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Autore: Mari_Criscuolo    25/07/2019    1 recensioni
Leila (Ella) ha 22 anni e vive a Napoli, ma, dopo la laurea triennale in psicologia, si trasferisce a Roma, per continuare il suo percorso di studi.
Sofia, sua amica da otto anni, ha deciso di seguirla.
Entrambe mosse dalla stessa chimera: lottare per la propria felicità.
Ella ha compiuto una scelta che ha fatto soffrire molte persone.
Nonostante non ne se ne sia mai pentita, sa che ogni decisione comporta delle conseguenze e lei sta ancora scontando la pena che le è stata imposta.
È convinta di essere in grado di affrontare ogni difficoltà la vita le metterà sul suo cammino, perché l'inferno lo ha vissuto, deve solo trovare il modo di non ritornarci.
Una ragazza con le sue piccole manie e le sue paure.
Una ragazza che usa il sarcasmo e l'ironia per comunicare il suo affetto e, allo stesso tempo, proteggersi da chi si aspetta, da lei, cose che non può e non vuole fare.
La sua famiglia, Sofia con suo fratello Lorenzo e, infine, un incontro inaspettato, la sosterranno nella sua scalata verso la tanto agognata libertà.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Luglio 2019
 
Seduta a terra sul pianerottolo del palazzo, con la schiena poggiata alla porta di casa, fissava il vuoto in attesa che il coraggio andasse a farle visita.
 
Era lì che lo aspettava, ma non avrebbe potuto farlo in eterno.
 
Poggiò le mani sulle piastrelle fredde del pavimento e, facendo leva sulle braccia e sulle gambe, si alzò.
 
Arrivata a questo punto non poteva smettere di lottare.
 
Non aveva alternativa, non gli avrebbe lasciato il controllo ed il potere di dominare su di lei.
 
Si sistemò il vestito bianco a fiori, che scendeva morbido sui fianchi fino a sfiorare il suolo.
 
Alzò le spalline sottili che erano scivolate lungo le braccia.
 
Passò le dita tremanti sotto gli occhi per eliminare ogni traccia del mascara, che era stato lavato via dalle lacrime.
 
Nel tentativo di assumere un'espressione tranquilla, respirò ed inspirò più volte, prima di infilare le chiavi nella toppa.
 
Girò lentamente, forzando la mano a causa della serratura nuova e difficile da aprire.
 
Appena dopo essere entrata in casa, notò la luce della televisione accesa che filtrava dalla porta a vetro, che separava lo studio dal resto della casa.
 
Scostandola quel tanto che le serviva per poter entrare nella stanza, riuscì ad intravedere sua madre, in pigiama, seduta sul divano.
 
«Com'è andata la serata? Ti sei divertita?»
 
In quelle domande c'era l'implicita speranza di una risposta affermativa.
 
Non voleva darle altre preoccupazioni.
 
Al momento credeva di poter gestire il peso di quelle ultime ore disastrose, quindi avrebbe fatto del suo meglio per tenerglielo nascosto.
 
Stava sopportando già troppo a causa di quella situazione, che avrebbe devastato chiunque.
 
Si sentiva responsabile e aveva coinvolto troppe persone in quel casino, di cui lei ne sarebbe stata la protagonista ancora per molto tempo.
 
Lo percepiva chiaramente, perché sapeva che le cose non avrebbero potuto andare diversamente.
 
«Si, tantissimo. Mi serviva respirare aria diversa, stavo impazzendo rinchiusa in casa. Questa serata mi ha rigenerata, mi sento molto meglio.»
 
Aveva esagerato, ma quello che aveva detto era anche un modo per convincere sé stessa che, in fin dei conti, un po' si era divertita davvero.
 
Sentiva gli occhi castani di sua madre puntati su di lei.
 
Lo faceva spesso ultimamente. La scrutava con attenzione, in cerca di una crepa da forzare per far cadere il muro di menzogne che aveva eretto per proteggere gli altri e difendersi.
 
Questa volta non avrebbe trovato nulla a cui appigliarsi.
 
«Ti salutano le ragazze. Adesso vado a cambiarmi, queste scarpe mi stanno uccidendo i piedi.»
 
In realtà le scarpe con il tacco che aveva indossato erano piuttosto comode, ma aveva bisogno di rimanere sola per pensare e capire come avrebbe dovuto comportarsi, cosa avrebbe dovuto fare.
 
Qual era il suo piano, ancora non lo sapeva e più ci rifletteva più si sentiva confusa.
 
Prese il pigiama e, dopo essersi rinchiusa in bagno, posò il cellulare sul bordo del lavandino.
 
Aveva paura di sbloccarlo.
 
Lasciò che il vestito scivolasse lungo il suo corpo, per poi cadere a terra.
 
Slacciò le scarpe e provò un'immediata sensazione di sollievo quando i suoi piedi toccarono il pavimento freddo.
 
Legò i lunghi capelli ricci in una coda disordinata e iniziò a sciacquarsi il viso per eliminare anche gli ultimi rimasugli di trucco, che riuscivano ancora a coprire alcune imperfezioni che spiccavano sul suo viso struccato.
 
Il segnale luminoso del telefono l'avvertiva dell'arrivo di altri messaggi, sapeva chi fosse e sapeva che non avrebbe potuto ignorarlo per sempre.
 
Era in un vicolo cieco, era in trappola e ci si era infilata con le sue stesse mani ma, adesso, non riusciva ad uscirne.
 
Prese il telefono.
 
Quindici messaggi e dieci chiamate.
 
Tutti provenienti dalla stessa persona.
 
Ancora Matteo.
 
Non riusciva a smettere, era un'ossessione.
 
Con l'ultimo barlume di coraggio della giornata, entrò nella chat e iniziò a scorrere i messaggi.
 
"Torna con me. Ripensaci."
 
"Ti amo. Farò di tutto per riconquistarti."
 
"Dacci un'altra possibilità."
 
"Una sola."
 
"Perché non me la vuoi concedere."
 
"Perché sei così cattiva."
 
"Perché mi vuoi così male."
 
"Sto soffrendo per colpa tua."
 
"Me lo devi."
 
"Vorrei odiarti per tutto il dolore che mi hai causato, ma ti amo troppo."
 
"Non riesco a non pensarti."
 
"Domani vengo da te e ne parliamo."
 
"Ho bisogno di vederti e chiarire."
 
"Tutto si può ancora aggiustare."
 
"Mi manchi. Non posso vivere senza di te."
 
"Mi hai lasciato perché hai conosciuto un altro?"
 
"Mi hai tradito?"
 
Era questo l'inferno.
 
Il nodo, che aveva avuto allo stomaco per tutta la serata, si stava espandendo e contraendo sempre di più.
 
Faceva male.
 
Percepiva che qualcosa si era bloccato nella sua gola, qualcosa che non riusciva a digerire.
 
Le dava fastidio perché non le permetteva di respirare a pieni polmoni.
 
Iniziava a mancarle l'aria.
 
Sentiva l'acido bruciarle lo stomaco e lottare contro le pareti interne per risalire.
 
Doveva liberarsi, voleva rigettare tutto quello che aveva mangiato, tutto il male che le stava provocando.
 
Forse, dopo si sarebbe sentita meglio.
 
Inginocchiandosi di fronte al gabinetto, alzò la tavoletta.
 
Ripensò alle ultime dodici ore.
 
Ripensò all'ultimo mese.
 
Ripensò al suo costante terrore.
 
Ripensò al volto di Matteo e tutta la sofferenza che le stava procurando.
 
I conati iniziarono a squassarle il petto.
 
I tremori agitavano ogni parte del suo corpo.
 
Lo stomaco si contorceva, l'addome le faceva male per lo sforzo, la gola bruciava tremendamente a causa dell'acido che stava rigettando.
 
Gli occhi, ad ogni sforzo, sembrava volessero uscire dalle orbite per andarsi a nascondere da qualche parte, solo per non essere più costretti a leggere determinati messaggi.
 
Ogni contrazione, ogni sforzo era seguito da un lamento gutturale che nasceva dalle viscere più profonde della disperazione.
 
Cercava di contenersi, ma il dolore era troppo grande e prepotente.
 
Il bussare alla porta le fece perdere l'equilibrio e cadde sul pavimento.
 
«Ella, che succede? Stai vomitando?»
 
Adesso, cosa si sarebbe inventata?
 
Osservò, per qualche istante, le ginocchia arrossate per il peso del corpo che avevano dovuto reggere.
 
«Tutto bene, mamma. Qualcosa, che ho mangiato al locale, deve avermi fatto male.»
 
Aveva la voce rauca a causa della gola infiammata.
 
«Apri la porta e fammi entrare.»
 
«Dammi due minuti.»
 
Si alzò velocemente, avvicinandosi al lavandino per rinfrescarsi il viso e eliminare le tracce del malessere.
 
Fissò il suo sguardo nello specchio.
 
Due occhi di un azzurro intenso erano stati macchiati dal rosso delle lacrime e dello sforzo appena fatto.
 
Ecco chi era diventata.
 
Il fantasma di una ragazza che non riusciva più a vivere, ad essere libera, ad essere sé stessa.
 
Prima o poi questa trappola l'avrebbe uccisa e, se Matteo avesse continuato a stringere la sua presa intorno a lei, ben presto le sarebbe mancata l’aria.
 
«Per quanto ancora posso andare avanti così?» chiese in un sussurro al suo riflesso.
 
«Ella?»
 
Il suono della voce di sua madre, che la richiamava, la fece ritornare al presente.
 
Dopo aver indossato velocemente il pigiama, girò la chiave e lasciò che sua madre entrasse.
 
Bastarono pochi sguardi per farle intuire che non era stata solo una cattiva digestione a causare il suo malessere.
 
«Ti ha scritto ancora!» esclamò sicura della sua affermazione.
 
 
«Mamma, ti prego, non metterci anche tu il carico da novanta.»
 
«Voglio solo aiutarti. Guardati. Sei dimagrita, si vedono le ossa. Non esci. Sei sempre rinchiusa a casa a studiare o sul divano a guardare film. Ti stai usurando lentamente.»
 
Ad ogni parola di sua madre, Ella sentiva la rabbia uscire dal nascondiglio in cui l'aveva relegata fino a quel momento.
 
Adesso era troppo stanca.
 
Era stanca di pensare a ciò che era giusto e ciò che era sbagliato; stanca di pensare sempre agli altri e mai a sé stessa; stanca del senso di colpa che la stava divorando sempre di più.
 
Tutto era diventato troppo.
 
La liberò e lasciò che distruggesse ogni cosa avrebbe incontrato sul suo cammino.
 
Non l'avrebbe più contenuta.
 
Doveva esplodere e non le importava chi avrebbe subito.
 
«Pensi che non lo sappia? Pensi che non mi veda allo specchio? Pensi che sia stupida? Cosa credi? Che mi piaccia vomitare e sentire la gola in fiamme? Pensi che trovi divertente non uscire di casa e divertirmi come una ragazza dovrebbe fare, alla mia età? Pensi che non sia già abbastanza distrutta da dover ascoltare anche le tue inutili e ovvie constatazioni?»
 
Il tono della sua voce era, ormai, fuori ogni controllo e, a ogni sillaba, si innalzava sempre di più.
 
Voleva che il mondo intero la ascoltasse e si rendesse conto che, una persona sola, non avrebbe mai potuto sostenere il peso di quell'ossessione.
 
«Ella, smettila di urlare. Io non intendevo questo... sono solo preoccupata.»
 
Sua madre si allontanò leggermente, nella speranza che, dandole più spazio, si sarebbe calmata.
 
«Pensi che io non lo sia? Tutti vi preoccupate, ma quello che non riuscite a capire è che non potete fare assolutamente nulla.»
 
«Quindi dovremmo stare a guardare mentre ti distrugge, mentre ti sgretoli ogni giorno di più di fronte ai nostri occhi?»
 
«Cosa volete fare? Cosa potete fare? Rinchiudermi in una clinica psichiatrica? Mi fareste un favore enorme perché sto impazzendo.»
 
«Adesso calmati. Ti preparo una camomilla e ne parliamo con più tranquillità.»
 
Disse sua madre, dirigendosi in cucina. Ella la seguì, pronta ad esplodere in un nuovo moto di rabbia a causa di tutte quelle parole e modi di fare assolutamente inutili.
 
Si paralizzò.
 
La tazza che le aveva regalato Matteo, dopo che lo aveva lasciato, era lì sul tavolo.
 
Sua madre doveva essersi distratta, per averla presa dal mobile.
 
La tazza che aveva cercato per molto tempo e che le aveva fatto recapitare per posta, al solo scopo di riconquistarla.
 
La tazza che aveva avuto il coraggio di togliere dallo scatolo solo un mese dopo essere giunta a casa sua.
 
Pienamente consapevole delle sue azioni, la afferrò e la scaraventò sul pavimento.
 
In un attimo, il rumore sordo di ceramica, che si infrangeva, sostituì le urla, riempendo le mura di quella casa.
 
Sudava, tremava, annaspava in cerca di aria.
 
Era pervasa da un calore che non aveva mai provato prima.
 
Era odio, tristezza, era tutta la sua vita che si stava sgretolando.
 
Era lei che si stava rompendo.
 
Era il rumore della sua mente che si spezzava, nel tentativo di rincorrere e mettere in ordine il continuo flusso di pensieri che le offuscavano i sensi.
 
Il silenzio piombò come un macigno e, se faceva attenzione, riusciva ancora a percepire l'eco dei cocci che si posavano a terra.
 
Rimase a fissare il pavimento.
 
Sua madre, in stato di shock, non proferiva parola.
 
«Non hai capito niente. Basta parlare, basta discutere, mi avete stancato tutti quanti. Non serve a niente far prendere aria alla bocca. Mi dovete lasciare in pace. Vai a dormire.»
 
«Non quando tu sei in questo stato. Non dopo che hai scaraventato una tazza a terra. Non sei stabile.»
 
«Se non vuoi più sentirmi urlare come un'isterica, in preda ad una crisi di nervi, se non vuoi che continui a distruggere oggetti, ti conviene fare come ti dico. Adesso!»
 
«Ella...»
 
«Lo hai voluto tu.»
 
A grandi passi, percorse la distanza che separava la cucina dallo studio.
 
Entrò chiudendo la porta a chiave, prima che sua madre potesse impedirglielo.
 
Si appoggiò alla parete, scivolando lungo di essa per poi accasciarsi a terra.
 
Si lasciò andare ad un pianto ricolmo di disperazione e pentimento.
 
La rabbia si era diradata e adesso, intorno a lei, poteva osservare tutta la desolazione che aveva causato.
 
Era rimasta sola, ma non aveva paura di questo, perché sapeva che non l'avrebbero mai abbandonata a sé stessa, nonostante tutto quello che avrebbe potuto fare.
 
Non era una giustificazione, ma le serviva per andare avanti.
 
«Che succede? Che vi prende nel cuore della notte?»
 
Sua sorella si era alzata. In effetti, si stupiva di come non si fosse svegliata prima.
 
«Si è chiusa a chiave nello studio. Non ragiona, ha avuto una crisi isterica. Non so più cosa fare per aiutarla.» Sentiva dell'angoscia nella voce di sua madre.
 
«Ella, apri questa porta.»
 
«Bianca, ti prego ritorna a dormire. Lasciatemi in pace, ho bisogno di stare sola e pensare. Non farò niente di stupido.» Si sforzò per articolare una frase che avesse senso, cercando di ingoiare i singhiozzi.
 
Dopo qualche istante di assoluto silenzio, in cui aveva creduto se ne fossero andate, sentì bisbigliare.
 
Parlavano così silenziosamente che non riusciva a capire cosa si stessero dicendo.
 
«Ella, mamma è andata a dormire. Dai, fammi entrare. Sai che hai bisogno di qualcuno e non me ne andrò fin quando non aprirai questa benedetta porta.»
 
Non aveva la forza necessaria per risponderle.
 
«Non ho problemi a rimanere per terra tutta la notte e, se domani mi lamenterò per il mal di schiena e andrò male all'interrogazione di filosofia, sarà colpa tua.»
 
Conosceva Bianca e sapeva che, se c'era una persona più caparbia di lei, quella era sua sorella.
 
«Ti faccio entrare, ma ad una sola condizione.»
 
«Sarebbe?»
 
«Non ho voglia di parlare, quindi staremo in silenzio. Devo prendere una decisione e devo farlo da sola.»
 
«Va bene.» Disse cedendo alla sua richiesta.
 
Rimanendo seduta, strisciò fino a poggiare le spalle sulla parete che faceva ad angolo con la porta.
 
Allungò la mano fino alla maniglia e, dopo averla tirata verso il basso, lasciò che sua sorella entrasse.
 
Si sedette al suo fianco.
 
Ella si voltò verso di lei e la osservò per qualche istante.
 
Nonostante avesse solo diciassette anni, Bianca era una ragazza molto matura.
 
Ella era sua sorella maggiore e avrebbe dovuto proteggerla, mostrarsi forte per insegnarle che le difficoltà possono essere superate, tuttavia adesso si sentiva così debole.
 
Una tra le cose che la spaventava maggiormente era che, vedendo ciò che stava affrontando, avrebbe iniziato a vivere di riflesso.
 
Temeva avrebbe evitato determinate esperienze, che si sarebbe chiusa in sé stessa solo a causa sua, che si sarebbe imposta di non innamorarsi.
 
Il suo sguardo castano e profondo era sempre stato così espressivo da poterci leggere ogni pensiero formulasse la sua mente, come in questo momento.
 
Posò una mano tra i capelli lisci e scuri di Bianca e, con una leggera pressione, le fece poggiare la testa sulla sua spalla.
 
Rimasero in quella posizione, per circa cinque minuti.
 
«Tutti dobbiamo affrontare delle difficoltà e tutti cadiamo, inevitabilmente, come è successo a me questa sera. E va bene così, sarebbe anomalo in contrario. Abbiamo bisogno di spezzarci per poter guardare il mondo da una prospettiva diversa, ma questo non ci rende più deboli. Chi crolla ha combattuto e per lottare ci vuole coraggio. È giusto che tu, guardandomi adesso, abbia paura, ma non lasciare che questo sentimento condizioni le tue scelte, perché io non lo farò.» Ella avrebbe fatto di tutto per rassicurarla.
 
«Ricordati sempre che il nostro limite siamo noi stessi. Vivi e corri dei rischi, ma non permettere mai a nessuno di controllarti. La tua libertà e l'amore che hai per te stessa valgono più di tutto l'amore che chiunque potrà mai darti.»
 
«Me lo dici sempre, ormai l'ho imparato.» rispose Bianca.
 
«Continuerò a ripetertelo.»
 
Afferrò il cellulare e bloccò il contatto di Matteo su ogni social.
 
Anche se questo non sarebbe servito a molto perché aveva scoperto che, pur inserendo il numero nella lista nera, non venivano bloccati né le chiamate né i messaggi.
 
«Cosa stai facendo?» chiese sua sorella staccandosi dall'abbraccio.
 
«Sto rimettendo insieme i pezzi per affrontare le mie paure. È il momento di prendere una decisione che ho rimandato a lungo» rispose Ella sotto lo sguardo confuso di Bianca.
 
«Cioè?»
 
«Riprendere la mia vita laddove è stata interrotta.»
 
Chiamò l'unica persona che, oltre la sua famiglia, c'era sempre stata; l'unica su cui sapeva avrebbe potuto sempre contare.
 
Rispose al terzo squillo.
 
«Ella, è l'una e mezza. Che succede?»
 
Sofia l'avrebbe aiutata a prendere la decisione che le serviva per ricominciare.
 
«Stasera ho toccato il fondo della devastazione. Io... ho vomitato, ho urlato contro mia madre che voleva solo capire cosa diavolo mi stesse succedendo, ho scaraventato una tazza a terra, mi sono barricata nello studio. Sto male, Sofia, un male indescrivibile. Sto morendo, lentamente. È un'agonia.»
 
«Qualunque cosa tu decida di fare, io starò sempre dalla tua parte.»
 
«Non posso più continuare a rimanere chiusa in casa, ad avere paura di accendere il telefono, di usare i social, di uscire anche solo per fare una passeggiata, di tremare quando suona il telefono o bussano alla porta, di rimanere sola in casa, di non dormire e di svegliarmi in preda agli incubi, quando ci riesco. Adesso basta, ho avuto il coraggio di lasciarlo e devo andare fino in fondo.»
 
Il silenzio la stava spingendo a tirare fuori le parole che aveva represso per molto tempo.
 
La decisione che sapeva, da più di due mesi, avrebbe dovuto prendere, ma che aveva sempre ignorato, scalpitava per vedere la luce.
 
«Ho deciso che ad ottobre mi trasferirò in un'altra città. A settembre mi laureo e, domani, sceglierò dove fare domanda per la magistrale. Non posso più rimanere. Devo riprendere in mano la mia vita e devo farlo lontano da qui.»
 
Dopo averlo detto ad alta voce, si sentiva già meglio.
 
Il peso che aveva sullo stomaco stava scomparendo perché riusciva, finalmente, a vedere una via d'uscita da questo tunnel che l'aveva inghiottita per troppo tempo.
 
Guardò sua sorella, per controllare la reazione che le sue parole le avevano provocato.
 
Sembrava stupita, ma, al contempo, vide un leggero sorriso incresparle le labbra.
 
«Vengo anche io con te.» La voce di Sofia, dall'altro capo del telefono, la riportò alla realtà.
 
«Non ti chiederei mai di lasciare la tua vita per seguirmi chissà dove.»
 
«Infatti non me lo stai chiedendo. Ti ho solo comunicato la mia decisione.»
 
«Forse dovresti pensarci domani mattina a mente fredda. Adesso è tardi, non puoi prendere certe decisioni.»
 
«Ella, riflettere su cosa? Sai che è solo questione di tempo prima che i miei mi sbattano fuori di casa. Se non ho fatto le valige e me ne sono andata prima è solo perché non potevo e volevo lasciarti sola, ad affrontare la violenza psicologica che stai subendo.»
 
«Sono pur sempre i tuoi genitori. Non ti cacceranno mai né ti manderanno a dormire sotto i ponti.»
 
«Anche se non lo facessero, cosa di cui dubito fortemente, sai che la mia non è più vita, così come la tua. In questa casa non sono più libera di essere me stessa, ma devo fingere costantemente di essere qualcuno che non sono. Sono stanca, lo siamo entrambe.»
 
«Sono sicura che gli serva solo del tempo.»
 
«Così come serve a me. Sai che loro credono nella chiesa più che in Dio, e sai anche che la chiesa non accetta le diversità. Nessuna delle due può più rimanere in attesa di qualcosa che, probabilmente, non arriverà mai. Domani chiamo mio fratello e vedo se ci possiamo trasferire da lui a Roma.»
 
«Non credo sia il caso di infastidire Lorenzo. Se riuscirò ad entrare a Roma, mi troverò un monolocale.»
 
«Lorenzo ti adora, lo sai. In pratica siamo cresciute insieme e ti conosce da otto anni, sei come una sorella per lui. Sono sicuro che, appena gli accennerò la questione, sarà lui stesso a proporre questa soluzione.»
 
«Grazie, Sofia.»
 
«Vedrai che insieme ce la faremo. Tu pensa a muovere quel bel culo che ti ritrovi e stai tranquilla che passerai sicuramente il test. Non conosco una persona più forte e caparbia di te, quando ti metti in testa qualcosa non ti arrendi finché non hai ottenuto ciò che volevi. Se è realmente questo ciò che desideri, non ho dubbi che ce la farai.»
 
«Ce la faremo. Come sempre.»
 
***
 
Avevano trascorso la notte sul divano, in uno stato di veglia e sonno agitato, tra un episodio e l'altro di Grey's anatomy.
 
Nonostante gli eventi della notte precedente, si sentiva più serena perché, adesso, sentiva di avere uno scopo da perseguire.
 
Sapeva di nuovo per cosa lottare.
 
I suoi sogni, quelli che aveva perso di vista per mesi e mesi, adesso l'avevano ritrovata.
 
Al momento, per lei, non contava nient'altro che non fosse riprendere la sua vita tra le mani e renderla nuovamente sua, non più quella di qualcun altro.
 
Solo lei aveva diritti su di sé, solo lei sapeva cosa fosse giusto.
 
Ma c'era una cosa che doveva fare, prima di poter iniziare a scrivere una nuova pagina della sua vita.
 
Chiedere scusa.
 
Ancora intorpidita dal sonno, si diresse in cucina dove trovò sua madre seduta, intenta a fissare una tazza di camomilla fumante.
 
Aveva smesso di incolparsi per cose su cui non aveva il controllo.
 
Doveva rompere quel meccanismo per poter stare meglio.
 
«Mamma, scusami per tutto. Per aver urlato, per aver rotto la tazza, per aver fatto una scenata che non meritavi e soprattutto per aver dovuto subire una rabbia che non ti apparteneva.»
 
Si sedette vicino a lei e posò una mano sulla sua.
 
«Mi dispiace se sono stata troppo insistente, ma sono così preoccupata per te. Ti sta distruggendo e non potrai mai capire la sofferenza di una madre nel vedere che sua figlia sta cadendo in un baratro, non potrai mai capire il senso di impotenza che ne deriva.»
 
Si guardarono per un lungo istante e poi, in uno slancio, la abbracciò forte, nella speranza di poter rimettere insieme i pezzi di una vita che stava andando in frantumi.
 
«Ho preso una decisione. Sappiamo entrambe che non posso andare avanti in questo modo e, se ho avuto la forza di rompere con lui, devo avere anche il coraggio di andare a avanti. Non mi lascerò più schiacciare da questo peso.»
 
«A cosa hai pensato?» Chiese, con un barlume di speranza nello sguardo.
 
«Voglio fare domanda per la magistrale in un'altra città. Devo ricominciare e farlo nel modo migliore. Almeno per il momento, se rimanessi qui non riuscirei a vivere bene, quindi lo farò da un'altra parte. Credimi mi dispiace davvero. Lasciarmi andare, dopo quanto accaduto, vi farà solo preoccupare di più, ma non è una cosa che posso scegliere. Sento di averne bisogno.»
 
Per quanto esporre liberamente i suoi sentimenti la facesse soffrire; per quanto aver scoperto il volto cruento di una realtà ingannevole l'avrebbe costretta a lasciare una parte della sua vita, accettarlo sarebbe stato l'unico modo per tornare a respirare.
 
«Qualunque cosa tu vorrai fare, noi ti appoggeremo sempre. Smettila di preoccuparti. Siamo la tua famiglia e non ti lasceremo mai sola.»
 
 
   
 
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