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Autore: Fissie    28/07/2009    0 recensioni
Era inverno, ora, come allora; e lo sarebbe stato per sempre.
Era inverno – il nostro inverno. L’inverno della nostra vita. L’inverno della nostra eternità.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: James, Victoria
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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Capitolo 2


Furono giorni sospesi sull’abisso di un sogno. Oscillavamo aggrappati ai fili delle nostre fragili vite, ed eravamo ignari.
Non sapevamo quale inesorabile destino avevi innescato varcando la soglia di quella chiesa. Ci abbandonavamo, tra chiacchiere vuote e silenzi, l’uno all’altra, e l’uno con l’altra, nell’incoscienza, come ciechi inconsapevoli sull’orlo di un baratro.

«Dove lo prendi, il cibo?»
«Lo rubo.»
«Ah, quindi non sono l’unico con la fedina penale sporca.»
«Una mano lava l’altra, si dice.»
«Già.»


***


«Quindi… tu abiti qui?», chiese James, appoggiato di fianco allo schienale, con una gamba stesa per lungo e l’altra penzoloni, in una posizione rilassata. Gli occhi, sotto la fronte corrugata, scrutavano il polveroso tendaggio che nascondeva l’estradosso.
«Mh, temporaneamente», rispose la voce squillante dietro lo spesso telo grigio. La ragazza di nome Victoria, dopo l’inaspettato scambio di battute a distanza ravvicinata della mattina precedente, era tornata ad appollaiarsi lassù, sopra l’angusto corridoio sorretto dal colonnato. Da quella postazione strategica lanciava i pezzi di pane e, dal giorno prima, gli parlava anche.
«E poi dove andrai?»
«Non lo so.»
«E prima? Dove stavi?»
Fece una pausa.
«Un po’ qui, un po’ là.»
La luce che penetrava dalle vetrate del cleristorio proiettava l’ombra della ragazza sul tendone e James ne seguiva con lo sguardo l’ipnotico viavai. Era affascinato.
«Hai un accento strano», constatò lei, percorrendo avanti e indietro la passatoia.
«Ho viaggiato molto.»
«Dove sei stato?»
Sogghignò. «Un po’ qui, un po’ là.»

Non dicevamo nulla, eppure non avevamo bisogno di sapere nient’altro.
C’eravamo solo tu, io, e l’eco dei nostri silenzi.
Mi sembrava di vivere un sogno.
Era bello? Oggi non saprei più dirlo. Ho smesso di sognare da un pezzo.

«Ti capita mai di voler fuggire?»
«A te?»
«No, questa è la prima volta.»

Pausa.

«Di solito sono quello che dà la caccia. Scovo chi si nasconde, inseguo chi fugge.»
«Quindi sei una specie di bracconiere, un cacciatore di frodo?»
«Amo definirmi un segugio.»

Silenzio.

«Non importa chi, dove, o perché. Io devo solo stanare la preda.»
«Per conto del tuo… capo?»
«Diciamo… sì.»
«E’ lo stesso che vuole ucciderti?»

Pausa.

«Come ci sei finito qui?»
«Ironia della sorte, sono scappato.»
«Non ti piaceva più dare la caccia?»
«Non mi piaceva più cacciare prede non mie, mettiamola così.»

Silenzio.

«Riflettevo…»
«Su?»
«È che… il tuo compito è inseguire chi fugge, no?»
«Sì.»
«Se lui corre, tu corri.»
«Mh, sì.»
«Se lui si ferma, tu ti fermi.»
«Dove vuoi arrivare?»
«È semplice. Fai quello che fa lui, giusto?»
«Sì.»
«E lui fugge…»

Pausa.

«Non è proprio la stessa cosa.»
«Perché no?»
«Perché… è diverso.»
«Mi vedi?»
«No.»
«Neanch’io ti vedo.»
«Non capisco.»
«Io mi nascondo e tu non puoi vedermi. Ma neanch’io posso vederti.»
«E quindi?»
«Ti sto nascondendo.»

Silenzio.

«Sei strana.»
«Può darsi.»
«Comunque non mi hai risposto.»
«…»
«…»

«Sempre.»


***


La volta della chiesa era tristemente spoglia, si trovò ad osservare un pomeriggio, sdraiato supino sopra una panca.
«A proposito», esordì, reclinando il capo verso la sua postazione, «perché ti nascondi?»
Ma lei tacque. Non era possibile che non lo avesse sentito. James increspò le sopracciglia, accingendosi a voltarsi su un lato. Era un moto spontaneo; non avrebbe potuto vederla comunque, per via del telo che la nascondeva.
«Perché non dovrei?», chiese lei d’un tratto.
James scrollò le spalle, come di fronte a un’ovvietà.
«Bè, è lo stesso. Perché dovresti?»
«…»
«…»
«Non lo so.»

Non stavo mentendo.
Era una reazione istintiva, la mia, collaudata in anni di vita trascorsi a sgusciare nell’ombra. La fiducia non mi era consona. Non ero abituata a lasciarmi andare, a confidare nella buona sorte o, peggio ancora, nella buonafede degli altri. Avevo imparato a contare solo su me stessa. La vita mi aveva insegnato una cosa: che la gente non è divisa in persone buone e persone cattive, ma in persone che fanno il loro bene e non lo nascondono e persone che invece fingono di volere il tuo. Alla fine agiscono tutti per la medesima cosa: il proprio tornaconto; ma della seconda categoria devi guardarti le spalle.
Un’altra cosa che avevo imparato era a non tergiversare.
La prima regola della fuga è: fuggi. La seconda: non perdere tempo.
Ecco perché occorre saper riconoscere il pericolo. Perlomeno, se vuoi sopravvivere. Oh, ed io lo volevo, volevo sopravvivere – come avrei potuto volermi privare dell’unica persona di cui mi importasse? (Io.)
Qualcuno mi aveva detto un tempo: “la cosa più preziosa che hai è la tua vita. Proteggila.”
Ma questo era prima che qualcos’altro soppiantasse me stessa al vertice delle mie priorità. Questo era prima che io - quell’entità preziosa e irrinunciabile di cui mi avevano insegnato il valore e che con tutta me stessa avevo sempre cercato di proteggere - spandesse i suoi confini oltre gli orizzonti entro i quali avevo sempre guardato (la mia persona) e diventasse un
noi; questo era prima che io cominciasse ad essere spezzato, insignificante, vuoto e sacrificabile, senza quell’altra imprescindibile parte.

«Hai paura?», mi domandasti, una sera.
«Di cosa?»
«Di me»

Silenzio.

«No.»

Pausa.

«Dovrei?»

Ancora silenzio.
«Forse.»

Avrei dovuto, e tu eri stato sincero, ma all’epoca non potevamo saperlo, né io né tu. E, certo, non per quello che mi avresti fatto, ma per ciò che mi avevi già fatto, e di cui non mi ero accorta in tempo. Nel momento in cui quello stesso cuore che un giorno avresti privato del moto meccanico caratteristico dei mortali aveva cominciato a battere di vita vera, soltanto grazie a te.


***


Se ne stava accovacciato ai piedi di una colonna, le gambe accostate al petto e le braccia poggiate indolenti sulle ginocchia. Una sigaretta bruciava pigramente tra le sue labbra.
Quanti giorni erano trascorsi dal suo arrivo?
Aspirò una boccata di fumo.
Non teneva più il conto da quando la realtà esterna aveva smesso di essere importante. L’inarrestabile corso del tempo era avulso da quel piccolo mondo onirico; il suo, il loro.
Un tonfo lo mise in allerta, facendogli tendere i sensi. Seguì uno scalpiccio polveroso, il suono di piccoli passi attutiti dal legno dell’impalcatura.
Impossibile.
«Sono sveglio», l’avvisò.
Aveva ormai abbandonato ogni speranza circa la possibilità di vederla. E adesso, stava davvero scendendo a portargli la quotidiana razione di cibo mentre era ancora cosciente?
«Lo so», fu la sua risposta, imperturbabile.
«E se lo sai allora…»
Avvertì il rumore più netto dei passi sul pavimento di pietra, che si arrestarono non appena lo ebbe raggiunto. Era dietro di lui, in piedi, accanto alla colonna contro la quale James era seduto.
Fu in procinto di voltarsi, ma venne frenato dalla ragazza.
«Non muoverti», ordinò, perentoria. Ma c’era una sottile nota di nervosismo nella sua voce, nelle vocali stridule e nel tremore delle consonanti. James sollevò brevemente i palmi delle mani e le spalle, in un gesto di resa. «Va bene, va bene. Non mi muovo», accondiscese.
La udì dondolarsi sui piedi, titubante, poi un fruscio gli segnalò che si era spostata. Avvicinata, per l’esattezza. Adesso era china dietro di lui. Sentiva la carezza lieve della sua presenza appena dietro la schiena e il suo respiro che gli lambiva timidamente la spalla, ritraendosi ad ogni flebile tocco come la marea sulla battigia.
«Non muoverti», ripeté, in un sussurro. Poi, sgusciando dal comodo grembo, la mano della ragazza si adagiò sulla sua. Il contrasto tra la mano gracile, sottile, quasi opalescente e quella vigorosa e ruvida, dall’incarnato bruciato dal sole, ispirava una tenerezza stonata, come il suono di una corda di violino lacerata da un gesto rude dell’arco.
James trattenne il respiro e restò immobile, timoroso di spezzare il fragile equilibrio. Ma i battiti del suo cuore cominciarono ad incalzare in un crescendo rapidissimo.
Le dita sottili della ragazza iniziarono a tracciare il contorno della sua mano, poi disegnarono linee invisibili sul dorso, delicatamente. Capì che anche lei stava trattenendo il fiato quando si accorse di non avvertire più la carezza del suo respiro sulla spalla. Tutti i suoi muscoli erano contratti in quell’attimo di passionalità innocente – qualcosa a cui era del tutto estraneo; qualcosa che non somigliava affatto al rude contatto corporeo scambiato con le ragazze dei bordelli. Capovolse lentamente la mano, volgendo il palmo verso l’alto ed intrecciando le dita con quelle affusolate di lei. Soltanto allora, entrambi liberarono un sospiro a lungo trattenuto nei polmoni, ma rimasero silenziosi e immobili ancora qualche istante, prima che James parlasse.
«Allora…», esordì lui, in un sussurro rauco, dopo aver gettato il mozzicone di sigaretta. «Non vuoi proprio dirmi dove andrai, poi…». La domanda scemò in una debole affermazione prima di giungere a conclusione. James si distese contro la colonna, sciogliendo i muscoli irrigiditi, e Victoria appoggiò il capo alla sua spalla. Tacendo.
Il suono cadenzato dei loro respiri si fondeva al silenzio della chiesa. Le pareti sembrarono allontanarsi, e tutto migrare verso il fondo, mentre il pavimento sprofondava, lasciandoli sospesi in quell’ignota dimensione, alla deriva del tempo.
Non seppe perché, né dopo quanti minuti, senza preavviso, senza meditazione alcuna, anzi, quasi inconsapevolmente, James si mosse. Il suo braccio guizzò, preannunciando l’intenzione di voltarsi, ma Victoria fu più svelta. Si ritrasse immediatamente, rapida come un felino, riparandosi dietro lo strascico del telo grigio che pendeva dall’impalcatura.
«Scusa!», biascicò, levandosi in piedi, coi pugni stretti lungo i fianchi e le nocche sbiancate. Malediceva la sua impulsività. Non era riuscito a trattenersi. Il fascino che quella ragazza esercitava su di lui sfuggiva al suo controllo. Avrebbe voluto guardarla; avrebbe voluto toccarla.
Perché era così schiva? Perché non si fidava?, si chiedeva, ansiosamente, angosciato all’idea di aver gettato in frantumi quell’intimità appena conquistata.
Lentamente, compì qualche passo verso il telo dietro il quale la ragazza era corsa a rifugiarsi. «Ehi…», tentò. «Mi dispiace. Non volevo spaventarti.»
«Non mi hai spaventata», soffiò lei. «Solo… non mi piace chi contravviene alle regole dei patti. Dei miei patti.»
James levò gli occhi all’arcata di pietra che li sovrastava, sorridendo della strana sensazione di familiarità che quel cipiglio orgoglioso gli suscitava; stava cominciando a discernere i suoi comportamenti, come succede con quelli delle persone che si conoscono bene. Riusciva a capire, ormai, quando mentiva, e persino quando si nascondeva – quello fisico non è l’unico modo possibile di nascondersi. Si avvicinò ancora.
«Scusa», ribadì. Quella dolcezza nel suo tono stonava con la sua voce come un guanto di seta calzato dalle mani ruvide di un operario. «Ma… devo dedurre che non vuoi proprio dirmelo?», disse, alludendo alla domanda che le aveva posto pochi minuti prima, circa la sua prossima destinazione.
Attese.
Ormai era a pochi centimetri dalla tenda.
«Non posso», rispose infine Victoria, a voce tanto bassa da essere appena udibile. «Lo saprò solo quando me ne sarò andata.»
Entrambi tacquero.
James protese una mano verso il telo, avvicinandola lentamente. Indugiò quando le sue dita furono prossime a sfiorare il drappo di tessuto grigio, ma vinse l’incertezza e proseguì, finché non ne avvertì la superficie ruvida sotto i polpastrelli. Dopo qualche istante, Victoria lo imitò, tendendo le dita sino ad incontrare quelle di James, attraverso lo spessore del telo. Fecero coincidere i palmi e, non sazi di quel contatto, si avvicinarono ancora, lentamente, finché i loro corpi si toccarono e Victoria poggiò il capo sul suo petto.
Sentiva il calore irradiarsi dal suo corpo, nonostante l’ostacolo della tenda.
«Tanto ti darò la caccia», disse James, in un sussurro.
«Tanto non riuscirai a prendermi», replicò Victoria, sardonica.
Una risata sgorgò dalla gola di lui, rauca.
«Ne sei proprio sicura?»
Il silenzio fu carico d’attesa.
Poi, lei rispose: «Provaci.»


Il giorno dopo, quando si svegliò, James non trovò nessuno.

Non potevo sapere che ormai era troppo tardi.


   
 
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