d'età e il rischio di essere scoperti e puniti per la loro relazione – ormai stabile e duratura – parevano sparire nel nulla, quando poteva ritagliarsi qualche momento di intimità con lui.

Da quando erano in Francia, poi, lontano dagli occhi e dalle orecchie dei pettegoli del Vaticano, erano riusciti a crearsi una loro realtà, una sorta di normalità che stava dando tanto a entrambi, ma che al Della Rovere cominciava a stare stretta. Non per colpa dell'amante, ma perché finché restava bloccato Oltralpe, non poteva lavorare al suo progetto di prendere un giorno il posto dell'odiato Rodrigo Borja.

Che boccone amaro aveva dovuto inghiottire quando, in cambio del suo favore, il papa gli aveva promesso – giusto per quel settembre – la carica a Vescovo di Savona... Si sentiva come un gatto costretto a scendere a patti con un topo.

“Continuo a pensare alle notizie che abbiamo sentito oggi...” borbottò l'uomo, tornando verso il letto e sedendosi sul materasso, gli occhi spersi e una mano che correva alla fronte, per cercare di spianare le rughe di preoccupazione che andavano via via facendosi più profonde.

Francesco sospirò. Sapeva quanto il suo amante avesse preso male la notizia ufficiosa secondo cui Charlotte d'Albret fosse forse incinta. Quel fatto, una volta che fosse stato confermato, avrebbe dato il via libera al papa di rendere effettivo il secondo punto del suo progetto. Milano era ormai data per spacciata, anzi, probabilmente era già stata occupata. Ora che il Duca di Valentinois era riuscito a mettere incinta la moglie, nulla impediva al Borja di farlo scendere in Italia, alla conquista del suo nuovo impero.

“Il papa non vivrà per sempre.” fece notare Alidosi, più per consolare l'altro, che non perché si aspettasse che il Santo Padre sarebbe morto a breve: “E quando morirà lui, suo figlio lo seguirà a breve.”

Giuliano lo guardò da sopra la spalla, sentendo la mano dell'amante massaggiargli lentamente la schiena, e così sospirò di rimando: “Lo spero.”

“Il re di Francia, quando Rodrigo Borja sarà morto – riprese Francesco, con un sospiro, avvicinandosi un po' di più al Cardinale, e baciandogli appena il collo – dovrà pur scegliere un nuovo favorito da mettere sul trono di Pietro...”

Il Della Rovere lasciò che l'altro continuasse a sfiorargli la pelle con le labbra, e poi, dicendosi che rompersi la testa tutte le notti con tutti quei se e quei ma aveva ben poco senso, preferì seguire il suo silenzioso invito e dedicarsi a lui.

Mentre sfiorava con la punta delle dita il suo naso importante, ma così attraente, e gli scompigliava i capelli castani, di norma pettinati in una zazzera ordinatissima, il Cardinale si chiese come fosse possibile che laddove tutti gli altri vedevano solo un segretario gretto, arrivista, e opportunista, lui riuscisse a scorgere solo un uomo intelligente, ambizioso e sagace.

“Hai ragione – gli sussurrò, cercandolo, nella semioscurità di quella notte, che li inghiottiva come una voragine silenziosa – prima o poi anche il papa morirà... E il re di Francia dovrà mettere me, sul trono di Pietro...”

 

“Avete ragione.” le aveva detto Pucci, mentre finalmente lasciava la rocca, apparentemente ben impressionato da quello che vi aveva trovato.

Caterina aveva notato come i suoi occhi si fossero puntati su Giovanni da Casale, che, malgrado fosse rimasto per circa un'ora al Paradiso, poi era tornato a Ravaldino quasi di corsa, impensierito da quello che la sua donna si sarebbe potuta lasciar scappare, nel salutare il fiorentino.

La Contessa aveva sorriso e aveva ribattuto: “Ve l'avevo detto che non c'è altro posto al mondo dove mio figlio Giovannino possa crescere bene, come in questa rocca.”

Puccio aveva fatto finta di essere del tutto d'accordo e poi si era fatto seguire fino al portone d'ingresso, lasciandole intendere di lasciare indietro Pirovano.

Un po' impensierita da quell'atteggiamento, la donna l'aveva comunque assecondato e solo quando l'uomo era stato in procinto di andarsene le aveva sussurrato all'orecchio: “Dicendovi che avevate ragione intendevo dire che lui – e indicò il milanese, rimasto a qualche metro di distanza, con un cenno del capo – non è come il Barone Feo.”

La Sforza aveva deglutito ed era stata sul punto di rispondere a tono, trovando quell'affermazione quanto meno fraintendibile, ma il fiorentino era stato più veloce di lei.

Alzando la voce, il messo del Popolano aveva esclamato: “Dunque, è stato un piacere conoscere il vostro figlio più piccolo, e poter discorrere con vostra figlia. Bellissima donna, veramente. Ha tutto il vostro fascino, ma, permettetemi di dirlo, sa essere molto meno aggressiva.”

Quella frecciata, inutile chiederselo, era rivolta in particolar modo al primo soggiorno di Pucci lì a Forlì, e la Leonessa l'aveva capito all'istante.

“Resterò in città ancora qualche giorno. Devo ritirare il denaro per conto di messer Medici, e devo accertarmi che la città sia un posto sicuro per il piccolo.” aveva concluso il fiorentino, con un sorriso infido: “Sapete consigliarmi una buona locanda per cenare stasera?”

Caterina aveva intuito che quello fosse un modo come un altro per farsi invitare direttamente alla rocca, ma aveva fatto finta di non capire e così, con tono casuale, gli aveva consigliato un paio di posti.

Era finito tutto in niente, con un saluto un po' rigido da parte di Puccio e un mezzo sospiro di sollievo da parte della Sforza, ma, malgrado ciò, la Tigre aveva passato il resto del giorno a ripensarci.

Anche in quel momento, mentre leggeva distrattamente una novella di Boccaccio, stesa a letto, in attesa che Pirovano arrivasse in stanza, non riusciva a togliersi dalla testa le parole e gli sguardi dell'inviato di suo cognato.

Non le piaceva averlo a Forlì, men che meno con la peste che continuava a lambire la città, arginata unicamente dalle sue precauzioni e dall'isolamento di tutti i casi riconosciuti.

In più aveva il timore che potesse succedere qualche episodio spiacevole che andasse a compromettere i rapporti tutto sommato buoni che era riuscita a ricreare con il fiorentino. In particolare aveva paura che Bernardino, per qualche motivo, si trovasse a combinare qualcuna delle sue marachelle proprio ai danni di Pucci, o, ancor peggio, che all'orecchio del messo giungesse la notizia che uno dei fratelli di Giovannino fosse, seppur ancora bambino, già avvezzo a infilarsi in tutte le risse che trovava nei bassifondi cittadini.

Così quella sera, prima di ritirarsi, l'aveva preso da parte e gli aveva intimato di starsene tranquillo, almeno per qualche giorno.

Il piccolo Feo aveva ricambiato lo sguardo, un po' perplesso e poi aveva promesso che sarebbe stato bravo e non avrebbe combinato disastri. Tuttavia, nel modo in cui poi era scappato via, la Contessa non sapeva se vedere semplicemente un comportamento a lui familiare, o un tentativo di iniziare fin da subito a disobbedire.

Quando la porta si aprì, Caterina stava ancora ripensando a Bernardino e al suo modo di fare sempre sfuggente, chiedendosi, con un filo di angoscia, quanta colpa potesse avere lei della turbolenza del figlio.

“Scusa se ho fatto tardi...” disse Giovanni da Casale, cavandosi in fretta il giustacuore e sedendosi sul letto per togliersi gli stivali.

“Com'è andata?” chiese la donna, mettendo da parte il libro e fissando la schiena del suo amante.

“C'è stata solo un po' di confusione, quando hanno saputo che Vincenzo Naldi è passato dalla parte del Doge.” spiegò il milanese, che era appena stato nei baraccamenti dei soldati per sistemare alcune questioni di ordine pratico a riguardo dei primi trasferimenti di truppe da Ravaldino alla cittadella: “Si fidano poco, a pensare che il fratello di Dionigi Naldi stia coi nemici.”

“Comprensibile. Ma il mondo è pieno di fratelli che parteggiano per parti opposte...” commentò piano la Sforza.

Pirovano non disse nulla, dandole tacitamente ragione, e poi, desideroso di togliersi di mente le animosità dei soldati che aveva dovuto calmare poco prima, le disse: “Allora, vuoi spiegarmi di preciso cosa dovrei fare con Venezia?”

La Leonessa che, dopo averlo atteso per un bel po', avrebbe volentieri differito quel genere di discorso in favore di qualcosa di meno impegnativo, sospirò e rispose: “Dovrai proporgli un'alleanza con noi.”

“Questo lo so.” fece l'uomo, voltandosi verso di lei: “Ma cosa devo chiedere in cambio della nostra amicizia?”

“Dovranno impedire ai francesi di invaderci.” sussurrò la Sforza, allungando una mano verso di lui, sfiorandogli il ventre piatto e scendendo appena: “Devono essere la nostra via sicura verso l'alleanza con re Luigi.”

“Non accetteranno mai.” scosse il capo Giovanni: “Equivarrebbe ad andare contro il papa... Lo dici tu stessa che il Borja vuole la Romagna, e che i francesi sono solo la sua propaggine...”

La Tigre sapeva benissimo che era così, ma quell'ultimo tentativo andava fatto. Milano era senza speranze. Firenze era brava a parole, ma non avrebbe concesso loro nemmeno un cannone, in caso di bisogno. Gli altri Signori di Romagna erano un'accozzaglia informe di mosche che si aggiravano attorno allo stesso pezzo di sterco, senza avere il coraggio di posarvisi sopra. Se non fosse riuscita a riavvicinarsi un minimo a Venezia, allora avrebbe dovuto definitivamente arrendersi, abbracciando la propria fine.

“Hai trovato qualcuno che possa fare da mediatore per noi?” indagò la donna, mentre le voce si faceva un po' più roca e il suo corpo si tendeva verso quello dell'amante, ben decisa a cercare la distrazione di cui tanto sentiva il bisogno.

Pirovano, le mani della Contessa addosso, decise e invadenti, ci mise qualche istante prima di registrare la domanda e dare la corretta risposta: “Girolamo Ludovisi. È un bolognese, ma è un uomo di cui mi fido, e ha una buona parlantina.”

“Molto bene.” concluse la Leonessa, facendo finalmente coricare il suo amante e dandogli un bacio sul collo, mentre finiva di spogliarlo: “Domani gli parleremo e poi partirà alla volta di Venezia.”

Giovanni da Casale annuì e poi, dimenticando la stanchezza di quella lunga giornata e l'incertezza che tingeva di scuro il futuro, lasciò la sua donna libera di sfogarsi con lui, senza pretendere nulla di più che servirla come meglio poteva.

In fondo, si disse, per un soldato efficiente come lui era molto più facile seguire gli ordini che provare a darne.

 

I francesi erano entrati da tre giorni a Milano, ma Gian Giacomo da Trivulzio non aveva ancora avuto modo di ordinare l'assedio del palazzo di Porta Giovia.

Prima di tutto, era sua intenzione cercare di mediare con il castellano, che aveva saputo essere un certo Bernardino da Corte. Ma, soprattutto, era stato frenato dalla necessità di rimettere ordine tra i suoi soldati.

Quando da San Francesco, Sant'Ambrogio e Santa Maria dell'Incoronata le sue truppe si erano riversate in città, Milano era stata travolta da un'orda che nulla aveva da invidiare ai peggiori barbari della storia antica.

Se il primo drappello, guidato da lui, aveva attraversato le vie milanesi senza incidenti, anzi, accompagnato dalle grida entusiaste di molti cittadini, il sopraggiungere dei soldati comuni era stato un autentico disastro.

Il Trivulzio, coadiuvato da Troilo de Rossi, aveva cercato di rimettere subito in riga i suoi, ma non era stato facile e, alla fine, pur controvoglia, era arrivato a prendere una decisione drastica ed esemplare.

“Mio signore, siamo quasi pronti.” gli fece sapere il suo attendente, mentre l'uomo osservava in silenzio la facciata del Duomo.

Non osava voltarsi. Sentiva il rumoreggiare dei presenti e poteva percepire la collera dei milanesi che, malgrado tutto, avevano osato accorrere per vedere quel macabro spettacolo.

Impiccare i colpevoli gli era parsa l'unica strada possibile, ma, adesso che il patibolo era stato montato e che tutti aspettavano un suo cenno per rendere la pena esecutiva, i dubbi cominciavano a divorarlo.

Era sicuro che i soldati – un insieme di fanti e cavalleggeri – catturati fossero colpevoli. Erano stati colti tutti quanti sul fatto, per di più quasi tutti visti o da lui stesso, o da Troilo o da qualcuno dei loro più stretti collaboratori.

Alcuni di quei francesi erano stati trovati intenti a rubare del pane e uno era stato visto mentre portava via una gallina, ma, la maggior parte dei condannati si era macchiata di un crimine ben più grave. Era qualcosa di inevitabile, forse, in quel tipo di guerra, ma quando Gian Giacomo aveva trovati i primi intenti a usare violenza alle donne che trovavano nelle case, aveva espanso la ricerca e aveva fatto prigionieri tutti i francesi che stavano prendendo con la forza le milanesi. E non erano pochi.

Don Giuliano di Ligny e l'Aubigny, informati del fatto, non si erano scomposti più di tanto, sottolineando come le donne fossero parte integrante della ricompensa dei loro soldati per quella guerra. Tuttavia, quando Gian Giacomo aveva reso loro noto che, come comandante generale delle truppe, aveva deciso di provvedere con durezza a quel comportamento per lui inaccettabile, né uno né l'altro si era opposto, forse pensando che lui conoscesse abbastanza bene i milanesi per capire come rendere meno disagevole la conquista definitiva della città.

Con un sospiro, il comandante disse all'attendente: “Arrivo.” e finalmente sollevò lo sguardo verso il patibolo.

In attesa, sotto alla scaletta che li avrebbe portati alla morte, c'erano parecchi soldati, legati mani e piedi per impedire loro la fuga, molti imbavagliati, per spegnere le loro grida di protesta, e alcuni ancora sanguinanti per le percosse ricevute durante la cattura.

Il Trivulzio salì lentamente sulla pedana e guardò la folla davanti a sé. C'era buona parte della truppa, e questo poteva essere un potenziale rischio, ma c'erano anche tanti milanesi, e questo era molto importante. Dovevano capire che i francesi erano gli invasori, ma che c'era lui, un uomo nato e cresciuto come loro in Lombardia, a guidarli e a punirli, quando necessario.

Quella doveva essere vista come un'invasione irreversibile, ma non catastrofica, o, alla fine, i milanesi sarebbero riusciti a organizzarsi per scacciarli.

Gian Giacomo fece un respiro molto profondo e poi, dopo aver incrociato lo sguardo del suo amico Troilo, in prima fila, pronto a tamponare un'eventuale rivolta dei loro uomini che, vedendo i propri compagni impiccati, avrebbe anche potuto cercare di ribellarsi, e fece un cenno al giustiziere affinché facesse salire i primi condannati.

Alla fine i corpi vennero accatastati ai piedi del patibolo e il Trivulzio decise di disinteressarsene.

Che la folla li facesse a pezzi, che qualche anima pia li seppellisse, che li lasciassero in piazza a marcire sotto al sole, per lui non era un problema.

“Cerca un modo per contattare il castellano del palazzo di Porta Giovia.” disse Gian Giacomo a Troilo, avvicinandoglisi una volta finito tutto: “Abbiamo già perso abbastanza uomini oggi, non possiamo permetterci un assedio sanguinoso.”

“Gli offriremo del denaro?” chiese il de Rossi, cercando di farsi un'idea del piano dell'amico.

Questi, asciugandosi la fronte dal sudore e dando uno sguardo al cielo milanese, che in quel giorno di settembre si stava lentamente annuvolando, ribatté: “Soldi, titoli, favori... Gli prometteremo quel che servirà, e poi sarà re Luigi a decidere cosa dargli, quando arriverà il momento.”

Troilo non disse nulla, si grattò la guancia coperta di barba rossiccia e poi, con un'ultima occhiata ai cadaveri che si erano accumulati ai piedi del patibolo convenne: “Questo esercito dovrà scendere fino a Napoli. Meglio ridurre le perdite inutili. Cercherò un punto di contatto con Bernardino da Corte.”

 

Caterina stava raggiungendo la sala dei banchetti a passo svelto. Aveva fame e aveva fretta di tornare alle sue occupazioni. Quel giorno erano attesi alla rocca dei nuovi soldati, alcuni non di Forlì, che avrebbe dovuto valutare e smistare poi, se idonei, tra Ravaldino, la cittadella o il Quartiere Militare.

Da Cotignola erano arrivate notizie incoraggianti e si diceva che Pandolfo Malatesta fosse tornato a Rimini per restarci, lasciando di fatto a Dionigi Naldi la possibilità di stabilizzare il dominio sforzesco in città.

La Sforza aveva comunque dato ordine di farlo rientrare non appena la situazione fosse apparsa tranquilla, perché le premeva moltissimo farlo castellano di Imola prima che i francesi marciassero contro di loro, di modo che potesse essere noto ai soldati e un po' avvezzo al nuovo ambiente.

Di contro, però, l'Oliva le aveva riferito proprio quella mattina di come sia i Bentivoglio di Bologna, sia gli Este di Ferrara sembrassero intenzionati a prostrarsi davanti al re di Francia per chiedere la sua protezione o, ancora meglio, il suo favore.

Quella notizia aveva fatto crescere in lei una profonda inquietudine. Sapeva che né Giovanni Bentivoglio né Ercole Este erano alleati particolarmente leali al Moro, ma vederli decisi a consegnarsi così facilmente a Luigi le stava mettendo una pulce nell'orecchio.

“Siete una donna estremamente colta, specie per essere tanto giovane.” stava dicendo Michele Marulli a Bianca, quando la Tigre arrivò nella sala dei banchetti.

Il bizantino, sempre molto ordinato e distinto, malgrado fosse lì in veste di uomo d'armi, era seduto a breve distanza dalla Riario e, da come entrambi sorridevano, la Sforza intuì che stessero discorrendo da un bel po', e di argomenti che interessavano molto entrambi.

“Mia signora.” la salutò lui, mentre la Contessa si metteva accanto alla figlia.

“Madre...” fece eco Bianca: “Messer Marulli e io stavamo discutendo delle opere di Ovidio.”

“Interessante.” commentò piano Caterina, versandosi un po' di vino: “Non voglio disturbarvi, continuate pure.”

Senza farselo ripetere, i due ripresero subito a confrontarsi su quella lettura che, era evidente, aveva infervorato entrambi. La Leonessa mangiava e intanto ascoltava e si compiaceva della cultura che sua figlia sapeva dimostrare senza però rendersi pesante o sembrare arrogante.

“Adesso devo proprio andare... Avevo promesso a mio fratello Giovannino di stare un po' con lui, e...” si scusò la Riario, quando sentì in lontananza le campane suonare l'ora.

Michele la congedò senza problemi, augurandosi ad alta voce di poter intrattenere presto una nuova conversazione letteraria con lei.

“Mi fa piacere vedere che avete trovato qualcuno con cui possiate parlare anche di cose come gli scritti di Ovidio – fece Caterina, rivolgendosi al bizantino, non appena Bianca se ne fu andata – mi rendo conto che per un uomo di cultura come voi non deve essere facile resistere in una rocca piena di soldati spesso analfabeti.”

L'uomo abbozzò un sorriso e prendendo un'altra cucchiaiata di minestrone ammise: “L'unica altra persona con cui mi piacerebbe discutere di poemi e poesie in questa rocca siete voi, ma so bene che siete troppo impegnata, per perdere tempo con me a questo modo.”

La voce di Marulli non tradiva né insofferenza, né ironia. Stava solo dicendo quel che pensava e la Tigre apprezzava molto chi si esprimeva in quel modo.

La sala dei banchetti era quasi vuota e la Sforza era certa che, tenendo bassi i toni, nessuno li avrebbe sentiti, così buttò lì un: “Siete sempre dell'idea di aiutarmi coi miei figli?”

L'altro appoggiò il cucchiaio al tavolo, prese il calice tra le dita e, sollevandolo appena, inclinò la testa di lato, una ciocca di capelli scuri che finiva sul viso: “Per la memoria del nostro Giovanni, questo e altro. La mia parola, data una volta è data per sempre.”

Rinfrancata da quella dichiarazione, sempre con un filo di voce, la donna cominciò allora a esporre alcune sue perplessità a Marulli che, ascoltando senza mai interromperla, di quando in quando annuiva o si faceva più serio, ravvicinando le folte sopracciglia, per poi chiudere un attimo gli occhi, come per aumentare la concentrazione.

“Avremo ancora modo di discuterne – concluse il bizantino, quando la Contessa non ebbe più altro da dire – ma quello che mi avete riferito mi sarà d'aiuto, nell'organizzare il tutto.”

“Quando i francesi arriveranno qui, non voglio che nessuno sospetti che i miei figli saranno in viaggio per Firenze – ribadì la Leonessa – dovranno capirlo solo quando saranno già al sicuro.”

Michele annuì di nuovo, trovando quella precisazione più che giusta, ma poi si affrettò a cambiare argomento, vedendo avvicinarsi il Capitano Mongardini, non sapendo ancora quanto ci si potesse fidare di lui: “Se volete leggere anche qualche brano di Virgilio, posso prestarvi uno dei miei libri...”

Caterina aveva capito quel cambio improvviso di discorso e, benché a Mongardini avrebbe affidato la sua stessa vita, trovava saggio, da parte di Marulli evitare di fargli sentire cose tanto delicate. In fondo, meno gente avesse saputo dei suoi progetti per il destino dei suoi figli, più loro sarebbero stati al sicuro.

“Perdonatemi, mia signora – fece il Capitano, chinandosi appena sul tavolo, mettendo in mostra i piccoli denti bianchi – volevo solo avvisarvi che i nuovi soldati che stiamo aspettando non arriveranno tutti oggi.”

“E come mai?” domandò lei, vuotando il bicchiere e mettendo da parte il piatto, ormai vuoto.

“Quelli che vengono da fuori, in particolare il gruppetto di cremonesi, hanno trovato dei problemi lungo la strada – spiegò Mongardini – e ci hanno mandato l'avviso che tarderanno di un giorno o due.”

La donna sbuffò. Aveva creduto di potersi liberare di quella noiosa incombenza tutta in una volta, e invece avrebbe dovuto pazientare di avere davanti a sé anche la seconda parte di reclute, per decidere del loro impiego.

“Grazie, potete andare.” concluse, dato che il Capitano era ancora lì in attesa: “E dite a Giovanni da Casale che sarò lì tra qualche minuto.”

L'uomo chinò appena il capo e se ne andò subito, così Michele trovò il modo di poter fare una domanda che lo tormentava da un po': “Mia signora, si questo milanese, Giovanni da Casale, possiamo fidarci davvero?”

Quella domanda, inattesa e posta con un'accoratezza che sorprese la Contessa, la mise un attimo in difficoltà, tuttavia non tardò a dare una risposta molto rapida e sicura: “Se non potessi fidarmi di lui, allora non potrei fidarmi più nemmeno di me stessa.”

Marulli, che aveva in progetto di fare una domanda analoga, ma avente come soggetto Luffo Numai, si rese conto che le parole della Tigre vibravano in modo strano e così preferì evitare e lasciare quel suo dubbio per un secondo momento.

“Se è così – le disse solo – allora me ne fido anche io, ciecamente.”

“Fate bene.” fece lei, lasciando il suo posto e facendo un sospiro, al pensiero delle lunghe ore che ancora la separavano dalla sera: “Anche il nostro caro piovano di Cascina si fida di lui. Di lui e di nessun altro.” mise in chiaro, ricordandosi ciò che Fortunati le aveva scritto solo poco tempo addietro.

'Non mostri le mie lettere altro che a Messer Ioanni da Casale' era stato il suo avvertimento, e tanto bastava alla Leonessa per capire che Francesco, a parte quel milanese che pure conosceva a stento, non riteneva nessun altro abitanti di Ravaldino veramente degno della propria fiducia.

Marulli sollevò una mano, come a dire che se anche Fortunati la pensava così, a lui non restava che accodarsi agli altri e riporre le sue speranze in quel giovane soldato di ventura che, per quello che in tanti chiamavano 'capriccio da ragazzo' aveva lasciato gli stipendi del Moro per mettersi al servizio della donna più discussa e temuta d'Italia.

 

Il cielo su Roma era terso, ma, dopo mesi e mesi di afa incredibile – tanto pressante da non avere quasi precedenti, nell'Urbe – si avvertiva un leggero calo delle temperature.

Forse era il settembre che iniziava a dare qualche avvisaglia della fine dell'estate, o forse era solo un caso fortunato, fatto restava che nel padiglione che Prospero Colonna aveva allestito appena fuori dalla città, si stava discretamente bene.

Era senza patire troppo il caldo, quindi, che il condottiero guardava il suo informatore con intensità, ma, al suo fianco, il suo attendente, che lo conosceva bene, sapeva che stava per scoppiare a ridere.

La notizia che era appena arrivata al suo orecchio era esattamente quella che sperava di sentire dal momento stesso in cui aveva lasciato il Regno di Napoli per risalire fino a Milano. O meglio, era la stessa notizia che il re di Napoli si augurava che lui avrebbe ricevuto ben prima di arrivare in Lombardia.

“E dunque il Moro è scappato.” disse Prospero, come a fare eco al messaggero.

Questi, un giovane allampanato che, per correre abbastanza in fretta dal Colonna aveva sudato come mai in vita sua, arrivando ad ammazzare quasi il cavallo, per quanto l'aveva spronato, annuì freneticamente e confermò: “Sì, è scappato, e poco dopo Gian Giacomo da Trivulzio è entrato in città e sta per dare l'assedio al palazzo degli Sforza.”

“E il re di Francia?” chiese il condottiero, mettendosi a lisciarsi il giubbetto, ragionando già su come organizzare il ritorno: “Lui quando arriverà a Milano?”

“Io... Questo non so dirlo...” fece l'informatore, un po' confuso da quella domanda inattesa.

Colonna aveva posto quel quesito per pura formalità. Non gli interessava sapere quando Luigi XII avrebbe fatto il suo ingresso trionfale in città. Come il re di Napoli gli aveva chiaramente ordinato, a lui spettava difendere Ludovico Sforza, finché fosse stato necessario, ma essendo Ludovico Sforza scappato...

“Ci sono notizie di Isabella d'Aragona?” chiese, poi, ricordandosi quel piccolo dettaglio.

In realtà re Federico si era dimostrato estremamente tiepido, all'idea di andare a salvare la povera Isabella. Certo, se fosse stato necessario andare davvero fino a Milano, già che gli aragonesi erano in battaglia, aveva detto che tanto valeva riportare a casa anche lei. Siccome, però, Prospero si sentiva pienamente giustificato e pronto ad abbandonare la campagna, non sussistendo più il motivo del suo ingresso in campo, Isabella non avrebbe ricevuto nessun aiuto da Napoli.

“Pare voglia restare a Milano per parlamentare con il re di Francia – rispose la staffetta, ben felice di avere qualche informazione interessante per il Colonna – e, nel frattempo, sembra che il Duca di Milano le abbia restituito il titolo di Duchessa di Bari, che le sarebbe spettato quando...”

“Va bene, va bene...” tagliò corto Prospero, già completamente assorto nella pianificazione della ripartenza e del pronto ritorno nel regno di Napoli: “Tanto so che Isabella d'Aragona è una di quelle donne capaci di cavarsela in ogni situazione. Gettatela in un vascone di pieno d'acqua e pescecani e lei riuscirà comunque ad arrivare dall'altro lato senza farsi mordere.”

L'attendente di Prospero non si sentiva del tutto d'accordo con quell'affermazione, avendo sentito raccontare la storia dell'Aragona più di una volta, alla corte di Napoli, ma, solo per abitudine, diede ragione al suo signore.

“Bene, se non avete altro da dire...” tagliò corto il Colonna e scacciò il messaggero con un gesto frettoloso della mano.

Più tardi, mentre i suoi soldati – pochi e macilenti – smontavano le tende da campo e si preparavano a invertire il senso di marcia, Prospero chiamò un attimo a sé il suo attendente, l'unico con cui, durante quella breve, ma lentissima ascesa verso il settentrione, avesse mai discusso di qualcosa che andasse oltre l'organizzazione delle truppe, e gli chiese: “Credete che quella donna se la caverà?”

Il soldato, pensando subito a Isabella d'Aragona, rispose: “L'avete detto voi, nemmeno i pescecani potrebbero aver ragione di lei.”

Colonna parve tentennare un momento e poi, dopo aver gonfiato e sgonfiato le guance su cui spiccava una barbetta molto ispida, altro segno della trascuratezza a cui si era lasciato andare nel corso di quell'inutile spedizione, sbuffò: “Ma sì, ma sì... Altro che la donna più sfortunata del mondo... Quella è sopravvissuta a quel diavolo di sua cugina Beatrice. Sopravvivrà anche al re di Francia.”

   
 
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