Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    14/07/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Da quando i pisani – in gran parte per colpa del disinteresse apparente del Vitelli – avevano rialzato la cresta, arrivando perfino ad assalire un paio di volte il campo fiorentino, Paolo si era messo a ragionare su come arginare i danni ed evitare che una vittoria moderatamente semplice si trasformasse in una catastrofe.

A peggiorare la situazione, era arrivata la malaria. Vitelli non credeva che si potesse stare tanto male per una febbre, eppure, dopo aver passato tre giorni a letto quasi privo di coscienza, doveva confermare che quella era di certo una delle malattie peggiori che potessero esistere.

Aveva fatto partire da Torre di Foce gran parte della sua artiglieria, deciso a spostarla a Livorno, per metterla in salvo, ma il mare s'era fatto grosso e avevano tergiversato, lasciando indietro alcuni tra i pezzi più importanti, per paura che qualcosa andasse storto.

Quella mattina il comandante fiorentino, però, aveva deciso che non si poteva più aspettare, perché i suoi esploratori gli avevano riferito che i pisani si stavano avvinando a Torre di Foce con il dichiarato intento di riconquistarla. Mare grosso o meno, le ultime bombarde e i dragonetti andavano imbarcati e messi al sicuro.

“E poi vedremo che capiterà...” sussurrò Paolo, la voce ancora debole e il giubbetto sulle spalle, quasi a mo' di drappo, per riscaldarsi un po', benché quel 12 settembre facesse ancora molto caldo.

Il capo dell'artiglieria, che era stato incaricato di curare di persona quell'operazione, era molto titubante. Non gli piaceva l'idea di affidare alcuni dei loro pezzi più pregiati e costosi a delle barchette che davano tutta l'idea di poter affondare al primo soffio di vento.

Tuttavia non stava a lui decidere e così, con un rigido inchino, ribatté: “Certo, mio signore. Faccio subito predisporre tutto.”

Rimasto solo nel suo padiglione, Vitelli diede qualche colpo di tosse. Si sentiva tutto rotto e avrebbe solo voluto tornare a casa, benché sapesse che a Firenze più di una persona l'attendeva solo ed esclusivamente per criticarlo.

Sospirò e si domandò cosa ci fosse di vero in quello che gli avevano riferito le sue spie giusto il giorno prima.

Siccome si fidava poco di Ranuccio da Marciano, che era al campo con lui, aveva cercato di capire meglio che aria tirasse alla Signoria. Con sua grande sorpresa, però, i suo informatori invece di tornare con qualche novità che lo riguardasse, lo avevano messo a parte del fatto che a Firenze l'argomento più toccato non fosse più la guerra in Pisa, ma la possibile formazione di una lega che avrebbe coinvolto il papa, la stessa Firenze e Venezia. Verosimilmente si sarebbe trattato di una lega filofrancese, ma ciò che aveva inquietato il Vitelli era stato un altro dettaglio.

A detta delle sue spie, lo scopo principale della lega sarebbe stato quello di isolare, colpire e distruggere la Tigre di Forlì.

A Paolo sfuggiva, in tutta sincerità, l'utilità di un simile sforzo bellico. La Sforza aveva un esercito che faceva invidia a tutti, per quanto era ben addestrato ed equipaggiato, ma da lì a vederla come un pericolo...

L'uomo si strinse un po' nelle spalle, qualche brivido dovuto alla febbre che ancora lo scuoteva, e si chiese se fosse lui a sottovalutare troppo la Leonessa perché donna, o se fossero tutti gli altri a sopravvalutarla solo per via del suo cognome.

Non riuscendo a concentrarsi abbastanza per giungere a una conclusione sensata, Vitelli accantonò quei pensieri e tornò a concentrarsi sulla propria situazione. Non appena fossero stati messi in salvo i pezzi d'artiglieria, si sarebbe occupato di organizzare il rientro in patria.

Anche la Signoria nutriva dei sospetti verso di lui, non aveva senso restare nel pisano ancora a lungo, dato che nessuno gli aveva dato ordine di mettere a sacco la città.

Sarebbe tornato a Firenze, avrebbe preso i soldi che ancora gli erano dovuti e poi se ne sarebbe stato tranquillo in campagna, a riprendersi da quell'odiosa malattia, magari pensando a un modo di guadagnare qualche soldo senza dover più combattere.

 

“Voglio sapere quando se ne andrà.” ribadì Caterina, rivolgendosi al castellano.

Era stato proprio Cesare Feo a farle presente che Pucci era ancora in città e che non accennava a ripartire. Di per sé, non si trattava di una notizia drammatica e la Sforza avrebbe anche tollerato la presenza di un uomo come quel fiorentino a Forlì, seppur in un momento tanto delicato.

Il vero problema era che più il tempo passava, più la donna trovava difficile evitare che il messo di Lorenzo potesse vedere o sentire qualcosa che la mettesse in cattiva luce, andando a complicare la sua situazione.

L'ispezione alla rocca era stata fatta e i soldi dovuti erano stati versati senza problemi – anche se, per farlo, la Contessa aveva dovuto mettere mano anche al denaro che teneva da parte per far fronte alle emergenze – ed era quindi difficile capire che cosa di preciso tenesse ancora il fiorentino in città.

“Possiamo mandare uno dei miei uomini alla sua locanda e cercare di avvicinarlo, per capire che intenzioni ha...” propose l'Oliva, con un'alzatina di spalle: “Non mi è parso molto accorto, l'ultima volta che l'ho incrociato... Magari dopo qualche bicchiere, dirà più di quel che deve.”

Caterina era tentata di accettare, ma Puccio le sembrava troppo subdolo per non accorgersi di un simile raggiro. Era meglio evitare motivi di attrito che avrebbero portato a un incidente diplomatico per lei irreparabile.

“No, non voglio che si accorga della mia voglia di levarmelo di torno.” spiegò, massaggiandosi la fronte.

Lo studiolo del castellano era tiepido, come chiuso in una bolla. Il cielo, fuori dalla finestra, era grigio, ma difficilmente avrebbe portato pioggia. L'afa era un po' calata, ma la siccità sembrava irrimediabile. I campi stavano dando pochissimi frutti e gli animali faticavano a sopravvivere. I capi di bestiame che arrivavano al macello era magri e la carne, sempre più scarsa, toccava dei prezzi folli.

La Sforza sapeva di essere una privilegiata, avendo una riserva di caccia utile a rifornire di arrosti e stufati la sua rocca e gli stomaci dei suoi soldati, ma a lungo andare anche gli animali selvatici iniziavano a farsi più difficili da trovare e, se il clima non fosse migliorato in fretta, sarebbe stato difficile dar da mangiare all'esercito.

La popolazione poteva anche arrangiarsi con un po' di pasta e verdure – che pure erano meno abbondanti del solito – ma chi impugnava la spada doveva avere i muscoli forti e non poteva patire la fame.

“Mia signora...” Cesare Feo, vedendo la Contessa molto corrucciata, era indeciso se parlare o meno, ma trovava giusto metterla a parte di un episodio che di certo l'avrebbe allarmata.

“Che c'è?” chiese subito lei, andandosi a sedere sulla poltrona che un tempo era stata di suo marito Giacomo.

Mentre la donna si metteva a giocherellare assorta con il nodo nuziale che le ricordava il suo terzo matrimonio, il castellano spiegò: “Ieri sera, s'era fatto già buio e Bernardino non era alla rocca.” si prese un istante, notando come il viso della Leonessa fosse rimasto inespressivo, ma come, invece, i suoi occhi avessero avuto un breve guizzo: “Così ho mandato qualcuno a cercarlo, ed era non lontano da dove alloggia Pucci, a fare a botte con altri ragazzini che...”

“Dov'è adesso?” chiese subito la Tigre, che, da che si era svegliata, non aveva fatto in tempo a vedere nessuno dei suoi figli, tranne Sforzino che, per caso, l'aveva incrociata in corridoio mentre andava dal suo precettore per la lezione di latino.

Cesare sospirò e rispose: “Credo che sia giù dalla servitù, ma non ne sono sicuro...”

Sentendo ciò, la Contessa decise subito di fare quanto necessario. Pucci era per lei come un moscone insopportabile e impossibile da scacciare, dunque l'unica soluzione che le sembrava efficace per impedirgli di posarsi sulle cose che amava, era tenere suddette cose vicine.

Finché il fiorentino non se ne fosse tornato a casa, avrebbe tenuto il suo penultimogenito con lei, per impedirgli di mettersi negativamente in mostra.

“Mia signora, tra un'ora vi aspettano per parlare di quella faccenda...” provò a ricordarle l'Oliva, che, tramite le sue reti di conoscenze, era venuto a sapere della possibilità di una lega antisforzesca messa in piedi dal papa, da Venezia e da Firenze.

Caterina si era arrabbiata non poco nel sentirne parlare, ma con l'ambasceria che stava per fare proprio al Doge, non se la sentiva di prendere una posizione dura contro la nuova lega che forse stava per nascere. Per quanto apparentemente antisforzesca, forse lei sarebbe riuscita a non rientrare tra i suoi obiettivi.

Aveva un ottimo esercito – anche le reclute appena arrivate le erano parse molto valide, e aspettava che si presentassero i cremonesi che avevano deciso di arruolarsi con lei – e, bene o male, tutti la conoscevano anche come una brava stratega. Alla lega avrebbe fatto comodo. Non potevano sprecare l'occasione di averla tra i loro...

“Prima vado a recuperare mio figlio. Poi arriverò alla riunione.” disse, quasi a farsi uno schema mentale.

Sia il castellano, sia l'Oliva non dissero nulla, lasciandola uscire, e così la donna andò con passo spedito prima nelle cucine – trovandovi solo Bianca che, immersa nelle chiacchiere, stava aiutando le sguattere a pulire le verdure – e poi negli alloggi della servitù, dove finalmente trovò Bernardino.

Il ragazzino, intento a litigare con un paio di bambini dei domestici, quando vide la madre cercò immediatamente la fuga, ma, una volta tanto, la Tigre fu abbastanza veloce da prenderlo al volo per la collottola, frenando la sua fuga: “Adesso tu vieni con me.” gli disse, senza aggiungere altro.

Il piccolo Feo temeva una punizione, ma non poteva divincolarsi più di tanto. Così, trattenendo a stento qualche protesta, seguì la madre, sorprendendosi, però, nell'accorgersi che lo stava portando verso la stanza di Giovannino.

“Voglio passare un po' di tempo con te.” spiegò con voce ruvida la Sforza: “E voglio che tu faccia il bravo. Mi hanno detto che ieri sera ti stavi azzuffando con dei ragazzini della tua età vicino all'alloggio di Puccio Pucci anche se ti avevo già detto che dovevi startene tranquillo...”

Bernardino abbassò lo sguardo e, mentre la madre apriva la porta, borbottò: “Mi avevano provocato...”

La Leonessa finse di non aver nemmeno sentito e, mandata via la balia, andò al lettuccio di Giovannino, lo prese in braccio e poi ordinò al Feo di seguirla. Andarono alla sala delle letture e, sistemato un figlio accanto all'altro, la donna prese un libro e si mise a leggere ad alta voce.

Forse non era il modo migliore di passare del tempo con loro, ma a quel modo li aveva sott'occhio ed era certa che Bernardino non si cacciasse nei guai.

“Quando suonerà l'ora – disse a un certo punto – andremo al Consiglio di Guerra.”

“Anche io?” domandò il figlio più grande, sconcertato da quella prospettiva, dato che non era mai stato nemmeno lontanamente preso in considerazione per quel genere di impegni.

“Anche tu.” rispose secca la donna e, senza altro aggiungere, riprese a leggere.

 

Bernardino da Corte, un nodo alla gola che gli rendeva quasi impossibile respirare, continuava ad ascoltare il portavoce dei francesi senza staccargli gli occhi di dosso.

Non avrebbe voluto accettare. Era un uomo d'onore, ma che poteva fare? Il Moro l'aveva lasciato lì da solo, con appena un manipolo di uomini, quasi senza armi e senza la benché minima promesso di mandargli rinforzi o di tornare con un esercito imperiale a riprendersi Milano.

Che altro poteva fare, se non cercare almeno di salvarsi la pelle?

“Ma io me ne andrei solo all'arrivo di re Luigi...” tenne a precisare, con un filo di voce, appena udibile.

L'altro, che era stato istruito a dovere dal Trivulzio su come condurre quella trattativa, fece segno di sì e sottolineò: “Nessuno vi taccerà di codardia. Sarete solo un castellano zelante e preoccupato per i suoi uomini che, vedendosi accerchiato da un esercito immenso come quello che porterà il nostro re, non ha potuto far altro che deporre le armi e mettere in salvo i suoi.”

Messa giù così, a Bernardino sembrava una cosa quasi accettabile. Per prendere tempo, si passò una mano sulla nuca, fradicia di sudore, e poi picchiettò appena sulla scrivania, fingendosi intento a ragionare.

In realtà la sua mente era così vuota che si sarebbe potuto sentire perfino il rimbombo delle parole del francese, quando gli chiese: “Allora, cosa mi dite?”

Con la bocca secca, gli occhi che saettavano di continuo al portavoce seduto dinnanzi a lui e alle guardie che, vicino alla porta, aspettavano come sempre ordini, il castellano domandò: “Potete ripetermi ancora una volta cosa ci guadagnerei, a fare come dite? A parte l'onore delle armi, intendo.”

L'inviato del Trivulzio, che era lì da quasi tre ore, trattenne un sospiro di disappunto per quella che vedeva come una perdita di tempo, ma poi elencò, con un sorriso convincente stampato sulle sottili labbra: “Innanzi tutti, abbiamo detto, una pensione a vita di diecimila lire. Poi prenderete il posto della buon'anima di Jean de Baudricourt, come Maresciallo di Francia. Vi sarà dato il feudo di Castelnuovo Scrivia...”

Nel sentir citare quel feudo, fino a pochi giorni prima ancora formalmente proprietà di Galeazzo Sanseverino, Bernardino da Corte ebbe un fremito. Come avrebbero potuto non considerarlo un traditore, se l'avessero visto insediarsi lì?

“Inoltre – riprese l'inviato francese – al re servirà sicuramente un uomo di fiducia per reggere Vigevano, e le sue dipendenze, quindi Cassolnovo, Villanova, Garlasco, Vespolate, Confienza, Borgomanero, Gambolò...”

Quella sfilza di nomi stava facendo girare la testa al castellano che a tratti si vedeva il più ricco possidente della Lombardia e, a tratti, il più grande dei vili.

“Ovviamente poi c'è quel che riguarda l'artiglia...” riprese il portavoce, facendosi molto più serio e abbassando un po' il tono: “Siccome sappiamo che l'artiglieria di questo palazzo è di vostra spettanza, e che il valore delle vostre armi sfiora gli undicimila ducati, sono stato autorizzato a proporvi in cambio di tutti l'armamentario il titolo di Marchese.”

Bernardino da Corte sentì il cuore perdere un colpo. Questo non gli era ancora stato detto. Sarebbe stato un nobile, uno di quelli che, fino a quel momento, aveva sempre e solo potuto servire...

“Accetto.” disse, senza pensarci più.

Il francese allargò il sorriso, questa volta con una punta di sincero sollievo e così, alzandosi immediatamente dalla sedia, prima che il dannato milanese potesse ripensarci, batté le mani l'una con l'altra ed esclamò: “Affare fatto, allora! Il re sarà qui tra meno di una settimana e per allora voi avrete la vostra ricompensa e noi avremo il nostro palazzo.”

Il castellano annuì, alzandosi a sua volta e, mentre congedava il francese, sentì il groviglio di ansia e vergogna che gli aveva tappato la gola fino a quel momento, scendere allo stomaco, squassandolo con un conato improvviso di vomito.

Per fortuna l'altro era già uscito e le guardie erano distratte. Bernardino era in forte imbarazzo per quella reazione inconsulta, ma non era riuscito a trattenersi.

Per lui, quel 13 settembre sanciva la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra. Non era più lo stesso uomo che era entrato in quel salone poche ore prima. Ormai era diventato qualcun altro e non c'era modo di tornare indietro.

“Ripulite...” ordinò al servo che trovò appena fuori dalla porta, con voce distaccata e imperiosa, così diversa da quella che aveva sempre avuto: “Qualcuno ha sporcato in terra...”

Mentre l'altro correva a eseguire quel comando, il castellano camminò con passo rigido fino alla sua stanza e, chiusosi dentro, si portò rapido all'inginocchiatoio, dove, mani giunte sul petto, iniziò a pregare per la salvezza della propria anima, senza più, però, il minimo pentimento per quello che sapeva essere uno dei tradimenti peggiori che ci si poteva aspettare da un uomo nella sua posizione.

 

Il Consiglio di Guerra si era dimostrato molto più complicato di quanto la Tigre non avesse immaginato. Principalmente a scaldare gli animi era stato un dettaglio che l'Oliva, forse per eccesso di prudenza, non le aveva rivelato prima.

La lega di cui le aveva fatto cenno sarebbe stata costituita, come già detto, da Roma, Firenze e Venezia, ma il punto non sarebbe stato tanto il formare uno zoccolo duro per avere potere decisionale nell'alleanza con i francesi, quanto per essere in grado di contrastare meglio lei.

“Questo mi pare eccessivo!” aveva esclamato il Governatore Ridolfi, non volendo credere a quella lettura data dal notaio: “Va bene aver rispetto dei nemici e non sottovalutarli... Ma che Venezia, Firenze e Roma si sentano in bisogno di unirsi contro uno Stato come questo...”

La Contessa avrebbe tanto voluto ribattere a tono, ma in fondo la pensava come Simone. Le sembrava assurdo che tre potenze del genere la vedessero come primo obiettivo da distruggere. Se la vedevano come un pericolo, poteva capirlo, perché comunque lei non si era schierata apertamente in favore di re Luigi, e, quindi, nemmeno in favore loro. Ma da lì a progettare un'alleanza volta unicamente a combatterla, ce ne passava.

“Perché dite così?” aveva chiesto Galeazzo, in un impeto di amor proprio che, forse, nella sua ottica doveva andare a supplire la momentanea mancanza di aggressività della madre.

Caterina, infatti, all'arringa del Governatore aveva reagito solo con un'espressione contrita, tenendo sempre in braccio il suo Giovannino, come se non fosse stato detto nulla di che.

Perfino Bernardino – un po' a disagio, in mezzo a tutti quei Capitani e quella gente importante – si era lasciato andare a un moto di orgoglio, quando aveva sentito le parole di Ridolfi, e aveva scosso un po' il capo, come a dire che non approvava le sue dichiarazioni.

“Dico così perché Forlì e Imola hanno un decimo, anzi, un ventesimo o forse un trentesimo degli uomini e delle armi che hanno Firenze, Venezia e Roma!” esclamò Simone, guardando il giovane Riario come se stesse fissando un bambino troppo sfacciato.

Questi, le guance arrossate e gli occhi verdi che cercavano la madre nella speranza di vederla risvegliarsi dal suo apparente torpore, provò a ribattere: “Questo è vero, ma i nostri uomini hanno cinquanta volte la forza e il coraggio dei loro!”

Il Governatore sospirò e scosse il capo: “Sei solo un ragazzino, queste cose non le capisci.”

“Non vi permetto di parlare così a mio figlio – intervenne finalmente la Sforza – specie quando mi trovo d'accordo con lui.”

Nessuno, nemmeno Numai, che era noto per il suo senso pratico, diede contro alla Leonessa e così la donna si sentì libera di continuare.

Si avvicinò alla mappa e fece segno al Capitano Giovanni Testadoro e a Giorgio Attendolo di avvicinarsi un po' di più: “Credete che l'assenza di resistenza che stiamo trovando a Cotignola possa significare qualcosa in questo senso?”

Aveva scelto loro, nella folla, perché le sembravano quelli capaci di fare i ragionamenti più sottili.

Avrebbe voluto confrontarsi anche con Pirovano, che se ne stava un po' in disparte, le braccia allacciate sul petto e lo sguardo scuro, ma con lui preferiva poter parlare più apertamente nel segreto della loro camera da letto.

“Potrebbe voler dire davvero che Venezia, Roma e Firenze si stanno spartendo i compiti e che non vogliono scoprire ancora le loro carte.” confermò l'Attendolo, annuendo pensieroso.

“Oppure stanno litigando perché stanno cercando di decidere come dividersi la Romagna e nessuno vuole avere l'onore di attaccarci.” provò a dire Testadoro.

“O forse, semplicemente, è quel pazzo di Pandolfo Malatesta che non aveva voglia di seguire gli ordini del Doge e ha ben pensato di tornarsene a casa.” si aggiunse Ridolfi, parlando da sopra la spalla della Leonessa: “Fossi in voi eviterei di vedere cose che non esistono. Avrete anche un buon esercito, ma non è nulla in confronto a quello dei nostri nemici. Stati come Firenze non possono temere Forlì. Sarebbe come se un leone avesse paura di un gatto.”

La donna, che teneva stretto al petto Giovannino, si voltò appena verso di lui e, con voce bassa e implacabile, gli disse solo: “Uscite da questa stanza.”

Si era creato il silenzio. Non tanto per l'irriverenza delle parole di Simone, dato che spesso e volentieri la Contessa permetteva ai suoi sottoposti di parlare anche troppo liberamente, con lei, quanto per il tono gelido della Sforza, che a qualcuno dei presenti aveva ricordato uno dei momenti più bui del passato.

Simone, che invece non aveva visto la Caterina gelida e letale del periodo seguito alla morte del Barone Feo, non colse subito il pericolo e provò a continuare: “Avanti, dicono tutti che siete una donna intelligente, quindi dovete capire anche voi che...”

“Fuori da questa stanza.” ripeté la Tigre, il bambino che teneva in braccio con la sua stessa espressione dura e imperscrutabile.

Finalmente anche il Governatore avvertì un brivido lungo la schiena e, chiedendosi se davvero non avesse esagerato, balbettò una scusa e, senza più voltarsi uscì dalla Sala della Guerra.

Bernardino, a un paio di passi dalla madre, era ammutolito come tutti e il suo viso aveva perso ogni colore. Lui la ricordava, e, come anche Luffo Numai o Galeazzo, aveva fatto immediatamente un parallelismo tra la donna che si trovava davanti in quel momento e quella che l'aveva strappato dalla sua famiglia affidataria, a cinque anni, per portarlo lì a Ravaldino alla morte del padre.

Cambiando di colpo tono ed espressione, la Contessa riprese a parlare, rivolgendosi a quelli rimasti come se non fosse successo assolutamente nulla: “Comunque sia, che questa lega esista o meno, che la creino o meno, l'atteggiamento di Firenze lo stiamo vedendo tutti.”

Avrebbe voluto aggiungere che l'addolorava sapere che la Signoria non sarebbe mai stata una buona alleata per loro. Suo marito Giovanni era innamorato di Firenze e se avesse potuto vedere la sua città tradire la sua donna a quel modo, probabilmente ne avrebbe fatto una malattia.

“Mi ero illusa di potermi fidare di Firenze.” continuò la Sforza, guardando il nome della città ricamato da un'abile mano sulla mappa: “Ma evidentemente Firenze non si è mai fidata di me.”

Ciò che la feriva di più era sapere che la maggior causa di quella lontananza era Lorenzo Medici e la sua incapacità di accettare una decisione che suo fratello Giovanni aveva preso con cognizione di causa, e non perché costretto o raggirato.

“Non importa.” concluse, sentendosi veramente sfinita, dopo quella mattina che sembrava non avere fine: “Adesso che ne abbiamo discusso, dobbiamo comportarci di conseguenza. Prima di tutto, voglio che teniate sempre gli uomini pronti, perché se questa lega davvero esisterà, potremmo essere attaccati anche quando meno ce l'aspettiamo.”

Tutti i Capitani annuirono e Luffo soggiunse addirittura che quella era una decisione molto saggia.

Quando la Contessa decise di sciogliere la riunione, fu tentata di riportare Giovannino alle balie e di affidare Bernardino a Galeazzo, per potersi ritagliare un momento di solitudine, ma cambiò idea quasi subito.

“Dobbiamo parlare.” le disse Pirovano, avvicinandosi, mentre la sala cominciava a svuotarsi.

“Di cosa?” chiese la Leonessa, pur immaginando il motivo di quella fretta.

“Mi stai facendo mandare un messo a Venezia per trattare un'alleanza, quando sappiamo che invece Venezia è pronta a...” cominciò a dire lui, ma Caterina lo fermò subito.

“Venezia non accetterà, questo lo so anche io.” disse: “Ma il modo in cui lo farà ci aiuterà a capire che cosa sta realmente bollendo nella loro pentola.”

Per Giovanni da Casale quel genere di discorsi erano pressoché incomprensibili. Non aveva mai apprezzato né compreso l'ipocrisia e le trappole che si nascondevano dietro le ambascerie e la strategia non prettamente bellica. Trovava molto più confortante un duello con la spada, che non un giro di parole.

Perciò si arrese immediatamente, sospirando: “Come vuoi tu.”

“Adesso devo stare un po' con i miei figli.” gli fece presente, dato che, comunque, lui non se ne andava: “Tu, invece, dovresti dare un'occhiata alle reclute che ho affidato alla cittadella. So che dovevi scegliere tu i tuoi soldati, ma questi ti piaceranno. Anche se un paio sono buoni solo come cucinieri, so che saprai impiegare gli altri al meglio.”

Pirovano colse l'antifona e rispose con un semplice: “Ci vediamo stasera.”

Avrebbe voluto baciarla, anche solo di fretta, sfiorandole appena le labbra. Ma sapeva di non potere. C'erano ancora troppi occhi indiscreti. Se fossero stati presenti solo Giovannino, Galeazzo e Bernardino, forse non si sarebbe fatto tanti problemi. In fondo il primo era troppo piccolo per capire e gli altri due figli della Tigre conoscevano la madre e sapevano che lui era il suo amante.

Ma c'erano ancora dei Capitani, Numai e l'Oliva e, anche se per certo pure loro sapevano tutto quanto, non trovò il coraggio di andare oltre un cenno con il capo.

“Mia signora...” Luffo, che aveva aspettato con pazienza di veder andar via il milanese, si era messo accanto alla donna e, con il pretesto di sfiorare la manina al piccolo Medici, aveva cominciato a parlarle accoratamente: “Puccio Pucci, a parer mio, sta aspettando un invito a corte, magari anche solo per una cena...”

“Non ho né tempo, né voglia, né denaro per organizzare un banchetto per lui.” fece, scontrosa, la Contessa, per poi rivolgersi a Galeazzo, a cui porse i peso Giovannino: “Per favore, porta tuo fratello nella sua camera.”

Bernardino, che non si era sentito chiamare in causa, mentre i due fratelli se ne andavano, rimase immobile dietro alla madre, in attesa di ordini, e, nel mentre, sentì quello che lei e Numai si dissero.

“Non un banchetto... Anche solo un colloquio informale.” la incoraggiò il Consigliere.

“Voglio solo che se ne vada di qui.” rimarcò lei.

“Non siate testarda..! Peggiorerete solo la situazione!” fece lui, a voce bassa, ma con enfasi.

“Ha preso quel che doveva, ha visto quel che c'era da vedere. Adesso se ne vada.” tirò dritto per la sua strada Caterina.

“Io vi parlo come se parlassi a una figlia.” spiegò il Luffo, capendo, però, che ormai non sarebbe stato ascoltato e basta.

“E di questo vi ringrazio, ma ho deciso così e non intendo cambiare idea.” mise infatti in chiaro lei.

Nel sentirla parlare così, seppur non capisse la reale portata di quel dialogo, a Bernardino sfuggì un sorriso. Nel trovarla tanto ferma nelle sue posizioni, gli sembrava di rivedere molto di se stesso in sua madre.

Difficilmente riusciva a fare dei paragoni tra loro due, ma le rare volte in cui scopriva qualche tratto di se stesso in lei, ne era felice. Perfino quando si trattava di un difetto, come in quel caso.

“Avanti, andiamo, ho delle cose da fare...” fece la donna, facendo segno al figlio di precederla verso la porta.

“Un momento...” la bloccò Numai: “Vi prego almeno di trovare il modo di dare un contentino a Pucci... Si sta lamentando con tutti dicendo che l'avete trattato alla stregua di un notaio...”

“Ah, immagino il nostro Oliva come sarebbe felice di sentir citare la sua professione con tanto sdegno!” esclamò la Leonessa, con una risata automatica, ma molto breve.

“Mia signora...” la richiamò per un'ultima volta Numai.

Caterina pensò in fretta e si convinse che l'unico modo che aveva per far tacere Pucci e magari perfino convincerlo a ripartire con una sorta di simpatia nei suoi confronti sarebbe stato fargli avere dei soldi.

“Farò quello che credo.” decretò: “E ora lasciatemi andare che ho da fare.”

Una volta in corridoio, la Leonessa si lasciò andare a un profondo sospiro. Avrebbe tanto voluto prendere un cavallo e scappare nei boschi. L'unica cosa che l'avrebbe calmata, lavando in parte via anche l'abbattimento che le era piombato addosso alla notizia che perfino Firenze era pronta a pugnalarla alle spalle, sarebbe stata una battuta di caccia solitaria e proficua. Mangiare la carne ancora calda della sua preda nella Casina e bere un po' di vino nero, mentre fuori cominciava a scendere la sera...

Ma non poteva farlo, come capitava con la maggior parte delle cose che desiderava. Non poteva e basta.

“Vieni – invitò Bernardino, allungando una mano – andiamo nello studiolo del tuo prozio. Ci facciamo prestare la scrivania e prepariamo una bella lettera...”

Il piccolo, sorpreso da quel gesto della madre, afferrò la sua mano con una vaga esitazione, ma, appena sentì la stretta sicura e quasi troppo ferma di lei, si trovò a restituirla con la medesima intensità.

Mano nella mano, come nessuno li aveva forse mai visti a Ravaldino, madre e figlio raggiunsero lo studiolo del castellano e Cesare Feo, una volta tanto, non borbottò per aver dovuto lasciare il suo lavoro a metà, cedendo il proprio posto alla sua signora e al figlio di suo nipote.

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas