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Autore: Adeia Di Elferas    23/07/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Annibale e Alessandro Bentivoglio erano arrivati a Milano da meno di un giorno e quindi il primo non capiva l'irrequietezza del secondo. Era vero che, secondo il loro signor padre, il loro cognome doveva essere sufficiente a garantire loro un incontro immediato con il Trivulzio, ma Annibale era abbastanza realista da capire che in quei giorni Gian Giacomo era così attanagliato da richieste e incontri che sarebbe stato impensabile credere che avesse subito del tempo per loro.

“Che diamine...” borbottò a voce bassa Alessandro, iniziando a vagare per il salone come un'anima in pena: “Così stiamo qui a perdere tempo e basta!”

“Ma tanto – lo rimbrottò il fratello maggiore, sedendosi con pesantezza in una delle poltroncine imbottite vicino alla finestra – dovremmo comunque attendere l'arrivo in città del re... Si può sapere che fretta hai di tornare già a casa?”

Il Bentivoglio più giovane sollevò una mano, con impazienza, come a dirgli che non era il caso di fargli domande tanto stupide.

Voleva cercare di calmarsi. Sapeva che suo fratello aveva ragione e che vivere così male quelle lunghe giornate non sarebbe servito a nulla. Il problema, però, era che, oltre a sentirsi del tutto negato come ambasciatore, stava soffrendo in modo indicibile la distanza da sua moglie Ippolita.

Da quando si erano riuniti, dopo la caduta di Casteggio, per lui era cominciata una nuova vita e non avrebbe voluto, per nessun motivo al mondo, dover interrompere quella che stava diventando una quotidianità matrimoniale appagante e calorosa.

Quando suo padre aveva dato ordine a lui e ad Annibale di partire, imponendo loro di farsi amico il Trivulzio in modo da strappargli la promessa di una protezione incondizionata per Bologna, Alessandro si era letteralmente sentito morire.

Ricordava ancora la serie di baci silenziosi che lui e Ippolita si erano scambiati, poco prima di doversi separare e la promessa che lei gli aveva strappato: “Stai attento e torna presto da me.”

“Ma Ercole Este ha già mandato qualcuno a parlamentare per lui?” chiese, nel disperato tentativo di distrarsi, il Bentivoglio più giovane.

Annibale, che ne sapeva esattamente tanto quanto lui, sollevò un po' le spalle, accavallando lentamente le gambe e rispose: “Se non l'ha fatto, immagino lo farà presto. Tutti sanno che Ferrara vuole mettersi sotto la protezione dei francesi.”

Il fratello annuì e andò alla finestra, le mani allacciate dietro la schiena e il viso incupito e gli occhi distanti.

“In compenso – fece l'altro Bentivoglio, nella speranza di far rinsavire Alessandro e riportarlo presente a se stesso – Galeazzo Sanseverino è arrivato oggi, non so se l'hai sentito... Ecco, lui vuole chiedere una condotta direttamente al re. E Francesco Gonzaga dicono abbia raggiunto da poco Pavia. Se sia in cerca di protezione, di una condotta o di che altro non lo si sa, però...”

Alessandro fece uno smorfia. In realtà gli interessava molto poco di tutta quella gente. Voleva solo che il Trivulzio li accogliesse, facesse le sue promesse e li rassicurasse, cosicché potessero tornare subito a Bologna.

'Da Ippolita.' pensò tra sé il giovane, con un breve sospiro.

Annibale parve subodorare quello che stava passando nella mente del fratello e così, alzandosi con un suono sordo dalla poltroncina, esclamò: “E piantala di tormentarti per quella dannata Sforza! Ti assicuro che è ancora lì ad aspettarti! Quando torniamo, avrai tempo di farti perdonare per averla lasciata sola qualche notte...”

Alessandro era sul punto di ribattere a tono, quando una delle guardie entrò nel salone e annunciò loro che Gian Giacomo da Trivulzio aveva accettato di incontrarli, ma che, fosse ben chiaro, per quel giorno avrebbero dovuto accontentarsi di una visita molto breve.

Annibale si mise davanti al fratello, facendogli strada, quasi conoscesse quel palazzo, e così al minore non restò da fare altro che filargli dietro e pregare che la lingua affilata del più vecchio bastasse a risparmiare loro altre perdite di tempo.

 

Giovanni da Casale stava guardando con cautela verso Caterina. Da quando avevano saputo con certezza che Milano era ormai caduta in mano nemica, la Contessa gli era sembrata strana.

Anche se la Tigre stava mascherando abbastanza bene, agli occhi dei suoi collaboratori, il suo profondo senso di smarrimento, Pirovano avevano una visione privilegiata su di lei, potendola osservare anche nella privatezza della loro stanza, quando lasciava cadere gran parte delle sue difese, mostrandogli il lato più fragile di sé.

“Allora quando avremo la risposta dei Pregadi?” chiese la Contessa, accigliandosi.

Giovanni sollevò una mano e con uno sbuffo rispose: “Secondo Ludovisi dovremmo avere qualche notizia al massimo nel giro di un paio di giorni.”

La Leonessa sospirò e si riappoggiò al davanzale che dava sul cortile d'addestramento, chiudendosi di nuovo in un silenzio assorto. Sotto di lei, i soldati della rocca stavano facendo degli esercizi volti a renderli più efficienti con le bocche da fuoco e tra loro, oltre a Galeazzo, c'era anche Bernardino che, coinvolto proprio dal fratello, se la stava cavando discretamente bene.

“Voglio mandare Federico Flavio a incontrare re Luigi.” disse piano la Sforza, senza distogliere lo sguardo dagli uomini che si affaccendavano attorno a una delle colubrine.

Pirovano non parlò per un po', ma poi, mettendosi accanto a lei, spalla contro spalla, domandò, sperando di non suscitare la rabbia della sua donna: “Saresti davvero disposta a passare dalla parte dei francesi?”

“Non vorrei farlo.” rispose lei, irrigidendosi appena, al contatto con il suo amante: “E non intendo offrirmi come ostaggio di Luigi, sia chiaro. Ma è il papa il nostro maggior nemico. Se i francesi non ci vedessero come un ostacolo, forse il Borja sarebbe costretto a rinunciare alle sue mire sul mio Stato.”

Giovanni da Casale non era d'accordo con quella speculazione, anzi, temeva che il re di Francia avrebbe trovato ridicole le pretese di una Contessa di campagna quale era la Tigre. Però si guardò bene dal farle presente la sua sensazione e si limitò ad annuire appena.

“In base a come ci risponderà Firenze, e a cosa combinerà Flavio, vorrei anche provare a chiedere a Machiavelli se...” cominciò a dire la Sforza.

“A Machiavelli?!” la interruppe Pirovano, con una smorfia, incredulo nel sentirla ragionare a quel modo: “Ma tu l'hai sempre odiato e lui non ti ha mai dimostrato un briciolo di benevolenza, con che logica vorresti chiedere a lui qualcosa?”

Il tono sconcertato del milanese a Caterina non piaceva. Scostandosi dal davanzale, si mise a fissarlo con aria di ammonimento e poi scosse il capo.

“Tu non capisci.” disse solamente, rammaricandosi di non poter avere accanto un uomo i cui ragionamenti filassero sullo stesso rettilineo.

“Io capisco solo che ti sei riempita la bocca di tante belle frasi, dicendo che si doveva combattere fino alla morte, che tutti si dovevano unire sotto la tua bandiera, che...” iniziò a elencare l'uomo, ma la Contessa lo fermò.

“Ho detto tante cose, ma la realtà è più complicata del previsto.” lo zittì, tornando a guardare verso il cortile e vedendo come anche Bianca, con in braccio Giovannino e accanto una delle domestiche sue amiche, si fosse messa sotto il loggiato per seguire l'addestramento dei soldati: “Molto complicata. E non posso pensare solo a me.”

“Certo – sbottò il giovane, incrociando le braccia sull'ampio petto – i tuoi figli!”

“I miei figli.” ribadì la Leonessa, avvilita nel riscoprire ancora una volta quell'insofferenza atavica del suo amante: “A te, di loro, potrà non importare nulla, ma io non posso far finta che non siano importante per me.”

Pirovano si morse il labbro, tentato di continuare il discorso, ma riuscendo a frenare la lingua. Con un respiro molto fondo, atto unicamente a cercare di calmarsi, si rimise accanto a lei, imponendo la propria presenza come aveva fatto poco prima, premendo la propria spalla contro la sua e aspettando una sua reazione.

Questa volta la donna accettò quel contatto in modo diverso, abbandonandosi a sua volta a una lunga espirazione, sapendo quanto il suo amante quanto poco servisse a entrambi arrabbiarsi l'uno con l'altra in quel momento.

Tra i soldati, intanto, c'era stato uno scoppio di risa, perché un paio di loro, nel cercare di spostare il falconetto – che ovviamente non avrebbe comunque sparato, essendo caricato a salve – puntato per scherzo contro di loro erano volati per terra e si stavano rialzando a fatica.

Mentre Galeazzo tendeva la mano a uno di loro per aiutarlo, nel cortile si presentarono una mezza dozzina di uomini pronti a sostituire quelli che avrebbero dovuto iniziare il turno di ronda. Tra i nuovi arrivati, la Sforza lo notò subito, c'erano anche Baccino e Bernardino da Cremona.

Anche Giovanni da Casale non si era lasciato sfuggire quel dettaglio e, invece di guardare i due cremonesi, aveva voltato un po' il viso verso la sua amante, per leggere la sua espressione.

L'interesse evidente che le aveva acceso le iridi ramate fu per lui un pugno allo stomaco. L'aveva capita subito, il giorno stesso in cui quel dannato Bartolomeo da Cremona era giunto a Forlì. Non aveva voluto crederci, ma conosceva troppo bene la lieve curva che si imprimeva sulle labbra della Contessa, quando le piaceva qualcuno.

“Perché stanotte non la passi con lui?” chiese, pungente, il milanese.

Caterina capì sia il l'oggetto della frase, sia il sentimento di gelosia che aveva portato quelle parole fino alle labbra del suo amante, e così, solo per sedare sul nascere un nuovo litigio, sbuffò: “Perché non ne ho voglia. Preferisco stare con te.”

Pirovano non era tanto convinto, anzi, quella risposta gli aveva insinuato il dubbio che forse la Contessa osservava tanto interessata il giovane cremonese proprio perché aveva già avuto modo di provarlo. Anche se, pur pensandoci, faceva fatica a capire quando avesse potuto incontrarlo da sola.

“Meglio così.” sussurrò alla fine l'uomo, imponendosi un certo contegno.

Nei minuti che seguirono, mentre si fingeva del tutto concentrato su quello che capitava nel cortile, Giovanni si mise a rimuginare sulla sua relazione con la Sforza. Sapeva fin dal principio che la Tigre non era una donna semplice. All'inizio, anzi, si era trovato a condividerla con Manfredi, accettando una condizione che, normalmente, non avrebbe nemmeno preso in considerazione. E poi era rimasto solo lui e si era illuso di poter diventare l'unico uomo della Contessa. Si era illuso anche che la convivenza sarebbe stata più facile, e molto meno dolorosa, mentre invece si era trovato catapultato in una quotidianità complessa, che spesso lo frustrava e che lo ripagava solo quando riusciva a trovare un punto di contatto con la sua donna, il che non avveniva troppo sovente.

Ora che aveva provato a starle accanto per un po', capiva come mai tutti quelli che l'avevano preceduto e avevano, come lui, provato a condividere la vita con lei o non ci erano riusciti appieno, come era successo per esempio al faentino, o ne erano usciti cambiati e, a conti fatti, distrutti.

Dei passi alle loro spalle fecero voltare sia la Leonessa sia il milanese. Ottaviano Riario, che non si era accorto della loro presenza, li guardò un momento e poi, rigido, fece un rapido cenno di saluto a entrambi.

Caterina lo stava passando in rassegna. Era mattino, ma non era presto, eppure il ragazzo sembrava vestito ancora con gli abiti della sera prima. Non sarebbe stato impossibile credere che quella notte l'avesse passata fuori dalla rocca. Anzi, gli occhi cerchiati e un segno rosso sulla guancia, verosimilmente il reliquato di un tentativo di difesa da parte di qualche sventurata, lasciavano intendere che non avesse avuto proprio tempo per dormire nel suo letto.

Il Riario ebbe la vaga impressione che sua madre fosse sul punto di fargli qualche domanda, probabilmente per sapere cosa avesse combinato fino a quell'ora e, terrorizzato all'idea del confronto, durante il quale, lo sapeva, avrebbe finito per ammettere le colpe di cui si era appena macchiato, fece ancora un mezzo saluto e si allontanò a passo svelto.

Forse, si disse, sua madre avrebbe comunque avuto notizie dell'incidente accaduto al bordello in cui si era rifugiato poco prima dell'alba, ma probabilmente, se l'avesse saputo con lui non presente, avrebbe fatto in tempo a sbollire, prima di rivolgersi a lui e punirlo.

'In fondo – pensò Ottaviano tra sé, mentre raggiungeva con un sospiro di sollievo le scale – quella ragazza non è mica morta...' anche se, doveva ammettere con se stesso, aveva gridato come se la stessero ammazzando, e anche i soldi che le aveva lasciato in più alla fine, forse non sarebbero bastati per ripagarla di quello che le aveva fatto.

Senza dirsi nulla, tanto la Leonessa, quanto Pirovano avevano inteso a grandi linee tutto della notte appena trascorsa dal Riario e, appena questi sparì dalla loro vista, Giovanni non resistette a una stoccata velenosissima.

Convogliando l'insofferenza che provava verso i figli della sua amante in generale – come fossero un unico blocco – si concentrò sul primogenito e, chinandosi appena verso la Contessa, le sussurrò all'orecchio: “Hai ragione, sai, Caterina... I tuoi figli sono proprio elementi esemplari da tenere al sicuro. Dio non voglia che il mondo se ne debba privare prima del tempo.”

Il milanese si era atteso uno scoppio di rabbia da parte della Tigre, e invece questa, suo malgrado, si trovava in parte d'accordo, specie pensando a Ottaviano.

Non sapendo come gestire il silenzio di lei, Pirovano si massaggiò il mento ispido di barba nera e poi, non avendo più voglia di restare ancora a guardarla mentre si scioglieva squadrando i muscoli di Baccino, le disse solo: “Sarà meglio che vada alla cittadella. Oggi dovevo controllare delle cose...”

“Sì, bravo, vai alla cittadella.” fece lei, tornando a voltarsi verso il cortile.

Aspettò di sentirlo allontanarsi e poi, passandosi indice e medio sul nodo nuziale, si impose di calmarsi. Era in stato di agitazione perenne e sapeva che così non sarebbe riuscita ad andare avanti molto. La rabbia, che l'accompagnava senza tregua da quando aveva nove anni, era sempre lì, che sobbolliva come un pentolone colmo fino all'orlo.

Non voleva liberarla, non ancora, almeno. Immaginava che le sarebbe tornata utile, una volta che avesse davanti i francesi. Allora sì che avrebbe potuto sfogarsi come non faceva da anni.

Però, nel frattempo, sentiva la mani vibrare, come se fremessero dalla voglia di tenersi impegnate e, più guardava i suoi soldati affaccendarsi a così poca distanza da lei, più cresceva nel suo animo la voglia di dare al suo corpo un qualche tipo di sollievo. La sua fisicità esplosiva aveva bisogno di non sentirsi in gabbia e, spesso, menar fendenti in aria o aiutare i suoi manovali a spostare pesi le dava un breve, ma oggettivo sollievo.

Così, capendo che non avrebbe trovato altro modo di rimettere in ordine i pensieri, la donna lasciò la sua postazione privilegiata e raggiunse gli uomini nel cortile.

Sua figlia Bianca, dovette tranquillizzare Giovannino, che, pur stando in braccio a lei, vedendo arrivare la madre si era proteso in avanti nel tentativo di farsi prendere proprio dalla Tigre.

“Adesso no.” gli sussurrò Caterina, con una carezza in testa e poi passò ad abbaiare qualche ordine ai soldati, mentre raggiungeva la sala delle armi per prepararsi all'allenamento.

I suoi uomini avevano messo da parte le colubrine servite per l'esercitazione e, come da lei richiesto, avevano imbracciato le armi. La Sforza li divise a caso e in fretta in due schieramenti, uno guidato da lei e uno da suo figlio Galeazzo e poi diede ordine di dare il via a una mischia.

Presa com'era dal ferro che sbatteva e dalla fatica di lottare sotto il sole di metà settembre – che però portava con sé ancora uno sprazzo della rabbia d'agosto – non si accorse nemmeno che Bernardino era sgattaiolato via, sfuggendo al combattimento e sparendo oltre la volta che dava al cortiletto d'ingresso.

Solo Bianca aveva dato peso a quel comportamento del piccolo Feo ed era stata tentata di correre a recuperarlo o, almeno a vedere dove fosse diretto. Poi, però, pensò che Puccio Pucci ormai era ripartito per Firenze e che non c'era altro motivo per impedire a Bernardino di indulgere nei suoi soliti passatempi.

E così, sempre sotto gli occhi attenti della figlia e quelli pieni di meraviglia di Giovannino – capace di dimostrare interesse per i duelli quasi quanto un bambino grande – la Contessa continuò a fendere l'aria e mandare in terra gli sfidanti, trovandosi via via sempre più vicina a Baccino, senza che lo volesse.

Si rese conto di aver fatto squadre moderatamente equilibrate quando restarono a fronteggiarsi solo lei e Baccino contro Galeazzo e Bernardino da Cremona.

Immaginando che fosse quest'ultimo l'osso più duro, lo prese deliberatamente per sé, lasciando al cremonese il Riario.

Galeazzo, che avrebbe tanto voluto potersi confrontare in modo più diretto con la madre, si trovò distratto e impacciato e a Baccino bastò veramente poco per prenderlo in controtempo e, dopo un colpaccio di piattone sul fondoschiena, farlo rovinare in terra.

La Leonessa registrò in sottofondo il fatto che suo figlio fosse caduto e si concentrò su Bernardino da Cremona. Sentiva i lunghi capelli incollarsi al collo e gli abiti fradici di sudore. Voleva batterlo, più per darsi maggior soddisfazione che non perché volesse dimostrare di essere più brava.

Vide Baccino avvicinarsi a lei e iniziare a studiare la situazione. Non voleva che l'aiutasse, né che poi potesse prendersi il merito di un duello vinto in due contro un uomo solo.

Gli disse di stare in disparte e il cremonese, dopo un primo momento in cui pareva deciso a contravvenire l'ordine, si fermò di colpo, andando poi a ripararsi nello spicchio d'ombra nel quale stavano anche Bianca e Giovannino.

Colpi e parate si susseguirono e, esattamente come la prima volta che le era capitato di incrociare il ferro con lui, la Sforza dovette ammettere che Bernardino da Cremona era uno spadaccino molto più abile di tanti altri.

Anche se stavano usando ferri da addestramento, la forza che imprimevano ai loro colpi era tale che, se per caso si fossero centrati in volto o in altri punti sensibili, si sarebbero sicuramente fatti molto male.

Galeazzo, che intanto si era rialzato e aveva raggiunto i fratelli e Baccino, si tolse un po' di polvere dalle brache e poi strinse gli occhi per guardare meglio il duello. Non riusciva a capire chi dei due fosse in vantaggio. Se sua madre aveva ancora una linea elegante e precisa, Bernardino pareva in grado di imprimere ancora molta forza nei suoi fendenti. Se la prima, insomma, avrebbe potuto vincere grazie alla strategia e all'agilità, il secondo doveva puntare tutto sulla differenza di stazza.

“Vostra madre è davvero una guerriera sorprendente...” sussurrò Baccino, mentre seguiva a sua volta i movimenti sinuosi e letali della Tigre, che non demordeva, anzi, che continuava a costringere l'avversario a retrocedere: “Trovo sia una donna dal fisico notevole. È più forte della maggior parte degli uomini che conosco. Ed è ugualmente di una bellezza innegabile.”

Bianca si strinse Giovannino al petto e ribatté, senza sbilanciarsi: “Nostra madre si addestra fin da quando era bambina, ed è stata in guerra. Non fosse stata così, non sarebbe sopravvissuta, non credete?”

Il cremonese fece un sorrisetto furbo che ai due Riario non piacque, ma riuscì a tamponare quella spiacevole impressione con un sentito: “Lo credo, lo credo, e ne sono felice.”

Caterina, intanto, aveva costretto Bernardino a indietreggiare fin quasi al palo per i cavalli. L'uomo si accorse della sua posizione solo grazie al rumoreggiare degli altri soldati che, assiepati sotto le arcate, si erano messi a fare il tifo, sperando in cuor loro di veder vincere la propria squadra.

Il cremonese si appoggiò un momento alla sbarra e rotolò di lato, evitando per un soffio un colpo fortissimo della Leonessa. Tuttavia non riuscì a parare il fendente che seguì e così si trovò contro il terreno polveroso del cortile, con la punta della spada della Contessa alla gola, ben prima di rendersene conto.

Con il fiato corto e il viso colorito, la donna levò lentamente la lama dalla pelle del collo del suo avversario, per poi sollevarla in segno di trionfo, a beneficio del piccolo pubblico.

Togliendosi con gesti secchi le protezioni, tese una mano a Bernardino da Cremona, per aiutarlo a rimettersi in piedi e poi, avvicinandosi ai suoi figli, disse a Galeazzo: “Adesso puoi farli continuare con le colubrine.”

“Posso farvi i complimenti per come avete sconfitto Bernardino, il mio amico?” chiese Baccino, muovendo qualche passo verso di lei, il viso acceso dal suo solito sorriso insolente.

La Leonessa, dopo avergli dedicato un'occhiata fredda e di difficile interpretazione, ribatté, con asprezza: “Direi che non è il caso. Se non fossi in grado di battere ogni uomo del mio esercito, con che coraggio potrei comandarli tutti?” e detto ciò, lasciò tra le mani del cremonese sia le sue protezioni, sia la sua spada e se ne andò.

“Nostra madre è fatta così.” disse piano Bianca, tutto sommato soddisfatta del comportamento distaccato della madre nei confronti di quel soldato: “Imparerete a conoscerla anche voi.”

Baccino non aveva incassato benissimo quel freddo modo di rivolgerglisi, specie dopo che gli era parso di intravedere un interessamento, da parte della Sforza. Tuttavia era troppo orgoglioso per dar a vedere quanto ci fosse rimasto male.

Così diede in una risata che sarebbe parsa spontanea a chiunque ed esclamò: “Spero di averne il tempo! Se i francesi arriveranno qui presto quanto si teme, potrebbero accopparci prima che io riesca a conoscere vostra madre quanto voglio.”

Mentre l'uomo si allontanava, per sistemare le cose lasciategli dalla Tigre e poi aiutare gli altri con le colubrine, la Riario deglutì in silenzio e diede un rapido bacio sulla guancia a Giovannino. Era ovvio che il suo fratellino non avesse capito le parole di Baccino, ma a lei infastidiva comunque pensare che quel cremonese avesse avuto la faccia tosta di esprimersi a quel modo davanti a ben due dei figli della donna che aveva chiaramente deciso di provare a sedurre.

'E da cui, probabilmente, verrà sedotto prima del previsto' rimuginò tra sé la ragazza, decidendo all'improvviso che il cortile d'addestramento non era il posto migliore per passare qualche ora di svago.

“Andiamo nella sala delle letture – sussurrò a Giovannino – così ti racconto ancora qualcosa sui nostri bisnonni, Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza...”

 

“Come sarebbe a dire che incontrerà prima Francesco Gonzaga?” domandò Isabella d'Aragona, quasi sentendosi mancare la terra sotto ai piedi.

In realtà sapeva che qualche ora non avrebbe cambiato nulla, ma ormai stava venendo buio e, se Luigi XII avesse ricevuto prima il Marchese di Mantova, probabilmente non avrebbe voluto vedere nessun altro almeno fino al mattino dopo e lei non aveva più voglia di aspettare.

Il soldato che era andato a riferirgli di quel contrattempo – un italiano prestato ai francesi – fece spallucce e sottolineò: “In ogni caso, mia signora, il re dovrebbe varcare le porte di Pavia solo a sera tarda, alle dieci o forse anche più tardi... Non sarebbe bene, per una donna come voi, essere ancora in giro a quell'ora...”

“Sono sopravvissuta a un matrimonio infernale, a una cugina che mi voleva morta e a uno zio acquisito che mi ha strappato il Ducato. Per tacere di tutto il tempo che ho passato chiusa in una torre a vedere i miei figli patire la fame e la sete.” gli ricordò lei, cominciando a far segno alla sua dama di compagnia di prepararle l'abito: “Direi che posso sopravvivere benissimo a una cavalcata in città alle dieci di sera.”

L'uomo restò interdetto, non capendo, soprattutto, i movimenti dell'altra donna che, con una sorta di frenesia incoraggiata dai gesti frettolosi della sua signora, si stava prodigando per prepararle il vestito il più rapidamente possibile.

“Che intendete fare?” chiese a quel punto il soldato, dato che l'Aragona stava già cominciando a farsi togliere l'abito da camera che indossava in quel momento, apparentemente del tutto insensibile alla sua presenza.

“Intendo farmi trovare all'ingresso della città, quando il re arriverà.” spiegò Isabella, le spalle già nude, ma senza la minima traccia di imbarazzo sul volto: “Sarò la prima ad accoglierlo, e lui dovrà parlare con me, prima che con chiunque altro.”

“Ma...” provò a dire l'uomo, accigliandosi.

“Potete andare.” lo congedò l'Aragona: “Sempre che non ci teniate a vedermi completamente nuda.”

Balbettando qualche scusa, mentre la napoletana restava in sottoveste, e la dama di compagnia si sbrigava a slacciare anche i lacci di quella, per cambiarla con una pulita, il soldato lasciò all'istante la camera.

“Tenete le mie figlie al sicuro, mentre non ci sono.” fece Isabella, adottando un tono molto meno spavaldo, parlando con voce tanto bassa e tremula che l'altra fece quasi fatica a udirla: “Voglio che siano protette, mentre cerco di far liberare il loro povero fratello...”

Rincuorata dalle promesse dell'amica, l'Aragona allargò un po' le spalle, sforzandosi di stare dritta e, non appena fu pronta, con il suono delle campane che le ricordavano lo scoccare delle nove, diede ordine di far preparare il suo cavallo.

“Volete una scorta armata..?” chiese dubbioso il soldato di poco prima, quando la vide scendere con decisione le scale e recarsi all'uscita, dove l'attendeva un placido baio che l'avrebbe portata fino alle porte della città.

“Non credo che una scorta di soldati francesi potrebbe salvarmi dall'aggressione di altri soldati francesi.” scherzò lei, restando però serissima: “Quindi vi ringrazio, ma trovo la vostra offerta tanto inutile da essere quasi offensiva.”

L'uomo tacque, raggelato dalla grinta sfrontata che quella donna – di fatto una mezza prigioniera il cui nome, lì nei territori del Ducato, pareva valere meno di zero – e si limitò a fare un breve inchino, per poi osservarla mentre ringraziava lo stalliere, rifiutando il suo aiuto per montare in sella, i capelli rossi smossi dal debole vento della sera di quel 17 settembre.

 
 
   
 
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