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Autore: Adeia Di Elferas    03/08/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Machiavelli stava ascoltando solo con un'orecchia quello che si stava dibattendo alla Signoria, quella mattina. C'erano troppe cose che si affollavano nella sua mente e lui, che si era sempre vantato perfino con se stesso di avere una visione d'insieme eccellente, stava rischiando di perdere i punti di repere necessari ad avere un quadro almeno sufficiente della situazione generale.

Prima di tutto, non riusciva in nessun modo a capire l'atteggiamento di Paolo Vitelli. Era come se il comandante non solo se ne stesse infischiando delle maldicenze a suo carico, ma pareva quasi che fosse ben felice di alimentarle e renderle giorno dopo giorno sempre più credibili.

Quando aveva perso Torre di Foce e i pezzi di artiglieria affondati, per esempio, non solo non si era dato il minimo pensiero, ma addirittura aveva lasciato che i pisani trafugassero impunemente un paio di armi molto costose rimaste verso riva.

Proprio per l'indolenza dimostrata dal Vitelli – e non spiegabile, almeno secondo Firenze, con la sua recente malaria – si era presto arrivati a parlare addirittura di un mandato d'arresto nei suoi confronti. L'accusa oscillava tra il tradimento e il danno economico alla Repubblica, ma di fatto non era ancora stato deciso nulla di ufficiale.

A Niccolò sembrava eccessivo accusare il comandante generale di tradimento, ma si rendeva anche conto che una campagna già vinta si stava trasformando in una ritirata ignominiosa e costosa solo per le intemperanze di un uomo che era – o almeno sembrava – ormai alla fine della sua carriera.

Mentre la discussione davanti ai suoi occhi si accendeva ancora di più, il Segretario di Stato scivolò di nuovo nei suoi pensieri, rimuginando su altre cose che lo stavano confondendo molto, in quel periodo.

Tanto per citarne una, c'era la fuga del Moro. Non aveva mai avuto molta stima di Ludovico Sforza, trovandolo borioso e prepotente come tutti quelli della sua genia, ma anche ingenuo e facilone, un tratto che non poteva aver preso dai genitori. Vederlo abbandonare il Ducato con tanta facilità, però, lo aveva colto di sorpresa.

Per natura, gli Sforza erano attaccati alla terra, al popolo e al potere, invece lui, vedendosi in pericolo, non aveva esitato un attimo a lasciare la città in balia di se stessa, scappando come un coniglio, invece di provare a combattere come il guerriero che avrebbe dovuto essere.

Se quel giorno la Signoria si era dovuta riunire tanto presto e con tanta fretta buona parte della colpa era proprio del Moro. Se non avesse lasciato entrare i francesi così facilmente a Milano, a Firenze non ci sarebbe stato bisogno di scegliere degli ambasciatori da mandare a re Luigi per trattare le condizioni di un'alleanza, o, quanto meno, di una non belligeranza.

Machiavelli si grattò pensieroso il mento, mentre Lorenzo Medici prendeva di nuovo la parola, sottolineando con voce piena quanto sarebbe convenuto a tutti loro favorire la campagna militare dei francesi, arrivando a lasciarli indisturbati – se non addirittura a fornire loro soccorso – se avessero intrapreso la conquista della Romagna.

Il Segretario immaginava più che bene il vero motivo che stava spingendo il Popolano a influenzare in modo tanto palese i notabili della città e, anche se nell'impeto dei sentimenti sarebbe stato pronto a dargli ragione, se si metteva a valutare più freddamente la situazione, trovava il suo comportamento quanto meno infantile.

Era chiaro che Lorenzo volesse solo il male della cognata, e che fosse anche disposto a lasciare i francesi liberi di scendere indisturbati lungo buona parte dello stivale solo ed esclusivamente per il piacere di vederla distrutta. E quello non era un motivo corretto.

A Firenze non serviva a nulla avere i francesi accanto e tutti i vantaggi che il Medici andava elencando senza tregua erano pressoché tutti inventati o esagerati. Niccolò sapeva, come tanti dei presenti, che lasciare libero Luigi XII di percorrere la penisola italiana in modo indisturbato si sarebbe potuto rivelare un errore madornale e irreparabile.

Tuttavia il Popolano sapeva giocare le sue carte e i suoi interessi, fin troppo ben radicati nel tessuto socioeconomico di Firenze, stavano dando i loro frutti.

“E sia – decise infine il Gonfaloniere, richiamando l'attenzione di tutti, ritenendo decisa la linea da mantenere nei rapporti con i francesi – si procederà alla scelta degli ambasciatori.”

Machiavelli guardava impotente i fiorentini che aveva davanti a sé accapigliarsi per quella delicata decisione, e intanto ritornava con la mente alla lettera che aveva ricevuto giusto poche ore prima.

Quando aveva visto che la mittente era la Tigre di Forlì, aveva fatto un salto sulla sedia. Non riusciva a pensare nemmeno lontanamente a cosa quella donna impossibile potesse volere da lui.

Aveva rotto il sigillo con un colpo secco e aveva iniziato a leggere in modo febbrile, arrivando ai saluti e alla firma nell'arco di pochi secondi.

In pratica la Sforza diceva ben poco, ma insisteva in modo quasi fastidioso sull'importanza di ribadire al re di Francia il fatto che lei fosse alleata di Firenze. Aveva cercato di colpire sul vivo la vanità di Niccolò, scrivendogli che solo lui poteva intercedere per lei presso Luigi, spiegandogli al meglio la situazione e illustrandogli la sua disponibilità a mantenere un rapporto pacifico anche coi francesi.

Quella richiesta, che sarebbe stata comprensibile, secondo Machiavelli, se partita da un qualsiasi signorotto romagnolo, stonava in modo indicibile, se seguita dalla firma della Leonessa.

Dal Moro, in fondo, ci si poteva aspettare una fuga. Ma dalla Sforza di Forlì Machiavelli non si sarebbe mai aspettato un tentativo di mediazione che puzzava di codardia come quello.

“Si delibera che Francesco Gualterotti, Alamanno Salviati e Lorenzo Lenzi partiranno alla volta di Milano tra due giorni, per portare le nostre ragioni al re di Francia.” decretò il Gonfaloniere di Giustizia, accasciandosi poi sul suo scranno, come se quella seduta l'avesse privato di ogni forza.

Il Segretario, che si era distratto negli ultimi minuti, restò basito nel sentire che già si era decisa perfino la data della partenza, ma si riscosse quando quelli vicini a lui cominciarono a commentare il fatto.

“Certo – disse uno di questi, scuotendo piano il capo – adesso sarebbe stato a mio modo di vedere molto più importante arrestare il Vitelli, ma... Ma il Medici ha ragione. La Francia è nostra alleata da sempre ed è giusto porgere loro il nostro aiuto...”

Niccolò fece un cenno con il capo, come a dargli ragione, ma lo mandò silenziosamente al diavolo con lo sguardo. Come poteva sperare che Firenze restasse a galla in quella confusione, se quelli a cui spettavano le decisioni avevano la testa dura come un blocco di marmo?

 

Caterina stava ascoltando in silenzio Bianca che le riassumeva l'ultima lettera del fratello Cesare che, lamentandosi dell'apprensione eccessiva di Raffaele loro cugino che ancora non lo voleva lasciar partire per Pisa.

Del tutto indifferente all'insofferenza e ai timori manifestati dal figlio, la Contessa stava rivolgendo tutta la sua attenzione ai dettagli che emergevano dal suo resoconto. Era chiaro che il Riario non avesse notizie né fresche né di prima mano di quello che stava capitando nel pisano, ma ciò che era giunto al suo orecchio bastava per confondere la Tigre.

Da quello che sosteneva Cesare, sembrava che Paolo Vitelli, senza motivi apparenti, avesse avuto tra le mani una delle vittorie più semplici e soddisfacenti di sempre e che, per imperizia o arroganza, avesse finito per trasformarla in una mezza disfatta.

“Erano i vincitori e adesso sono in ritirata...” borbottò la donna, accigliandosi e guardando Giovannino che giocava sul tappeto ai suoi piedi.

La sala delle letture era tranquilla e non c'era nessun altro oltre a loro. Bianca stava apprezzando quel clima familiare, ma la tensione che aveva avvertito nella voce della madre ebbe il potere di spazzare via la precaria calma che si era posata sul suo cuore.

Deglutendo, le chiese: “Cosa pensate che significhi?”

La Leonessa sospirò e poi, mentre stava per esprimere la sua valutazione, la porta si aprì e ne entrò Giovanni da Casale.

La Riario, che era seduta sulla poltrona, lanciò prima un'occhiata all'uomo, abbozzando un saluto e poi alla madre, chiedendole tacitamente se dovesse andarsene per lasciarli soli.

Pirovano arrivava direttamente dal Paradiso. Era accaldato, con il viso rosso per via del sole che vi aveva battuto impietoso per tutta la mattina e aveva il giubbetto per metà slacciato.

Caterina avrebbe voluto davvero restare un po' da sola con lui. Non solo per godere della sua presenza, ma anche per discutere alcune questioni personali che, lasciate in sospeso per troppo tempo, ora che la cittadella era pressoché pronta per il rodaggio andavano scandagliate.

Tuttavia fece un breve cenno alla figlia, per farle capire che poteva restare e poi chiese all'amante, non capendo il motivo del suo arrivo: “Che ci fai qui?”

L'uomo, che giusto una mezz'ora prima aveva finito di ispezionare anche l'interno degli alloggi del Paradiso – come ormai la cittadella era universalmente nota – rimase un momento in silenzio e poi disse, criptico: “Ti devo parlare.”

“Puoi farlo stasera.” disse piano la Contessa, intuendo dal suo tono che anche lui stava pensando che dovessero chiarire alcuni punti del loro rapporto, prima che il milanese si trasferisse nel suo nuovo alloggio.

Gli occhi del milanese corsero rapidi dall'amante ai due figli di lei e poi, stringendo nervosamente i denti, disse: “Preferirei farlo adesso.”

La Tigre scosse il capo e, più per non dover affrontare quella questione nell'immediato che non perché fosse realmente immersa in impegni improrogabili, ribatté: “No, ho detto che ne parleremo stasera in camera nostra.”

Quell'allusione, che sanciva una verità taciuta, ma in realtà nota a tutti – ovvero che Pirovano e la Sforza condividevano stabilmente la camera da letto – portò Bianca ad abbassare lo sguardo e fingere di concentrarsi sul fratellino che, un po' turbato dal tono della madre, stava fissando gli adulti con un misto di curiosità e apprensione.

Giovanni non avrebbe voluto perdere le staffe. Era teso e nervoso per una miriade di motivi, ma ciò che più gli premeva era assicurarsi un posto al fianco della sua donna in ogni modo, anche a costo di doversi accontentare delle briciole. E, per farlo, doveva stare attento a non inimicarsela, specie per una stupida ripicca.

E invece, quando sentì Caterina liquidarlo in modo tanto perentorio, come se lui non fosse altro che uno dei tanti uomini che vivevano per servirla, non riuscì a reprimere un gesto di stizza e a frenare la voce, che, tremando, espresse i suoi pensieri con un aggressivo: “Certo, ne parliamo stasera in camera, così farai come fai sempre!”

“Non mi sembra che ti dispiaccia – contrattaccò lei, il viso che prendeva un po' di colore, mentre la lingua andava tanto veloce da non tenere conto delle orecchie della Riario in ascolto – venire a letto con me, anche se abbiamo discusso.”

Bianca sentiva le guance e il collo roventi e sapeva di essere arrossita a quell'affermazione. Stava rimpiangendo di non essere uscita dalla sala delle letture quando ne aveva avuto l'occasione. Ormai non poteva prendere il piccolo Medici con sé e sparire, perché avrebbe dato troppo nell'occhio.

“Certo che mi piace portarti a letto, ma non possiamo fare solo quello!” fece lui, sempre più alterato, del tutto dimentico dei due figli della sua amante che, in due modi diversi, stavano assorbendo ogni parola come spugne.

“E chi lo dice?” ribatté allora la Contessa, alzandosi dal suo divanetto e arrivando finalmente a fronteggiarlo: “Oltre a fare quelle e a collaborare nell'organizzazione dell'esercito, ma non vedo che altro potremmo fare noi due insieme.”

Era arrivato anche il turno di Pirovano di avvampare, ma non per vergogna o imbarazza, ma per rabbia. Non riusciva a credere che Caterina restasse così salda in una posizione che a lui sembrava non portarle alcun vantaggio. Era certo che se si fossero impegnati a costruire un rapporto più sicuro tra loro, senza lo spettro del tradimento e, se possibile, con meno incomprensioni, sarebbe stato tutto più facile.

E invece sembrava che lui, alla Sforza, interessasse per un solo motivo. O due al massimo.

“Ne parliamo stasera in camera nostra.” concluse l'uomo, pensando che tentare un secondo e più pacifico confronto fosse auspicabile.

Anche la Leonessa era dello stesso avviso, perciò, con un cenno secco della mano, gli fece capire che era d'accordo e, allo stesso tempo, lo congedò.

Dopo che il milanese ebbe lasciato la sala, ignorando deliberatamente tanto Giovannino quanto Bianca, quest'ultima non riuscì a trattenersi e chiese, con voce sottile: “Madre, va tutto bene?”

Caterina, abbattuta, si era rimessa sul divanetto, il volto incupito e le labbra strette a formare un unico filo. Scambiò uno sguardo con la figlia, indecisa su come rispondere.

Alla fine disse solo: “Va nell'unico modo in cui potrebbe andare.”

Sentendosi rispondere a quel modo, la Riario capì che non fosse il caso di indagare oltre. Avrebbe voluto saperne di più, capire i meccanismi che si erano instaurati tra sua madre e il suo amante, mossa sia da apprensione filiale, sia da una curiosità molto diversa. Anche se nel tempo aveva imparato ad avvicinare gli uomini, spingendosi sempre un po' più in là, la ragazza si rendeva conto di essere del tutto inesperta in quella che era la gestione di un rapporto sentimentale. Non ci aveva mai provato e, anche se forse un paio di occasioni si erano presentate, non aveva mai provato ad approfittarne.

Mentre ancora rifletteva sul fatto che, pur essendo sposata, sulla carta, con Astorre Manfredi, lei si sentisse a tutti gli effetti libera, Bianca vide sua madre alzarsi di nuovo dal divanetto, aggirarsi irrequieta per qualche istante, e poi raggiungere la porta.

“Ho da fare.” disse solo, lasciando così tutti i discorsi che stavano facendo prima dell'arrivo di Pirovano a metà.

 

“E cosa avrebbe ottenuto, l'Aragona?” chiese Francesco Gonzaga, facendo finta di essere ancora occupato a controllare le frecce della sua faretra.

Bernardino da Corte si guardò attentamente alle spalle. Il re di Francia era a una certa distanza da loro, all'ombra del suo padiglione, e stava ridendo con alcuni dei suoi.

L'ex castellano del palazzo di Porta Giovia quasi si odiava per i favori che aveva ricevuto e anche quell'invito a caccia – il secondo, dopo la battuta al cervo che avevano fatto a Groppello – per lui equivaleva solo alla trentesima moneta da Giuda.

“Sembra che abbia proposto al re di Francia di mettere suo figlio Francesco a capo del nuovo Ducato – spiegò il milanese, guardando di sottecchi il mantovano – e tenerla come reggente, almeno nei primi tempi.”

“La vedo difficile...” fece il Marchese, accigliandosi, la faccia asimmetrica che si faceva ancora più grottesca mentre assumeva un'espressione perplessa: “Contando che ormai è chiaro quanto Luigi voglia prendersi Napoli, dubito che metterebbe un'Aragona a Milano...”

“Lo credo anche io, anche se il re pare abbia detto di voler dare sua figlia in sposa al figlio dell'Aragona.” convenne, non del tutto convinto Bernardino: “Ma chi può esserne certo? Io non avrei creduto alla fuga del Moro, e invece è fuggito. E l'arrivo di quell'ambasciatore della Tigre di Forlì...”

Francesco dovette dargli ragione, ma solo sul secondo punto. Di Ludovico Sforza lui era arrivato a pensare tutto il male del mondo, quindi ce lo vedeva benissimo a rintanarsi a Innsbruck come una coniglio, ma il tentativo della Leonessa di Romagna di cercare un dialogo con i francesi non lo convinceva.

Aveva avuto modo di conoscerla solo di sfuggita, ma quello che aveva fatto negli anni era risaputo in tutta Italia. Una donna tanto coriacea e testarda che si abbassava a chiedere agli invasori di tener conto della sua amicizia con Firenze non era uno spettacolo né gradevole né scontato.

“Per me ha in mente qualcosa.” borbottò il Gonzaga tra sé, quasi sperando che fosse vero, benché per il momento si trovasse nello schieramento opposto al suo.

Bernardino stava per ribattere in qualche modo, ma alle loro spalle si era appena stagliata una figura che gli impose il silenzio con la sua mera presenza.

Il figlio del papa aveva compiuto ventiquattro anni da pochi giorni, ma emanava una sicurezza di sé che incuteva un certo timore anche in uomini con il doppio della sua età. Chi l'aveva conosciuto quando ancora portava l'abito talare avrebbe quasi fatto fatica a riconoscerlo, e non per le cicatrici veneree che gli sfiguravano il volto – altrimenti bellissimo – ma per il diverso contegno che aveva assunto negli ultimi tempi.

Per quella battuta di caccia al cinghiale aveva deciso di indossare un abito sfarzosissimo, bordato di raso blu, e portava un cappello ornato di piume perfettamente linde e morbide. Il Marchese di Mantova, che fino a poco tempo prima si sarebbe messo a ridere all'idea di vedere Cesare Borja imbracciare un arma e cacciare personalmente una bestia, quando l'aveva incontrato il giorno prima si era subito dovuto ricredere.

“Mirabello è un ottimo posto, non credete – fece il Duca di Valentinois – per una battuta di caccia al cervo.”

“Ottimo davvero.” fece eco Bernardino da Corte, chinandosi in modo tanto profondo da arrivare quasi a sbilanciarsi.

“Sì, Mirabello è ottimo, per la caccia al cervo.” commentò invece il Gonzaga, non riuscendo a tacitare la spontanea antipatia che provava verso il figlio del papa: “Peccato che questa sia la brughiera della Certosa di Pavia, e che noi siamo qui per cacciare cinghiali.”

La ventata di ghiaccio che gli occhi freddi del Borja riversarono su Franceso fu così inattesa e penetrante che perfino il Marchese, che era un uomo non facile a spaurirsi, si pentì subito di aver usato un tono di dileggio tanto evidente.

“Credete di essere divertente.” disse il giovane, smorzando un po' il gelo del suo sguardo e sollevando appena l'angolo delle labbra, nella pallida imitazione di un sorriso conciliante: “Io vi dico solo questo: mia moglie, in Francia, aspetta mio figlio, e io, assicurata così la discendenza a mio padre, Sua Santità Alessandro VI, sto solo aspettando che arrivi l'ordine di iniziare la mia campagna.”

Bernardino da Corte era così immobile e silenzioso da parere una statua, mentre il mantovano, sudando freddo, si affrettò a chinare un po' il capo, come in segno di rispetto, ma appena schiuse le labbra per dire qualcosa, Cesare riprese, molto meno sibillino: “Quando forgerò il mio impero, non ci sarà spazio per chi è contro di me.”

Con un saluto molto rigido, il Borja dedicò un'occhiata di commiserazione all'ex castellano del palazzo di Porta Giovia e una molto più aggressiva al Marchese, per poi allontanarsi e dirigersi verso il re di Francia.

“Aut Caeser, aut nihil.” borbottò Francesco, capendo finalmente perché tutti attribuissero quella citazione al Borja.

Non era nata da lui, ovviamente, ma gli si adattava anche troppo bene. Per certi versi, anzi, era spaventoso, quanto fosse su misura per lui.

“Come..?” chiese, confuso, Bernardino, che di latino non sapeva pressoché nulla se non qualche proeghiera.

“Lasciate stare...” sbuffò il Marchese, dando un colpetto alla faretra e mettendosela in spalla, pronto per partire per la caccia: “Lo capirete da solo anche troppo troppo presto, temo.”

 

“Ormai Dionigi Naldi ha respinto Alvise Venier così tante volte – disse a voce bassa il Capitano Bezzi, riassumendo, a beneficio del Governatore Ridolfi, appena arrivato, quello che era stato detto fino a quel momento durante il Consiglio di Guerra – che può lasciare la sua posizione senza problemi.”

“E lo farete andare a Imola?” chiese il fiorentino, guardando la Contessa in modo strano.

“Sostituirà Gian Piero Landriani, come previsto.” assicurò lei, una mano appoggiata al tavolo delle mappe e l'altra a sostenere Giovannino, che le stava aggrappato al collo.

Ridolfi storse la bocca, senza dire nulla. La Tigre avrebbe voluto far finta di non vedere quella smorfia, ma non sopportava l'idea che qualcuno del suo Consiglio ristretto la pensasse diversamente da lei e non lo dicesse apertamente.

Così, facendo attenzione a non lasciar trapelare la propria irritazione, domandò: “Credete non sia una buona idea?”

“Naldi è uno dei migliori comandanti che abbiamo.” si oppose subito Simone: “Ritengo inopportuno sprecarlo così.”

“Trovate che metterlo come castellano a Imola sia uno spreco?” chiese Caterina, piegando di lato la testa: “Perché?”

Nella Sala della Guerra era sceso un silenzio così denso da essere quasi palpabile. Il Governatore si sentiva addosso gli occhi di tutti e sapeva che dalle parole che avrebbe detto sarebbero dipese molte cose.

“Dico solo – iniziò, procedendo con prudenza, come se stesse camminando su un terreno molto accidentato – che in quella che si prospetta come una guerra persa in partenza, sprecare un uomo come Naldi a difendere una rocca che comunque cadrà, invece di impiegarlo nella difesa dei cittadini di Forlì, sia da sciocchi.”

“Quanta esperienza avete in tattica e strategia militare?” domandò a bruciapelo la Contessa.

Ridolfi, che in effetti era sempre stato più un uomo di calcolo che non d'azione, tentennò quell'attimo in più che bastò a tutti i presenti per capire che la risposta migliore sarebbe stata un semplice 'nessuna'.

“Galeazzo?” fece allora la Sforza, rivolgendosi al figlio, affinché spiegasse l'utilità di quella mossa.

“Messer Naldi – prese a dire il ragazzino, orgoglioso di essere stato chiamato in causa, ma teso per paura di aver sbagliato la propria valutazione – è davvero uno dei migliori comandanti che abbiamo, e quindi metterlo a difesa della rocca di Imola ci permetterà di guadagnare tempo per riorganizzare le difese a seconda della mole di uomini che il re di Francia manderà in Romagna.”

“Come vedete – concluse fredda la Leonessa – mio figlio, che non ha ancora quindici anni, ha capito perfettamente, mentre voi...”

Simone, offeso per quell'ultimo inciso più che per tutto il resto, rimase zitto a fatica, ma, ben conscio che un'altra parola sbagliata avrebbe potuto sancire la sua rovina come Governatore, si mise in disparte e non disse più nulla.

Dopo qualche scambio di opinioni e dopo le ultime valutazioni del caso, la Sforza decise che nei giorni seguenti avrebbe selezionato di persona circa centottanta uomini da dare a Naldi come seguito prima della sua partenza alla volta di Imola.

Nel sentire ciò, Giovanni da Casale, che non aveva osato prendere parte attiva a quella riunione, sollevò appena le sopracciglia, scorgendo nella dichiarazione dell'amante un doppio senso che, di fatto, non c'era.

Anche se il milanese sapeva che la Tigre si era riferita solo ed esclusivamente alle qualità militari dei soldati, nulla gli poteva togliere di mente l'immagine di lei che osservava assorta tutti quei giovani, pensando a ben altro che non alle loro abilità con la spada e lo scudo.

Quando finalmente la Contessa chiuse la riunione, Luffo Numai la prese un momento in disparte, per parlarle di alcune questioni tecniche che riguardavano il progetto, ormai sempre più chiaro, della messa in sicurezza dei figli di lei. La donna allora lasciò Giovannino a Galeazzo e si dedicò al forlivese.

Pirovano, che era stanco e aveva fame, non avendo voglia di aspettare lì, stando a debita distanza come un servo, le si avvicinò un momento e le sussurrò all'orecchio: “Vado a mangiare. Ci vediamo poi in stanza, che dobbiamo parlare, se non te lo ricordi...”

Caterina annuì appena e tornò subito a concentrarsi su Numai.

Stavano valutando tutte le possibilità per garantire un corridoio sicuro ai figli della Sforza, che, almeno in quel progetto preliminare, sarebbero passati dalla casa di Luffo per poi partire verso Firenze, cercando di non dare nell'occhio.

“Andranno spostati mentre i francesi sono vicini.” spiegò a voce bassissima Caterina: “O lo scopriranno e potrebbe anche distrarre una pattuglia per provare a catturarli prima che arrivino a Firenze.”

“Sempre che Firenze li difenda...” soppesò l'uomo, che non riusciva a fidarsi appieno della Repubblica, specie al pensiero che Lorenzo il Popolano fosse uno dei possidenti più influenti della Signoria.

“Hanno la cittadinanza fiorentina, per la legge sono figli di Giovanni.” mise in chiaro la Leonessa, senza ammettere repliche: “Firenze deve accoglierli e basta.”

Numai non volle contraddirla, tenendo per sé i dubbi residui. Appena prima di dire ancora qualcosa, però, un suono lieve, ma ben distinto, lo indusse ad avvicinarsi alla finestra.

Anche la donna aveva avvertito qualcosa di diverso, una musica che non sentiva ormai da settimane intere. Siccome c'era ormai buio, nessuno si era accorto del cielo che andava via via annuvolandosi.

“Piove.” disse, quasi senza crederci, la Leonessa.

“Piove...” ripeté Luffo, scorgendo nell'oscurità il distinto scrosciare di una pioggia fitta, ma leggera.

La Contessa non trattenne un sorriso, soggiungendo: “Con un po' di fortuna, tra poco potremo togliere la peste dalla lista delle spese dello Stato.”

Numai non voleva lasciarsi trascinare da facili entusiasmi, ma, in effetti, trovava che quell'acqua, tanto attesa e sospirata da essere stata invocata perfino dai preti del Duomo quella domenica, fosse un dono del cielo.

“Lo spero, mia signora.” sorrise.

“Adesso devo andare...” soffiò lei, dopo un ultimo sguardo alla pioggia: “Mi aspettano.”

“Mia signora...” la frenò il forlivese, un po' incerto.

“Sì?” Caterina non aveva capito il motivo di quel tono restio del Consigliere.

“Non voglio suonare né invadente né irriverente nei vostri confronti – si schermì lui, prima di arrivare al punto – ma, vi prego, se avete delle cose da chiarire con messer Pirovano, fatelo adesso oppure dategli il foglio di via.”

La Sforza rimase basita da una simile osservazione, mossa, per di più, da un uomo come Luffo.

“Lo Stato ha bisogno di una guida solida come la vostra e non si può permettere che un uomo vi distragga al punto da distogliervi dai vostri doveri.” cercò di spiegarsi meglio lui: “Quindi, vi prego, o trovate con lui un'intesa, tenendovelo come amante e come sottoposto, oppure, se non riuscite a gestirlo, mandatelo via.”

La Tigre sapeva che cominciava a esserci qualche malcontento riguardo Giovanni da Casale, e aveva anche capito che il motivo era proprio quello che suggeriva il forlivese.

“Io...” era in difficoltà, e non sapeva nemmeno se fosse il caso di adirarsi con lui per la libertà che si era preso nel parlarle a quel modo o se, al contrario, dovesse essergli riconoscente.

Numai pareva colto dallo stesso dubbio, ma, al contrario della Contessa, lui non poteva far altro che attendere una sua reazione.

“Cercherò di fare quello che posso.” concluse lei, distogliendo lo sguardo.

“So che farete la cosa giusta.” la incoraggiò lui.

I due, a quel punto, lasciarono la Sala della Guerra, accompagnati dallo scrosciare della pioggia, che si era fatto molto più intenso.

Non avendo voglia di andare nella sala dei banchetti, la Leonessa passò dalle cucine e prese qualcosa per rifocillarsi. Andò in camera, trovandola ancora vuota, e così ebbe il tempo di mangiare qualcosa e bere un po' di vino, riempiendosi lo stomaco in attesa di quello che sarebbe successo una volta che Piorovano fosse arrivato.

Quando sentì la porta aprirsi, cercò di tenere a mente le parole di Numai, ma, prima ancora che potesse alzarsi dalla scrivania e iniziare a dire qualcosa, fu Giovanni a parlare: “Caterina, dobbiamo parlarci in modo schietto, stavolta, basta giochi di parole e basta sotterfugi e compromessi, o rischiamo di perdere una guerra ancora prima di prendere in pugno una spada.”

“Hai ragione.” annuì lei e, con un sospiro, si preparò a quella che poteva trasformarsi in una lunga notte insonne.

 

 
 
   
 
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