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Autore: Adeia Di Elferas    27/07/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bernardino da Corte era stato pronto già di primissimo mattino a lasciare la rocca, e, su intercessione diretta di Gian Giacomo da Trivulzio – che si era ammantato del privilegio di far rispettare l'antica usanza milanese, che voleva in salvo i beni e i servi di chi si arrendeva volontariamente – era riuscito a portare senza problemi fuori dal palazzo di Porta Giovia tutti quelli che vi erano rimasti e anche una discreta quantità di oggetti e vettovaglie.

Quasi nessuno, però, si era accorto della sua partenza, perché gli occhi di tutti i milanesi erano puntati sulla Porta Ticinese, attraverso cui era passato il re di Francia.

Si vociferava – come fosse riuscita a trapelare la notizia tanto celermente era difficile capirlo – che la sera prima Luigi XII avesse incontrato alle porte di Pavia niente meno che Isabella d'Aragona e che i due fossero stati visti insieme ancora a notte fonda a discutere e condividere una coppa di vino.

Quanto ci fosse di vero e quanto fosse stato dettato dal desiderio di pettegolezzo non era facile saperlo, ma di certo una punta di verità doveva esserci, dato che altri illustri questuanti si erano visti rifiutare un'udienza proprio perché il francese era già occupato.

Tra i grandi estromessi figuravano anche uomini come Galeazzo Sanseverino, i due fratelli Bentivoglio e Francesco Gonzaga che, quel 18 settembre, si erano dovuti accontentare di accompagnarlo nel suo ingresso trionfale.

Intorno a mezzogiorno, mentre il cielo andava via via annuvolandosi, complice una cappa di calore che al francese pareva più adatta alla canicola di luglio che non a quei giorni che avrebbero dovuto portarli verso l'autunno, Luigi accettò di buon grado un grande banchetto allestito in suo onore alla corte vecchia e lì, tra il mangiare saporito e il bere abbondante, finalmente il più mondano tra gli italiani presenti – ovvero il Marchese di Mantova – aiutato anche dal Duca di Savoia, riuscì ad avvicinare il re Cristianissimo e iniziare a scambiare con lui qualche importantissima chiacchiera.

 

“Lo sapete perché ho deciso così.” disse piano Caterina, intingendo ancora una volta il pane nell'intingolo che accompagnava lo stufato di cervo: “Le porte non sono chiuse, ma non possono nemmeno restare aperte a tutti. Giusto stamattina c'è stato un morto per la peste, e non voglio per nessun motivo che Forlì venga decimata solo perché ho ascoltato le lamentele di qualche mercante che non ha saputo dimostrare la sua provenienza...”

Luffo Numai le diede silenziosamente ragione e poi si servì ancora un po' di verdure. Era da qualche giorno, ormai, che il Consigliere cenava sempre alla rocca. Non lo faceva perché non desiderasse passare la sera con la propria famiglia, ma perché quello era uno dei pochi momenti in cui era facile trovare la Tigre recettiva a certi discorsi.

Durante la giornata, infatti, la donna era immersa fino al collo in questioni prettamente belliche, negli addestramenti, nel controllo delle fortificazioni e nell'organizzazione dell'esercito. Quando calava il buio, invece, se non scappava subito in stanza con il suo amante, la si poteva trovare nella sala dei banchetti e discutere con lei delle questioni più varie.

“Comunque sia – riprese la Contessa, asciugandosi le labbra con il dorso della mano – non mi pare che il commercio ne stia risentendo più di tanto. Credo che sia la siccità, il vero problema.”

“Nel riminese dicono che stia piovendo.” commentò, vago, Numai.

“Mi auguro, allora, che presto si metta a piovere anche da noi.” fece eco la Sforza.

Al tavolo con lei e Luffo c'erano solo Bianca e il castellano Feo. Galeazzo li aveva incrociati per pochi minuti, e poi si era ritirato presto perché desideroso di andare a coricarsi: era stanco e il mattino dopo avrebbe dovuto svegliarsi prima dell'alba per andare con il Capitano Mongardini a ispezionare una parte delle mura cittadine.

Quando Giovanni da Casale si profilò nella sala, la schiena dritta e il profilo serio, Numai capì che il suo tempo era finito. Con tutta la buona volontà, per quel giorno, non avrebbe di certo più avuto il privilegio dell'attenzione della sua signora.

Infatti, quando si arrischiò a dare uno sguardo alla Leonessa, la trovò con gli occhi verdi puntati verso il milanese, e, da come lo guardava, probabilmente stava già pensando di chiedergli di sbrigarsi a mangiare, in modo che poi potessero salire in camera.

“Con permesso...” disse a voce bassa Luffo, alzandosi: “Vi ringrazio per la cena e allora vi terrò informata sugli eventuali sviluppi della faccenda.”

Caterina annuì e poi precisò: “La stretta sugli ingressi non può comunque essere ammorbidita. Si deve aspettare che la peste si spenga e che tornino le piogge. Dall'inizio dell'epidemia da noi sono morte meno di cento persone. Dubito che altre città possano dirsi altrettanto fortunate.”

Numai chinò il capo, in segno di accordo, e poi salutò anche Bianca e il castellano, defilandosi con una certa solerzia, lasciando, di fatto, il suo posto a Pirovano.

“Allora, hai mandato Federico Flavio a Milano.” disse l'uomo, guardando altrove, mentre si sedeva.

La Sforza si accorse che Giovanni aveva subito preso un calice e se l'era riempito di vino. Non era un comportamento usuale, per lui. Di norma, anche se sorbiva qualche sorso durante il pasto, era difficile vederlo bere a stomaco vuoto a quel modo.

Invece quella sera svuotò due bicchieri uno di fila all'altro, prima di prendere qualcosa da mettere nello stomaco.

“Sì, ho mandato Flavio a Milano.” rispose lei, spiluccando quel che restava della sua porzione di stufato, concentrata, più che altro, nel capire che cosa avesse il suo amante.

Era teso, nervoso, e sembrava deciso a non rivolgerle lo sguardo nemmeno per sbaglio. In tutta sincerità, però, Caterina non ne capiva il motivo. Quel giorno non avevano avuto motivi di screzi, anzi, rispetto all'ultimo periodo, la si sarebbe potuta definire una giornata molto tranquilla.

“E cosa speri di ottenere?” chiese lui, stringendo un po' i denti e poi afferrando un pezzo di carne e mettendoselo in bocca con rabbia.

Siccome Bianca, a poche sedie di distanza, li stava osservando, cercando di passare inosservata, la Contessa desiderava come non mai evitare ogni litigio e anche ogni sorta di battuta cattiva, ma non sapeva come arginare quella passiva aggressività che Giovanni da Casale le stava riservando.

“Lo sai che cosa vorrei.” fece allora, tentando di mantenere il più possibile la calma: “E sappi che ho anche scritto a Machiavelli, questo pomeriggio.”

Pirovano fece uno sbuffo, scuotendo il capo e lasciando da parte il piatto che si era appena riempito. Si morse il labbro e poi, prima di parlare di nuovo, bevve ancora un po' di vino.

Quando diede fiato ai suoi pensieri, lo fece con un'acrimonia che la Tigre non avrebbe mai creduto di poter sentire nelle sue parole: “Hai scritto anche a quel fiorentino... Tu, che hai chiesto a me di giurare che ti sarei stato accanto fino alla morte, adesso vuoi mediare coi nostri nemici e passare dalla loro parte...”

Finalmente la Contessa colse il motivo dello stato confuso e rabbioso del suo amante e lo capì. Se non fosse stata mossa dall'atavica speranza di mettere al sicuro i suoi figli, nemmeno lei si sarebbe mai abbassata a fare quel disperato tentativo.

“Lo sai perché l'ho fatto e sai, comunque, che non ho speranze di ottenere un'alleanza.” disse in fretta lei, in un sussurro concitato: “Sai bene anche che il Doge ci sta facendo aspettare e lo sta facendo solo per non dirci subito di no... Alla fine la tua promessa non andrà sprecata.”

“Ti credevo diversa. Tutto qui.” ribatté piano lui, facendo grattare la sedia contro il pavimento, come se stesse per alzarsi.

“Sai benissimo che non sono una codarda.” gli ricordò lei, afferrandolo per una mano, per trattenerlo.

L'uomo abbassò gli occhi scuri, fissando il contrasto tra le sue dita forti e un po' rovinate dall'uso delle armi, e quelle della sua amante, così lisce e morbide, malgrado anche lei impugnasse quotidianamente spade e lance.

“Lo so.” ammise, avvertendo un senso di inadeguatezza che aveva già provato più volte, al cospetto di una donna come la Sforza.

“E allora perché fai così?” Caterina poteva quasi sentire le orecchie di Bianca tendersi per cercare di carpire le loro parole, ma in quel momento non le importava.

Aveva capito ormai da un po' che la testa di Giovanni da Casale non era solida quanto il suo aspetto virile e marziale lasciassero intendere. Il rischio che la perdesse c'era, c'era eccome, e quindi spettava a lei tenerlo con i piedi ben piantati a terra. Se si fosse perso in se stesso, per paura o per rabbia che fosse, le sarebbe stato del tutto inutile, e allora avrebbe dovuto lasciarlo. E non voleva privarsene.

Pirovano rimase un po' stupito da quell'indagine serrata da parte della Leonessa. In parte era vero che si era adombrato per quel comportamento politico che lui riteneva come minimo ambiguo, ma, soprattutto – anche se non avrebbe voluto che fosse così – erano state delle chiacchiere molto pesanti ascoltate poco prima alla cittadella che gli avevano annebbiato la mente.

Aveva sentito due soldati parlottare tra loro. All'inizio non aveva dato peso alle loro battutacce, poi, però, quando aveva subodorato che il soggetto della maggior parte delle loro frasi fosse proprio Caterina, non aveva potuto fare a meno di ascoltare.

Di fatto, il primo stava ricordando di una sera di qualche anno addietro, quando il Barone Feo era morto da poco, e di come la Contessa lo avesse scelto e portato in camera senza dargli nemmeno il tempo di fiatare. E fin lì il milanese sarebbe anche stato pronto a metterci una pietra sopra. Ma il secondo stava ripercorrendo qualcosa successo parecchio tempo dopo, per la precisione nel periodo in cui Pirovano era a Firenze come ambasciatore.

Aveva accennato al fatto che la Sforza aveva preso lui e un suo amico e che li aveva voluti entrambi, portandoli in una locanda poco lontana dal Quartiere Militare, sfogando con loro i suoi istinti con tanta voracità da avere la meglio su entrambi, sfinendoli.

Giovanni aveva riconosciuto anche troppo bene la sua amante nelle descrizioni e negli aneddoti che aveva sentito e quel fatto gli aveva fatto contrarre lo stomaco e spegnere la mente.

“Sono solo stanco.” concluse, dato che Caterina ancora aspettava una sua risposta: “Solo stanco.”

“Andiamo in camera?” propose lei, una volta tanto senza secondi fini.

“Va bene.” sbuffò lui, finendo con un lungo sorso il vino che aveva ancora nel calice: “Tanto tu risolvi sempre tutto così, no?”

La Tigre avrebbe voluto mandarlo a quel paese, ma per tutta una serie di motivi, preferì evitare. Lo seguì, anzi, benché lui camminasse a passo tanto spedito da esser difficile stargli dietro.

Bianca, che aveva assistito a tutta la scena, riuscendo a origliare anche gran parte del dialogo, si sentiva intristita da quella situazione. Le tensioni tra sua madre e quel milanese non facevano bene a nessuno. E anche se non le piaceva sapere la Tigre sempre in bilico tra un amante e l'altro, forse, si diceva, avrebbe fatto meglio a scrollarsi di dosso Pirovano e tornare alla sua libertà.

Anche se Giacomo Feo era stato molto diverso, la Riario non poteva non vedere certe similitudini, se non altro nella resa sempre più evidente di sua madre.

'Per lei – si trovò a pensare, con un velo di dolorosa malinconia – sarebbe stato meglio Manfredi.'

Anche se pure il faentino era forse troppo giovane per la Contessa, e anche se pure con lui i litigi erano abbastanza frequenti, a Bianca Manfredi era sempre sembrato molto più maturo e vissuto della sua reale età e quindi, con un po' di elasticità, forse sarebbe stato il compagno migliore, per sua madre, tra quelli che si erano avvicendati dopo la morte di Giovanni Medici. E lo pensava contro il suo stesso interesse, dato che, suo malgrado, anche lei poteva dire di essersi innamorata di quel faentino, e di aver sofferto indicibilmente, quando l'aveva saputo morto.

La giovane stava ancora scandagliando i ricordi, rivendendo per un breve istante i capelli biondissimi di Ottaviano e i suoi occhietti azzurri, quando intravide un altro Ottaviano – dai capelli castani e inanellati e dagli occhi scuri e pesti – entrare nella sala dei banchetti.

Alla vista del fratello, la Riario represse una smorfia infastidita. Mai come in quei giorni non sopportava la sua presenza. E così, quando si accorse che le si stava avvicinando, forse addirittura per scambiare con lei due parole, si affrettò a lasciare il tavolo e ritirarsi per la notte.

 

Paolo guardò di sottecchi il suo attendente e poi ribatté: “Non vedo cosa ci sia di così strano. Quei trentamila ducati mi spettano. Firenze doveva darmeli molto tempo fa.”

“Cercate di capirmi...” fece il soldato, che stava inutilmente cercando di dissuadere il suo signore dal commettere un errore che sarebbe potuto risultargli addirittura fatale: “Già la Signoria non è contenta di come sia andata a finire la campagna... Da quando si è saputo di quelle due bombarde e, soprattutto, del dragonetto..!”

“Cosa..?” fece il comandante, grattandosi il collo, con un fare evasivo che non era per niente nelle sue corde.

L'altro, che non riconosceva quasi più il Vitelli, da che aveva preso la malaria, scosse appena il capo e, armandosi di pazienza, gli ricordò: “Quando le navi sono affondate, quelli sono stati i tre pezzi d'artiglieria più costosi che abbiamo perso... Se i pisani dovessero riuscire a recuperarli...”

“Dopo due giorni a mollo – lo zittì Paolo, tirandosi in piedi con un po' di fatica e andando verso l'ingresso del suo padiglione, deciso a sfuggire alle chiacchiere dell'attendente – sarebbero degli stregoni, se riuscissero a far sparare quelle bombarde..!”

“Ripensateci.” disse, come ultimo tentativo, il giovane: “Aspettate a chiedere i vostri soldi... So che siete nel vostro diritto, ma lasciate che la Signoria...”

“Io sono stanco.” tagliò corto il comandante generale delle truppe fiorentine: “E lo sono soprattutto perché ho lavorato fino adesso senza avere quello che mi spettava. Se cercavano un generale che combattesse solo per senso patrio, dovevano scegliere un altro.”

Senza badare più al soldato, che cercava di seguirlo, per tormentarlo ancora un po', il Vitelli uscì all'aperto, sotto il cielo collerico di San Savino. Quel posto non gli piaceva, ma ritirarsi lì era stato necessario e indispensabile, quando i pisani avevano ripreso Torre di Foce.

Anzi, per sicurezza, Paolo stava pensando che sarebbe stato meglio, in quei giorni, spostarsi verso Vicopisano.

Siccome l'attendente stava ancora barbottando alle sue spalle, il comandante decise di tenerlo occupato, in modo da poterselo scrollare un po' di dosso: “Vai a cercare una staffetta. Voglio che la mia richiesta arrivi a Firenze nel minor tempo possibile.”

L'altro rimase basito da tanta ottusità, ma, non potendo contravvenire a un ordine tanto preciso, fece un brevissimo inchino e, mormorando un 'sì, mio signore' si allontanò all'istante, dicendosi che se Paolo Vitelli aveva deciso di suicidarsi in quel modo, lui non poteva far nulla per evitarlo.

 

Caterina era in camera, con Giovannino in braccio. Steso a letto, intento a fissarla senza il minimo pudore, c'era Pirovano.

Non aveva fatto storie, quando l'aveva vista entrare in stanza con il figlio più piccolo al collo, tanto meno aveva avuto nulla da dire quando lei si era messa alla scrivania e aveva cominciato a occuparsi della corrispondenza.

Anche se era ormai sera tarda, il milanese sembrava più che disposto ad aspettare vigile e sveglio che la sua donna si fosse liberata dalle incombenze della giornata.

“L'ho portato qui – disse a un certo punto la Sforza, indicando il piccolo Medici con un breve cenno del capo – perché aveva avuto un incubo e la balia non sapeva come tranquillizzarlo.”

La risposta di Giovanni da Casale era stato un suono un po' soffocato d'assenso, al quale non aveva fatto seguire né domande, né commenti di alcun tipo.

In tutta sincerità, la Contessa non sapeva come interpretare quel mutismo. Da un lato voleva sperare che fosse il sintomo di una sorta di accettazione di tutta la situazione da parte del suo amante. Pirovano, da che lo conosceva lei, era sempre stato un uomo di poche parole e, come tale, forse se ne stava zitto proprio come segno d'assenso. Oppure, ma a questa seconda opzione la Leonessa preferiva non pensare, quel silenzio altro non era se non la quiete prima della tempesta.

L'ultima lettera a cui si stava dedicando, era destinata a Fortunati. Si trattava di alcune disposizioni di ordine pratico, nulla di realmente importante, anche se lasciava intendere che desiderasse qualche notizia fresca su Firenze e sul clima che si respirava in zona.

Ne approfittò per chiedergli la 'mele ranze' e di tenere il conto del suo debito. Aveva già capito da un pezzo che tutto ciò che Francesco le faceva avere – tranne qualche rara eccezione – era per lei gratuito. Però non voleva che il piovano la credesse una tirchia, tanto meno un'opportunista, dato che non si era mai sentita tale.

Giovannino aveva allungato una mano verso la pagina su cui stava asciugando l'inchiostro e poi, puntando gli occhi picei e allungati verso quelli verdi della madre, aveva balbettato qualche sillaba incerta.

“Sì, questa è per Fortunati.” rispose piano la donna, mettendo la firma in calce e soffiando un po' per accelerare l'asciugatura.

Pirovano, che aveva assistito a quell'assurdo scambio di battute, si chiese se davvero la Tigre avesse sentito, nel disarticolato intervento del figlio una domanda tanto precisa da dargli una simile risposta.

Malgrado gli paresse impossibile, vedere come il piccolo Medici si fosse fatto calmo – anzi, quasi soddisfatto – dopo quelle parole, gli fece credere che tra madre e figlio dovesse esserci un qualche collegamento speciale che a lui sfuggiva, ma che a loro permetteva una perfetta sintonia.

“Vado dal castellano, per fargli spedire queste lettere.” annunciò la Contessa, chiudendo anche l'ultima e impilando il piccolo plico di missive.

“Poi tornerai qui da sola o..?” domandò il milanese, guardandola di sottecchi, non sapendo più cosa aspettarsi da lei.

Avrebbe voluto fare tante allusioni e dire cose spiacevoli, ma non se la sentiva. Non era nel suo stile e si odiava, quando la prendeva di petto. Non voleva essere un uomo geloso, né un amante possessivo. Non era una sfida facile, ma era un soldato dalla disciplina tanto ferrea, che sapeva di poter riuscire a controllarsi, se voleva.

“Lascerò mio figlio nella sua camera, se è questo che vuoi sapere.” ribatté lei, che, invece, sembrava non curarsi minimamente di poter risultare troppo pungente o fredda.

Lasciata la stanza, Caterina camminò spedita fino all'alloggio di Cesare Feo. Sapeva che doveva essersi ritirato da poco e non le piaceva disturbarlo a quell'ora, anche se voleva che alcune lettere partissero quanto prima, specie quelle rivolte a Dionigi Naldi e a Flavio.

Bussò tre volte, prima che qualcuno arrivasse ad aprirle. In brache e camicia, il castellano spalancò la porta di legno spesso e, dopo aver rivolto un sorriso stanco al piccolo Medici, chiese alla sua signora cosa potesse fare per lei.

“Fate partire subito queste lettere.” ordinò la donna e poi, rapita per un momento dal volto tirato del Feo, chiese: “State bene?”

Non ricordava di averlo visto tanto stremato e vecchio. Anche se da anni, ormai, era al suo servizio, quella era prima volta in cui lo vedeva realmente in difficoltà.

L'uomo abbozzò un'alzata di spalle e, cercando di darsi un tono, rispose: “Nulla di che, mia signora... Solo l'età.”

Lo zio di Giacomo – quel legame di parentela non sfuggiva mai del tutto dalla mente della Leonessa – era un uomo di buona indole, gentile, paziente, capace nel suo lavoro. Tuttavia la Sforza sapeva che ad attenderli c'erano tempi bui e difficili e un dubbio la stava attanagliando, in quel momento.

Squadrandolo bene alla luce malferma della torcia a muro, gli sussurrò: “Cesare, non voglio sembrare indelicata o ingrata, ma...”

Il castellano strinse un po' gli occhi, le mani che nel tempo si erano fatte sempre più nodose, strette al pacchetto di lettere.

“Ecco, voglio che siate sincero, con me.” mise in chiaro la Contessa: “Voglio che, se mai doveste rendervi conto di non essere più in grado di svolgere il vostro compito al meglio, me lo diciate.”

Il Feo ebbe un piccolo fremito. Le sue pupille vennero attraversate da quello che alla milanese parve tristezza. Si morse le labbra sottili e poi cercò di distendere i lineamento del viso.

“Certo, mia signora.” rispose, chinando un po' il capo: “Vi prometto che lo farò.”

Con Giovannino saldamente ancorato al collo, Caterina cedette all'impulso improvviso di dare una piccola pacca sulla spalla al suo castellano, salutandolo per la notte: “Mi raccomando.”

Lasciatasi alle spalle Cesare, che, malgrado tutto, stava già lasciando la propria camera per andare a consegnare le missive alle staffette, la Tigre andò a riportare il figlio dalla balia. Il piccolo frignò un po', ma poi si lasciò convincere a coricarsi e così la Sforza fu libera di tornare dal suo amante.

“Scusa se ci ho messo un po', ma...” disse, quando arrivò in stanza.

“Non dire nulla.” la frenò subito Pirovano, che aveva il sospetto che ogni dialogo tra loro poteva essere fonte di un nuovo litigio: “Non dire assolutamente nulla.” ribadì, iniziando a baciarla.

La Leonessa, che di norma non era avversa a quel genere di subitaneo assalto, rimase comunque un po' spiazzata, ma, dopo i primi momento di tentennamento, si trovò a pensarla esattamente come Giovanni.

Lo assecondò e lasciò che l'attrazione tra loro spegnesse ogni possibile recriminazione o malcontento, lasciandoli, invece, abbracciati e accaldati, tanto stanchi da prendere sonno quasi subito, senza avere nemmeno il tempo di chiedersi se stessero scegliendo la strategia giusta o se, a lungo andare, la via che avevano intrapreso si sarebbe dimostrata solo distruttiva.

 

Il sole era calato da un po', ma Lucrecia non disperava. Le avevano assicurato che Alfonso sarebbe arrivato lì da lei a Spoleto quel giorno e, finché non fosse scoccata la mezzanotte, lei si sentiva autorizzata a credere che fosse tutto vero.

Aveva passato buona parte della mattina alla finestra, poi quasi tutto il pomeriggio tra preghiere e appostamenti, e infine, subito dopo cena, non aveva trovato di meglio che aggirarsi con aria vaga per l'ingresso del suo palazzo.

Però le ore erano passate e, per non far capire troppo il suo stato di agitazione, aveva deciso di ritirarsi in camera. Si era messa all'inginocchiatoio e aveva pregato Dio e tutti i santi che conosceva di proteggere il suo Alfonso, guidandolo presto fino a lei.

Era stata una lunga battaglia, quella che aveva portato alla risoluzione tutto sommato pacifica dell'incidente diplomatico causato dalla fuga improvvisa dell'Aragona da Roma, ma, complice la guerra a Milano e la difficile situazione politica della penisola, tanto Alessandro VI quanto il regno di Napoli avevano acconsentito a smussare le proprie posizioni e trovare un punto di contatto.

Il papa voleva tenersi buoni i partenopei e desiderava la felicità della figlia, benché questo coincidesse con il lasciare in vita e libero il genero, mentre agli Aragona interessava avere un piede in Vaticano, per cercare di proteggersi da un'eventuale offensiva francese.

Con un sospiro pesante, la Borja si mise una mano sul pancione. Era di quasi otto mesi e non desiderava altro che riavere per sé il marito subito, così da poter partorire sapendolo al sicuro e al suo fianco.

Aveva le gambe un po' gonfia, mal di schiena ed era stanca. Quella giornata d'attesa l'aveva letteralmente sfinita. Si passò lentamente una mano tra i capelli chiari e bisbigliò ancora una preghiera.

Le scappò un sorriso triste pensando a cosa le avrebbe detto suo padre, se l'avesse vista in quello stato. Rodrigo Borja era un uomo che riteneva la preghiera compulsiva nei momenti di bisogno un'autentica baggianata. Più volte l'aveva sentito dire che il tempo sprecato a dire dei pater noster era meglio impiegarlo in qualcosa di costruttivo e utile.

Lucrecia non la pensava così, ma davanti a lui gli aveva sempre dato ragione.

Era ancora immersa nel ricordo dell'ultima volta in cui il padre le aveva detto, soffocando una risata: “Se le ave Maria servissero a qualcosa, parola mia, al mondo non ci sarebbe bisogno né di papi né di re!” quando sentì la porta alle sua spalle aprirsi.

Convinta di trovarsi davanti una delle sue dame di compagnia, la Borja stava già dicendo: “Prima di coricarmi, gradirei qualcosa di fresco da bere...” quando sentì due lunghe braccia che conosceva bene cingerle la vita.

La voce di Alfonso le sussurrò all'orecchio: “Tutto quello che la mia signora vuole.” e poi le baciò il collo.

Lucrecia sentiva il fiato mancarle, per la felicità e l'incredulità. L'attesa era stata tanto lunga, che ora non le sembrava vero di riavere per sé il marito. Si rigirò, restando nella sua stretta, e affondò il viso nel suo petto.

Anche se il pancione ingombrava un po' la loro unione, marito e moglie restarono aggrappati l'uno all'altra, in silenzio.

L'Aragona sentiva l'aroma pieno della pelle della sua donna, il sentore degli olii che usava per i capelli e il calore del suo corpo morbido, che gli era mancato in modo indicibile.

La Borja, invece, poteva distinguere benissimo il profumo selvatico del viaggio che i vestiti del giovane portavano ancora addosso, il suo fisico snello e prestante e la sicurezza della sua presa.

“Dobbiamo andare a Nepi.” gli disse piano lei, non riuscendo a trattenere qualche lacrima di autentico sollievo: “Mio padre ci raggiungerà lì...”

“Lo so.” fece Alfonso, baciandole la fronte e poi scendendo sulla guancia, fino a raggiungerle le labbra: “Ma c'è tempo. Possiamo aspettare almeno un giorno o due...”

La Borja aveva sentito così acutamente l'assenza del marito che, invitata anche dai suoi gesti e dal suo sorriso intrigante, avrebbe voluto potersi chiudere in camera con lui per sempre, altro che prendersi un giorno o due...

“Hai ragione.” gli disse, prendendogli i fianchi con le mani e rimirandoselo un momento, per poi lasciare che riprendesse subito a baciarla: “Prendiamoci un giorno o due solo per noi...”

 
 
   
 
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