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Autore: Adeia Di Elferas    05/08/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Malgrado la volontà di entrambi di mettere tutte le carte sul tavolo, sia Caterina sia Giovanni non avevano più aperto bocca. Il silenzio durava ormai da almeno dieci minuti e l'unico scambio che intercorreva tra i due consisteva in qualche sguardo e in sporadici sospiri.

La Sforza avrebbe voluto spiegare al suo amante, una volta per tutte, che lei lo vedeva solo ed esclusivamente come un uomo con cui passare la notte e come un soldato su cui contare in caso di guerra. Avrebbe davvero voluto potergli dire che per lui provava qualcosa di più, ma si era convinta ormai da tempo di non essere più in grado di innamorarsi davvero di qualcuno. Giacomo Feo e Giovanni Medici erano stati gli unici due per i quali aveva provato qualcosa di così forte e totalitario da dimenticare tutto il resto.

Con Manfredi aveva instaurato un rapporto tutto sommato più profondo che con tutti gli altri amanti che aveva avuto dopo il terzo marito, e tuttavia anche con lui la questione non era mai andata oltre un determinato confine.

Nel frattempo Pirovano stava cercando di lottare con se stesso per non riversare sulla donna che aveva davanti tutta la frustrazione che provava. Erano moltissime le cose su cui avrebbe voluto discutere, anche a costo di litigare in modo feroce, ma non aveva il coraggio di toccare nessuno dei punti che gli ronzavano in mente.

“Col Medici – aveva sentito dire da uno dei Capitani, proprio quel giorno, mentre tutti aspettavano che la Tigre arrivasse nella Sala della Guerra – si appartava ovunque!”

“Appartava...” aveva ridacchiato un altro, facendo un'espressione cameratesca che aveva trascinato nelle risa tutti i presenti che potevano ricordare del periodo in cui a corte c'era Giovanni il Popolano: “Diciamo pure che lo facevano dove capitava, senza farsi tanti problemi!”

Nel sentire quelle battute, che erano proseguite, scandagliando i dettagli degli incontri non troppo furtivi del Medici e della Tigre, il milanese aveva avuto un brivido. Non tanto per la libertà di parola che la Leonessa stessa sembrava incline a concedere ai suoi soldati, ma per ciò che quelle parole avevano rievocato in lui.

Gli sembrava passato un secolo da quando, cogliendolo di sorpresa, ma trovandolo pronto, Caterina gli si era avvicinata nella sala delle armi, proponendoglisi per la prima volta, apparentemente senza ammettere rifiuti.

“Se io resto con te – cominciò a dire Pirovano, spinto proprio da quel ricordo – tu mi sarai fedele?”

Caterina, in piedi davanti a lui, scrutò per un istante il suo volto stanco, illuminato dalle candele in modo quasi sinistro. Avrebbe voluto dirgli solo di sì e calmarlo, ma si erano promessi di parlare in modo franco e la Tigre si riteneva una donna di parola.

“Non posso promettertelo.” rispose allora lei, mostrando i palmi delle mani.

Giovanni apprezzava la sincerità. Avrebbe preferito un semplice 'sì', ma almeno, sentendosi dire così, ebbe la certezza che la sua amante avesse deciso di non prenderlo più in giro.

“Perché?” le domandò, la voce ridotta a un filo.

“Perché non sono brava a controllarmi.” disse lei, senza scomporsi: “E comunque, non te ne farei certo una colpa, se anche tu ogni tanto ti cercassi un'altra donna.”

“Puoi scordartelo che io stia con altre donne, se posso avere te. Non sono una bestia come lo era Manfredi. E anche tu, quando stavi con il tuo Giacomo o col Medici però non avevi...” prese a dire lui, senza ragionarci a sufficienza.

Sentir citare il Popolano, e, ancor di più, il Feo, fece agitare la Sforza che, sulla difensiva, ribatté all'istante, impedendogli anche di finire la frase: “Loro li ho sposati. Li amavo. Non mi serviva altro, quando stavo con loro.”

“Io ho avuto pazienza.” riprese con calma Giovanni, lo stomaco contratto, ma ben chiara in mente la necessità di giungere a un dunque: “Avevi già me, quando ti sei presa Manfredi, poi hai preferito lui e l'ho accettato. Ma adesso lui è morto, mentre io sono ancora qui e l'ho capito da un pezzo che tu, da sola, non sai stare.”

Un po' spiazzata da quella che a lei suonava come un'arringa, la Contessa abbassò lo sguardo e attese che fosse il milanese a proseguire.

“Voglio solo sapere se riusciresti a essermi fedele.” ribadì lui.

“Ti ho già detto che non lo so.” ripeté lei.

“Allora sposiamoci. Se riesci a non tradire solo chi ti mette un nodo nuziale al dito, sposami e non pensiamoci più.” fece Pirovano, a un passo dal perdere le staffe.

“Io non mi sposerò mai più.” rifiutò la Sforza.

A quel punto Giovanni si chiuse in un silenzio strano. La fissava, gli occhi che correvano dal suo viso al suo corpo di continuo. Era come se stesse mettendo sulla bilancia tutto quanto, valutando quanto valesse realmente ciò che aveva deciso di comprare.

“Va bene.” disse alla fine, allargando le braccia e facendo mezzo passo verso di lei: “So avere molta pazienza. Voglio restare con te.”

“Restare significa restare fino alla morte.” precisò lei: “Quando arriveranno i francesi, dovrai rimanere al mio fianco e sai che non abbiamo speranza di vincere.”

“Non voglio altro che morire accanto a te.” assicurò lui: “E, nell'attesa della morte, vivere con te.”

“Dovrai andare alla cittadella.” gli ricordò lei: “E quando finiremo sotto assedio, non riuscirai più a tornare alla rocca da me.”

Pirovano, a quella prospettiva, sembrò avere un piccolo cedimento. Si morse il labbro e curvò appena le spalle.

Alla fine, però, convenne: “Lo so, e mi sta bene.”

“Quindi rovineresti la tua vita per una donna che ha quindici anni più di te?” chiese Caterina, che, contro il suo stesso interesse, voleva fare di tutto per disilludere il suo amante, in modo tale da farlo restare solo se davvero fosse stato deciso a non lasciarla fino all'ultimo respiro.

“Per una donna che amo.” la corresse lui: “Sì.”

La Leonessa sbuffò: “Una donna che ami..! Non mi conosci nemmeno...”

“So quanto basta.” mise in chiaro lui, facendosi più burbero: “E ti amo, e non voglio più stare senza di te.”

“Io non posso offrirti più di questo.” gli ricordò lei, indicandosi, e sottintendendo tutto quanto in un semplice sguardo.

“Quindi non puoi promettermi di essermi fedele, né di tenere in conto la mia opinione...” parafrasò lui.

La Sforza tacque, e tanto bastò come assenso.

“Io..:” Pirovano aveva l'aria confusa, disorientata, come se quell'epilogo non assomigliasse nemmeno lontanamente a quello che si era aspettato di dover affrontare: “Io allora devo pensarci.”

Senza riuscire a dire nulla per trattenerlo, Caterina lo fissò mentre indietreggiava verso la porta e, anche quando l'uomo uscì, lasciandosi alle spalle solo silenzio, tutto ciò che le riuscì di fare fu starsene immobile là dove lui l'aveva lasciata.

'Questa volta lo perdo.' si disse, con un rammarico così forte da portarla quasi alle lacrime.

Sentì le gambe cedere, conscia del rischio di non avere più Giovanni da Casale al proprio fianco e, proprio mentre sentiva di doversi sentire triste per la perdita di un uomo che, in senso lato, aveva amato molto, l'unico sentimento che la pervadeva stava diventando la rabbia. Il milanese, prima ancora di un amante e di un compagno di vita, per lei era una sicurezza militare. Era un comandante abile, per quanto giovane, corretto e coraggioso. Aveva contato molto su di lui e l'idea di non poterlo più fare la metteva nella spiacevole situazione di dover trovare un sostituto, e anche in fretta.

Con lentezza, si spogliò e si andò a coricare. Accarezzò con lentezza il cuscino che di solito usava Pirovano e cominciò a pianificare il da farsi, nel caso in cui fosse davvero arrivata al punto di non ritorno con lui.

'Bernardino da Cremona – pensò, mentre con un velo di colpa rivedeva davanti a sé anche il di lui amico Baccino – potrebbe essere un valido sostituto. Oppure potrei tenere alla cittadella Naldi e mandare a Imola qualcun altro, magari mio fratello Piero...'

Perdendosi così nelle sue elucubrazioni, la donna lasciò che la notte scivolasse su di lei come un manto silenzioso, nell'attesa di sapere come sarebbero state per lei le notti a venire: se tra le braccia dell'orgoglioso Giovanni o se raminghe, come quelle che aveva trascorso quando non era riuscita a trovare un uomo tanto stabile da regalarle un briciolo di equilibrio.

 

“Ed è una notizia così grave?” chiese Alfonso, restando immobile a guardare Lucrecia.

La giovane schiuse le labbra un paio di volte, poi scosse il capo, ma poi si risolse a dire: “Se me lo chiedi, significa che tu non conosci mio fratello.”

L'Aragona in parte capiva i timori della moglie. La Borja gli aveva raccontato diffusamente un sacco di cose e, per quello che aveva saputo su di lui, Cesare era davvero quello che si poteva definire un diavolo.

Tuttavia il ragazzo non capiva fino a che punto potesse essere per loro un problema, specie adesso che si apprestava a dar inizio a una campagna militare che, di certo, l'avrebbe distratto, e, si sperava, tenuto a debita distanza da loro.

“In ogni caso – concluse il napoletano, che voleva solamente che sua moglie tornasse a letto accanto a lui – non credo che verrà presto qui a Nepi.”

Si erano spostati in quella città in attesa del papa, che sarebbe arrivato più o meno nel giro di un paio di giorni per discutere con loro riguardo l'incidente diplomatico che li aveva visti protagonisti.

“Tu non conosci mio fratello.” disse Lucrecia, per la seconda volta in pochi minuti.

La giovane, che aveva appena ricevuto quella missiva in cui le si spiegava che il suo augustissimo fratello, il Duca di Valentinois, era in Italia, vicino a Milano, non riusciva a calmarsi. Non appena le avevano recapitato la lettera, d'urgenza, direttamente nella sua camera da letto, si era sentita mancare.

Sapeva che Cesare non avrebbe avuto il nulla osta per partire dalla Francia a meno che sua moglie Charlotte non fosse rimasta incinta. La Borja aveva pregato tutti i santi che conosceva, nella speranza che la sorte avesse dato a suo fratello una sposa sterile. E invece pareva che non la fosse, anzi, aveva concepito abbastanza rapidamente. Ma in fondo era normale, per una diciannovenne in salute. Era la pretesa di Lucrecia a essere insensata.

“Che poi non sei sicura che sia stato lui a uccidere tuo fratello Jaun.” fece Alfonso, cercando di farsi coraggio.

La ragazza guardò il marito, come se lo vedesse per la prima volta solo in quel momento. Anche se fin dal giorno del loro primo incontro aveva sempre visto in lui un uomo appetibile, di bell'aspetto e buoni modi, ora che lo osservava alla luce del discorso che stavano facendo, intravedeva in lui anche un altro aspetto. Malgrado il suo fisico già prestante, il suo sguardo limpido e i suoi lineamenti delicati, ma fieri, l'Aragona era molto più ingenuo di quanto non lo fossa lei.

“Ammettiamo che non abbia ucciso lui Juan – fece allora la Borja, convinta che fosse il momento di dare un briciolo di speranza al marito, senza però illuderlo troppo – sono comunque sicura che sia stato lui a uccidere Perotto.”

“Perotto ti aveva messa incinta.” ricordò Alfonso, quasi che quella potesse essere una scusante valida.

Lucrecia, allora, appoggiò la missiva alla scrivania e tornò verso il letto. Accarezzò lentamente la guancia del marito, su cui stava ricrescendo un po' di barba bionda, e poi si specchiò nei suoi occhi, capendo in quel modo quanto la sua ultima affermazione fosse più un grido di gelosia, che non una giustificazione dei misfatti di Cesare.

“Te l'ho detto. È complicato.” disse, in un soffio, spostandosi un po' per riuscire a stendersi: “La storia del mio povero Giovanni è tutta un mistero.”

Alfonso avrebbe voluto dirle che non era affatto un mistero. Era un affare semplice, anzi. Lei era ancora sposata con lo Sforza, un uomo che non la voleva e che lei non voleva. Si era trovata vicina questo Pedro, giovane, aitante, e non aveva resistito.

“Non provare a sondare i misteri della mia famiglia.” rimarcò Lucrecia, le mani sul pancione, mentre cercava di mettersi sul fianco.

“La tua famiglia adesso sono io...” provò a dire lui, smorzato da quell'affermazione.

“Dobbiamo ancora pensare a cosa diremo a mio padre, quando arriverà qui a Nepi.” bisbigliò la ragazza, sempre accarezzandosi il ventre gonfio: “Dobbiamo essere convincenti, o Sua Santità non ci penserà un momento a rendere suo nipote orfano di padre ancor prima che nasca...”

L'Aragona deglutì e poi, sistemandosi accanto alla sua sposa, la strinse a sé come meglio poteva e, trattenendosi dall'esprimere il suo pensiero – ovvero che solo un padre snaturato avrebbe ucciso un genero di cui la figlia era innamorata – ribatté: “Saremo convincenti, non preoccuparti.”

 

Caterina non aveva chiuso occhio. Lo spettro della solitudine la stava tormentando senza tregua e, quando aveva sentito le campane del paese battere le quattro del mattino, si era detta che Pirovano non sarebbe tornato più.

Se lo immaginava in qualche bordello, intento a mettere in atto esattamente quello che lei stessa, sull'onda del momento, gli aveva suggerito di fare: trovarsi un'altra donna.

Si girava e rigirava tra le lenzuola, senza trovare pace. Il suono della pioggia, in sottofondo, non faceva che peggiorare il suo stato di inquietudine. In un angolo buio di lei, infatti, quel rumore continuo e ancestrale le ricordava il primo bacio con il suo Giacomo e, con quello, tutto ciò che ne era seguito.

Nell'arco di poche ore aveva alternato la rabbia all'incredulità, passando dal dolore all'apatia totale, finendo per lasciarsi comandare solo dalla paura.

Detestava sentirsi così. Il non sapere cosa ne sarebbe stato di lei la faceva tornare la bambina di nemmeno dieci anni che aveva dovuto affrontare un destino più grande di lei, finendo tra le fauci di un uomo come Girolamo Riario.

Stava quasi per alzarsi e prepararsi per uscire nei boschi, tanto per spazzare via quel poco che restava della notte, in barba alla pioggia che l'avrebbe inzuppata fino al midollo, quando la porta della stanza si aprì di scatto.

Ne entrò un Giovanni da Casale inzaccherato e gocciolante. Nella luce tenue delle tre candele rimaste accese, l'uomo puntò i suoi occhi cupi verso l'amante e, senza dire nulla, si tolse il giacchetto e il camicione. Poi, con metodo, si sedette sul letto, sfilandosi gli stivali e poi lasciò cadere in terra anche le brache.

Rimasto completamente nudo, scrollò la testa, per cercare di asciugarsi un po' i capelli, e disse, come nulla fosse: “Fuori c'è un tempo pessimo.”

Caterina avrebbe voluto chiedergli dove fosse stato fino a quel momento e, soprattutto, se quel suo ritorno significasse che sarebbe rimasto davvero fino alla fine.

“Non credevo di trovarti ancora qui.” disse lui, stendendosi accanto a lei, apparentemente rilassato, come se stesse discorrendo del più e del meno.

“E dove pensavi che fossi?” domandò lui, le narici invase dall'odore pieno della notte di pioggia che Pirovano aveva portato con sé.

“Credevo fossi nella stanza qui affianco con qualche soldato.” ribatté lui, con un velo di freddezza, ma poi, sollevando con un po' di riluttanza l'angolo della bocca, soggiunse: “Infatti sono andato a bussare di là, prima. Perché se fossi stata lì, giuro che avrei fatto di tutto per convincerti a tornare di qui con me.”

“Hai deciso di restare?” chiese allora la Sforza, uno spiraglio di ottimismo che le si apriva nel petto.

In tutta risposta, con il sospiro che di solito emetteva quando stava per cimentarsi in qualcosa di impegnativo, il milanese si voltò verso di lei e, con una mano che iniziava a sollevarle la veste, la baciò, per poi dire, staccandosi appena un secondo dalle sue labbra: “Io ti amo.”

A quel punto la Tigre non volle più fare domande, né seminare altri dubbi. Rispose all'assalto del suo amante con voracità, con il sollievo di poter riavere per sé qualcosa che temeva già perduto per sempre.

La pioggia manteneva il cielo più scuro del solito, lasciandoli immersi quasi nell'oscurità anche quando si arrivò al sorgere del sole. Pirovano aveva dato tutto quello che poteva dare, in una sorta di rivendicazione del suo territorio, atta anche a dimostrare alla sua donna il suo valore, come se così tentasse di dimostrarle che lui era quello giusto e che, con un po' di buona volontà, se lo sarebbe potuto far bastare.

La Contessa, quando se lo trovò addosso stremato e ancora ansante, se lo strinse al seno, con la medesima possessività, come se volesse ricordargli che era lei quello che decideva se tenerselo accanto o meno.

Prima che potesse intimargli di starsene zitto e basta, per non rovinare la quiete che erano riusciti a ritrovare, sentì Pirovano cominciare a sussurrarle parole d'amore e scuse, mescolate assieme come in una preghiera.

Erano frasi anche un po' banali, tipiche dei ragazzi innamorati. Le stesse, riconobbe Caterina con un brivido di imbarazzo, che lei e Giacomo si erano scambiati per anni, nel segreto del loro Paradiso.

Quel dettagli le fece pensare che in fondo Pirovano era solo un ragazzino, mosso dal desiderio e dalla passione tipica della sua giovane età. Gli anni che li dividevano si sentivano, o, almeno, lei li sentiva, sempre di più e sempre con maggior irrequietezza. Ma poteva passarvi sopra, se dall'altra parte le arrivava la certezza di una presenza costante e duratura.

Mentre la voce di Giovanni si affievoliva, facendosi sempre più impastata, le sue labbra si muovevano man mano più lentamente, solleticandola con minor vigore. Quando infine il giovane si addormentò, ancora stretto a lei, la Leonessa gli accarezzò con dolcezza la nuca, chiedendosi silenziosamente come avessero fatto, due come loro, a trovarsi uniti a quel modo in un mondo che cominciava a cadere in pezzi.

 

Federico Flavio si sentiva molto simile a una spugna, mentre cercava di raggranellare ogni più piccola notizia da riferire poi alla sua padrona, quando fosse tornato a Forlì.

Una delle prime cose che all'ambasciatore erano balzate all'occhio era stata lo scarso rispetto con cui il re di Francia trattava quelli che gli andavano a chiedere protezione o favore: uno per tutti, Galeazzo Sanseverino, che era arrivato a Milano convinto di ottenere dal cristianissimo re una condotta e che invece, dopo i primi giorni di festa, si era visto mandare al confino a Ferrara, perché ritenuto troppo a rischio di tradimento.

Anche gli Este e il Gonzaga – che pure aveva portato con sé re Luigi per i boschi e per i bordelli della città – sembravano non aver ottenuto molto di concreto, dalle chiacchiere del francese, e i Bentivoglio, che pure erano stati tra i più volonterosi nel dimostrare il loro appoggio, erano più o meno allo stesso livello di incertezza.

L'unica che sembrava non aver dubbio alcuno sulla validità delle promesse di Luigi era Isabella d'Aragona.

Flavio aveva voluto sapere tutto del presunto accordo tra lei e il re, ma si era convinto, come tutti, che la giovane napoletana stesse incorrendo in un gravissimo errore, fidandosi così ciecamente di lui.

Tanto per dirne una, e Federico trovava questo il vero punto a sfavore della buonafede del francese, malgrado tutte le belle parole che aveva speso davanti a calici colmi di vino, il piccolo Francesco era ancora chiuso nel castello di Pavia, mentre sua madre era fuori, ad aspettarlo, e non si accennava in alcun modo a far ricongiungere i due.

Quello che era rimasto della corte del Moro – qualche raro intellettuale o artista che non aveva voluto seguire il Duca – cercava di barcamenarsi come meglio poteva per restare nelle grazie del nuovo padrone di casa, ma il forlivese era certo che il re si sarebbe tenuto appresso solo uomini della risma di Leonardo, scartando tutti gli altri.

Era proprio quell'eclettico scienziato che aveva attratto la sua attenzione più di tutti e quel giorno, appena prima di andare finalmente a parlamentare – animato da scarsissime speranze di buona riuscita – con Luigi era riuscito a incrociarlo nel cortile del palazzo.

Il domine magister aveva puntato per un istante i suoi occhi chiari ed estremamente vivi in quelli più banali e scuri dell'ambasciatore, ma sembrava esserne rimasto colpito.

“Siete qui per conto della Tigre di Forlì?” chiese, con tono curioso, fissandolo come se avesse visto una bestia rara.

Flavio annuì, ben felice di avere un pretesto per scambiare due parole con quell'uomo eccezionale, di cui tanti lì a Milano tessevano le lodi: “Sì, sono qui a nome della Contessa Sforza per avere un colloquio con il re di Francia.”

Leonardo sollevò un sopracciglio e, sistemandosi in modo quasi civettuolo una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio, commentò: “Buona fortuna, allora.”

“Pensate di restare a Milano?” chiese Federico, fermando l'artista al solo scopo di poter scambiare con lui qualche parola in più.

Il vinciano cambiò subito espressione. Da rilassata e quasi allegra, la sua faccia si fece cupa e sospettosa.

Leonardo si stava chiedendo il perché di una simile domanda. E, soprattutto, si stava chiedendo se qualcuno sapesse dei maneggi che stava cercando di fare. Se non fosse stato per la vigna che il Moro gli aveva donato e che lui amava moltissimo, probabilmente avrebbe lasciato Milano molto prima del Duca stesso. Però ormai il momento giusto era passato e stava cercando, nel modo più discreto possibile, di trovarsi un impiego lontano da Luigi.

Forse un re così potente avrebbe potuto pagarlo bene e farlo vivere tranquillo fino alla morte, ma nessuno sapeva cosa passasse per la mente di quell'uomo. Per come lo conosceva Leonardo, era il tipo di persona che da un giorno all'altro poteva decidere di sbarazzarsi di tutto ciò che gli ricordava Ludovico Sforza, arrivando anche a uccidere quelli che erano stati un tempo fedeli al milanese.

Il domine magister preferiva evitare una fine tanto stupida e inutile.

“Non volevo essere scortese...” si premurò di dire Flavio, accortosi del passo falso.

“Mandate i miei saluti alla vostra signora.” tagliò corto Leonardo, sentendo che per quel giorno il suo umore sarebbe stato guasto almeno fino a sera: “Fatele sapere che la ricordo sempre con piacere.”

Il forlivese, che non sapeva che la Sforza conoscesse quel vinciano, fece un mezzo inchino e poi, quando l'altro fu già a qualche passo da lui, soggiunse, ancora a mo' di scuse: “Mi auguro di rivedervi, e spero di non risultare inopportuno, la prossima volta!”

Con un sospiro, l'ambasciatore fece gli ultimi gradini e poi attraversò il corridoio che l'avrebbe portato alla sala in cui Luigi dava udienza a tutti i disperati che cercavano la sua approvazione o il suo perdono.

Con un respiro fondo, Federico arrivò alla porta e attese che gli venisse dato il permesso di entrare.

'Che Dio mi aiuti' si disse, mentre varcava la soglia della sala, rendendosi conto solo in quel mentre che la sua missione, rispetto a quella di tutti gli altri inviati d'Italia, era la più difficile, per non dire l'unica impossibile.

 

“Non mi hai ancora detto dove sei andato l'altra notte...” disse piano Caterina, sentendo il respiro calmo di Pirovano alle sue spalle.

Stavano aspettando che arrivassero gli altri componenti del Consiglio ristretto della Contessa, e ne avevano approfittato per discutere un po' in privato delle prossime mosse. Stavano pianificando la distribuzione delle scorte alimentari e avevano architettato un buon piano di ripartizione delle truppe, quando Imola fosse caduta.

Era deprimente pensare in partenza che la loro città più a nord non avrebbe resistito a lungo all'attacco dei francesi, malgrado il progetto di mettere Dionigi Naldi come castellano della rocca, ma era una cosa da valutare, perché sia la Tigre sia Giovanni sapevano che sarebbe successa.

“Quando?” chiese lui, facendo finta di non capire.

“Sei rientrato in camera dopo ore, fradicio di pioggia...” disse piano lei, già un po' pentita di aver risollevato la questione.

Il milanese fece un mezzo sospiro e poi, scostandosi un po' per arrivare ad affiancarla, rispose, con fin troppa calma: “Sono andato a piedi in uno dei postriboli che ci sono vicino al quartiere militare, e sia andando, sia tornando, la pioggia mi infradiciato.”

La Sforza dovette mordersi la lingua, per non dire nulla. Lei per prima gli aveva detto che, se avesse cercato altre donne, non gliene avrebbe fatto una colpa. Con che coraggio poteva mettersi a litigare per quel motivo?

“Comunque non sono riuscito a combinare nulla...” soggiunse lui, le guance che si macchiavano di rosso e gli occhi che la sfuggivano: “Quindi mi sono preso un sacco di pioggia per niente.”

Caterina avrebbe voluto celare meglio il proprio sollievo, ma immaginava che dal suo volto si notasse benissimo quanto fosse felice di sapere che quella notte il suo amante non l'avesse tradita.

“Però al postribolo ho intravisto tuo figlio Ottaviano e non mi è piaciuto per niente quello che stava...” cominciò a dire Pirovano, ma sulla porta erano comparsi il Capitano Mongardini e il castellano e così preferì tacere.

La Leonessa poteva ben immaginare cosa Giovanni avesse visto, ma non aveva né la voglia né la capacità di far fronte a quel genere di problema, perciò, liquidando la questione con un cenno della mano, fece segno ai due nuovi arrivati di avvicinarsi e, nell'arco di poco tempo, la Sala della Guerra fu piena e la riunione poté cominciare.

“Se Dionigi Naldi sta arrivando – concluse la Contessa, dopo quasi due ore di dibattito – allora lo incontrerò appena sarà qui a Forlì.”

Fece un segno a Cesare Feo e questi annuì, come a dirle che l'avrebbe informata all'istante dell'arrivo del comandante.

“E quando avrò discusso con lui...” la voce della Sforza tentennò solo un momento.

Aveva guardato Galeazzo, senza volerlo davvero, e il ragazzino, con il suo sguardo attento, le aveva ricordato all'improvviso il fatto che Gian Piero Landriani fosse comunque stato il marito di Lucrezia, e quindi, in modo rocambolesco, un loro parente acquisito, e questo dettaglio acquistò per la Tigre un significato molto particolare.

“Quando avrò discusso con lui, andrò a Forlimpopoli per coordinare assieme a mio fratello le dimissioni di Gian Piero Landriani come castellano di Imola.” concluse la donna, sciogliendo poi quel consesso con un frettoloso gesto delle mani.

“Se non fossero parenti suoi – aveva commentato Simone Ridolfi, tra sé, ma ben udibile da chi gli stava attorno – non si darebbe così tanta pena. Basterebbe una lettera in cui lo manda via, altro che...”

Caterina, che pure era abbastanza lontana, aveva sentito benissimo e aveva dedicato un'occhiataccia al Governatore, senza che lui se ne accorgesse.

L'insofferenza sempre più evidente del fiorentino, unita alla sua crescente riluttanza ad adempire i suoi compiti, la stavano portando a una decisione che non avrebbe mai voluto prendere in tempo di guerra.

Attirando l'attenzione di Galeazzo, che le stava accanto, la Contessa gli sussurrò: “Fai venire qui Numai.”

Il Riario annuì e attraversò la stanza, fino a raggiungere Luffo, che stava già andando via. Gli disse in fretta qualcosa e il forlivese tornò con discrezione sui suoi passi.

Quando fu accanto alla Leonessa, questa, approfittando anche del fatto che Pirovano fosse distratto dal Capitano Rossetti – perché ne aveva abbastanza di uomini che speravano di ottenere da lei favori e cariche solo perché si erano fregiati del titolo di suoi amanti favoriti – gli fece sapere: “Ho intenzione di sollevare Ridolfi dal suo ruolo di Governatore.”

“Per sostituirlo con chi?” domandò Numai che, come la sua signora, conosceva i rischi di un cambiamento ai vertici nei momenti delicati.

“Con nessuno.” rispose rapida lei: “Abbiamo passato anni senza un Governatore. Le decisioni le prenderemo noi due insieme. E, se sarà necessario, sceglierò più avanti un fantoccio a cui dare questo titolo, ma senza concedergli poteri.”

Luffo non si sarebbe mai aspettato un simile riconoscimento da parte della sua signora. Anche se non si trattava del titolo di Governatore, era come se lo fosse.

“Vi ringrazio per aver pensato a me, mia signora.” fece lui, chinando il capo, ossequioso.

“Voi siete sopravvissuto a più di un padrone, sapete come muovermi, e quando scoppia la guerra servono uomini come voi.” spiegò la Contessa: “E spero che non vi sentiate troppo oberato.”

“No, mia signora. Per voi questo e altro.” sottolineò lui, più che convinto.

“Di cosa stavate parlando?” chiese Pirovano, avvicinandosi.

“Delle scorte del grano.” rispose con prontezza disarmante la Sforza: “Messer Numai mi stava dicendo che forse i ravennati potrebbero venderci un po' del loro frumento, ma dubito che ci farebbero un buon prezzo...”

Numai capiva solo in parte il bisogno di nascondere l'argomento del loro dialogo a Giovanni da Casale. Però non stava a lui farsi domande, né giudicare le decisioni della sua signora.

“Avete ragione, Contessa...” disse allora, stando al gioco e sorridendo tranquillo: “Meglio che mi adoperi a cercare uno scambio più vantaggioso.”

“Mi raccomando, Luffo.” rimarcò la donna, guardandolo in modo inequivocabile: “Conto molto su di voi.”

“Non vi deluderò, mia signora.” assicurò Luffo e, ancora una volta, come già gli era successo in più occasioni nell'ultimo periodo, ebbe la sensazione di aver appena firmato un contratto non scritto che avrebbe potuto portarlo al massimo degli onori o al patibolo in un soffio.

 
   
 
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