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Autore: LeanhaunSidhe    29/08/2019    6 recensioni
La lama brillava ed era sporca. Imuen girò il taglio della falce verso la luna e ghignò incontrando il proprio riflesso. Si sentiva di nuovo vivo. Non distingueva il rosso dei suoi capelli da quello del sangue dei suoi nemici. La sua voce si alzò fino a divenire un urlo. Rideva, rinato e folle, verso quel morto vivente che era stato a lungo: per quanto era rimasto lo spettro di se stesso? Voleva gridare alla notte.
È una storia con tanto originale, che tratta argomenti non convenzionali, non solo battaglia. È una storia di famiglia, di chi si mette in gioco e trova nuove strade... Non solo vecchi sentieri già tracciati... PS: l'avvertimento OOC e' messo piu' che altro per sicurezza. Credo di aver lasciato IC i personaggi. Solo il fatto di averli messi a contatto con nemici niente affatto tradizionali puo' portarli ad agire, talvolta, fuori dalla loro abitudini, sicuramente lontano dalle loro zone di comfort
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aries Kiki, Aries Mu, Aries Shion, Cancer DeathMask, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ballata dei finti immortali'
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Note: Premetto che non ho la minima idea del fatto se la battaglia faccia schifo o meno. Credo comunque di aver capito di non essere portata per le long, soprattutto se hanno troppi personaggi. Come al solito, pietà, consigli… poi, quel che vi pare. Siamo agli sgoccioli, stavolta davvero.
Punti che credo saranno forse oscuri: anime dell’acqua. Trovate la nota e fine capitolo. Se volete saperlo prima, scorrete subito sotto, altrimenti lo leggete dentro il capitolo. Ciao


Kiki aveva cercato di divincolarsi dal ghiaccio che saliva dal piede alla gamba con uno scatto del busto, inutilmente. La falce conficcata nel terreno dal suo accompagnatore liberò entrambi. Scartò di lato ed aguzzò lo sguardo verso gli esseri che li circondavano. Anche qui l’aria era tesa e si respirava a fatica. La vista era messa a dura prova dall’ambiente opaco ed una nebbia satura appesantiva i polmoni. I loro nemici apparivano simili a fantasmi dai passi silenziosi che sollevavano rade e nebulose tracce di pulviscolo. Erano simili eppure diversi a quelli con cui si stavano misurando gli altri, fuori. Apparivano più tangibili e fermi, determinati: dentro gli bruciava una scintilla ferina.

In mezzo a loro, il viso malinconico di una ragazza prossima alla maturità attirava come la luce fa con la falena. Pochi anni meno di lui o più di Seleina. Magnifica, protendeva la mano verso di loro, in una tacita richiesta di aiuto. Istintivamente, il cavaliere aveva serrato il pugno. Il piede sollevato sulla punta, pronto per muovere un passo verso di lei. Conscio poi della superficialità del gesto che stava per compiere, si era bloccato, mentre lei aveva piegato la schiena all'indietro con un'angolazione talmente eccezionale che avrebbe dovuto spezzarsi in due. Si udì solo il rumore di ossa che scricchiolano ed urla soffocate. Rialzata, repentina, aveva mostrato lo stesso odio rabbioso degli altri, contro di loro ed i suoi pari o, forse, semplicemente se stessa, il viso deformato in una maschera demoniaca: avida, preda di una fame insaziabile, che logorava e non concedeva requie. Kiki aveva negato appena, a quella scena, conscio che ciò che aveva scambiato per una futile illusione per irretirlo fosse davvero una innocente che aveva implorato aiuto.

“Perché la torturano?”

Zalaia si era portato alla sua destra. Sul viso l’espressione più dura che gli avesse mai visto.

“Sono esseri che esistono per soffrire e far soffrire. Se davvero hai pietà, puoi solo portare a termine la missione assegnata. Nient’altro.”

Il figlio di Cancer era intento a ben altre analisi che, a certe scene, era già abituato. Si sforzò per arrivare con lo sguardo nel punto esatto dove avvertiva la maggior concentrazione di energia negativa. Stava per alzare la falce per indicare la direzione quando i mantelli sporchi dei nemici si separarono in due metà per aprire un varco la cui fine si perdeva nel buio.

Dalle tenebre era emerso qualcuno: più altero, più folle, accompagnato da due che gli camminavano dietro di pochi passi, affiancati. Un refolo d’aria gli aveva sfilato il cappuccio, mostrandone il volto decomposto sulla guancia, la pelle rovinata come sottile carta bruciata dai bordi frastagliati. Sotto appariva chiaro l’osso della mandibola e parte delle zanne. L’altra metà del viso, intatta, tradiva invece la sua passata bellezza. Pur se decomposto, lui era la testimonianza della vita che non si arrende alla morte. La sua voce, distorta, aveva l’eco di punte acuminate che graffiano la roccia.

“Ecco i cuccioli da compagnia di Haldir: un mezzosangue che puzza di latte ed un umano che non capisce neppure perché va a morire.”

Colui che aveva parlato li aveva squadrati dall’alto in basso.

“Voi non avete capito nulla della nostra natura e condanna. Non riuscirete mai a servirvi di quell’arma.”

Aveva allungato il dito verso il pettorale dell’armatura del lemuriano, nel punto esatto dove era custodito lo scrigno.

“Sono io quello che cercate. Cosa aspettate ad estrarre il pugnale?”

Prima di essere centrato dalla falce, fu però costretto ad arretrare di un passo. L’effetto della telecinesi fece aderire il mantello rivelando le fattezze del corpo massiccio ma non lo spostò di un millimetro. Invece, i sottoposti erano stati ricacciati nel gruppo. Dal confabulare dei due sprovveduti che aveva davanti fu chiaro che l’avevano identificato per colui che comandava davvero quell’esercito. Se il primo doveva colpirlo, il secondo doveva tenere occupato il resto dell’esercito. Strategia semplice, sciocca, ovvia. Al cenno del suo capo si scatenarono le creature dell’aria in turbinare di vento e cristalli. Non si aspettava che il lemuriano ci passasse attraverso con quella facilità. Lo vide saettare come un fulmine, troppo vicino per allontanarsi e tentare la fuga. La lama arrivò diretta a conficcarsi nella sua carne, spegnendo del tutto il battito irregolare del suo cuore quasi morto. Il nome di Haldir sfuggì dalle sue labbra, riconoscendo, finalmente, la pace che il suo signore sapeva donare e da secoli gli era preclusa. Ormai, poteva diventare cenere. Dal sollievo, si spense in un pianto liberatorio, disperdendosi nel gorgo del vento che ancora ululava come polvere d’argento, liberato. Davvero, quei due non avevano capito minimamente come servirsi di quel pugnale.


 

Ipnotizzato dall’eco del proprio battito cardiaco che galoppava per l’adrenalina in circolo e dal rumore del suo respiro, Kiki si era girato trionfante verso Zalaia, che continuava a spedire nell’aldilà parte della moltitudine che provava a catturarlo, inutilmente. Non era stato neppure troppo difficile. Presto, però, la figura del compagno d’armi si confuse nel bianco fino a sparire, la sua voce sovrastata dal turbinare del ghiaccio che iniziava a ghermirli di nuovo, stavolta senza possibilità di scampo, indebolendo persino la mente. Era stato abbattuto quello sbagliato.


 

Conscio che erano finiti entrambi sotto l’effetto della magia dei perduti, separato dall’Altare, Zalaia imprecò impugnando stizzito la falce. Chiamò per voce il cavaliere ma, esattamente come si aspettava, la cosa si rivelò del tutto inutile. Prese a guardarsi intorno. Vicino a lui, ovunque si girasse, solo nebbia ed altri nemici che si apprestavano. Poco abituato alla forma umana, si rese conto della spada diretta alla testa quando era già tardi. Scartò di lato e gli centrarono la spalla. Il sangue colò lungo il metallo che copriva il braccio fino a terra. Non indugiò neppure per un attimo all’ipotesi di mollare la sua arma per tamponare la ferita. Non era per lui dichiarare la resa solo per il dolore. Ghignò beffardo, scoprendosi circondato da un numero maggiore di nemici di quello che si aspettava. Anche se era più debole in quella forma, non aveva bisogno di due braccia per aprire di nuovo il passaggio per l’altro mondo.

****************

Distruggendo con rapidi movimenti chiunque fra i nemici osasse disturbare il suo passaggio, Haldir aveva raggiunto il pinnacolo più proteso di fronte a cui si apriva il burrone. Aveva richiamato le anime dell’aria e quelle dell’acqua, perché rivelassero, attraverso le loro sorelle costrette dai suoi figli perduti, cosa stava accadendo ai giovani che si attardavano. Aveva spalancato impercettibilmente gli occhi ed abbassato la spada di pochi millimetri. Non aveva potuto nascondere al gemello che il giovane lemuriano ed il suo allievo prediletto fossero in difficoltà. Imuen aveva ringhiato, furioso al pensiero, mentre lui chinava il capo. Gli aveva rinfacciato di mandargli uno dei suoi, che li sostenesse o, almeno, allentasse un po’ la morsa dei perduti, perché quei ragazzi potessero riaversi e reagire. Haldir aveva annuito. L’unica che poteva mandare era quell’ultima figlia riuscita per metà, che mai avrebbe voluto mettere in pericolo. Poiché era in parte umana, era la sola a resistere alla vicinanza del pugnale. Probabilmente, anche la sola a poter convincere quel guerriero ateniese a fidarsi. Non ebbe neanche bisogno di impartirle l’ordine.


 

Appena aveva visto Seleina smettere di danzare con le sue armi sguainate, Mu aveva subito intuito che qualcosa non andava. I suoi capelli non saettavano più scossi dal vento e l’acqua non la occultava coi suoi gorghi scintillanti. La bloccò per il polso quando gli passò al fianco. In mezzo all’inferno che gli si scatenava attorno, le chiese cosa stesse succedendo. Dovette insistere un attimo di più, rispondere a degli attacchi che li disturbavano, prima che lei gli spiegasse, affranta, che Zalaia e Kiki avevano problemi: per quel motivo Haldir la chiamava. Invece di lasciarla andare, istintivamente, Mu rinforzò la presa, diviso tra l’impotenza per non poter far nulla e rischiare di perdere sia lei sia suo fratello. Avrebbe voluto dire tante cose ma il tempo e l’occasione non erano propizi. Strizzò un momento gli occhi, volgendoli altrove. Seleina, pur senza armatura, era parte di una casta guerriera ed un superiore aveva dato ordini. Riuscì nello sforzo immane di scostare le dita, rendendole la libertà di cui aveva bisogno, anche se poteva essere l’ultimo istante che gli sarebbe stato concesso, con lei. Non poté impedirsi una carezza fugace sulla sua guancia, tergendo la pelle da quel sangue sporco che, per lui, stonava irrimediabilmente su un viso che sapeva anche sorridere con tanta dolcezza.
“Torna.”
Le disse solo, certo che lei, sicuramente, avesse colto il senso profondo del suo messaggio. Glielo lesse negli occhi chiari che si erano attardati nei suoi mentre lei si abbandonava a quell’unico gesto gentile, cullata dal tepore della sua mano. Seleina aveva annuito e l’aveva fissato intensamente, prima di proseguire. Era certo che, anche per lei, non era stato facile lasciarlo andare.


Haldir, però, vedeva lontano. Una volta in più non avrebbe voluto vedere. Veniva costretto a sciogliere un legame non nato e strappare probabilmente un’altra figlia a qualcuno. Seleina si era inginocchiata, come a tranquillizzarlo, che aveva scelto spontaneamente di seguirlo. Sull’inutilità di certi rimorsi erano d’accordo. Invece, aveva atteso il suo comando. Il gigante bianco la osservò gettarsi di sotto con una rapida rincorsa, il suo corpo sparire in un barluginare di gocce d'acqua molto prima di perdersi nell'abisso.

****************

Liquefarsi con le creature dell’acqua e viaggiare per le loro vie significava perdere la consistenza del proprio corpo, della propria coscienza, di se stessi: era passare da uno stato di aggregazione ad un altro; osservare uno per uno i volti di creature che i Dunedain chiamavano semplicemente anime ma in realtà erano esseri viventi, incorporei o meglio, non dotati di sembianze nel senso più comune del termine. Erano acqua, nella loro linfa vitale trasparente, erano acqua nella pelle che avvolgeva tendini, muscoli e ossa. Erano gorgo nella loro furia, ghiaccio nella rabbia feroce. Non erano troppo diverse dai fantasmi a cui Zalaia concedeva una forma fisica. I domatori di Haldir se ne servivano pure per erigere barriere o attaccare. Dominarle non era semplice perché avevano menti a volte perverse, superstiziose e testarde ma erano anche fonte di grande potere e, sulla vasta terra, pochi erano i posti che non si potevano raggiungere, grazie a loro. Significava però essere sempre all’erta, pronti ad essere rivoltati nei propri intimi pensieri, perché l’acqua raggiunge ogni punto e non può essere facilmente arginata. Quando straborda, abbatte ogni diga, ogni remora, sentimento e pensiero. Se non si possiede abbastanza energia, è facile essere trasportati via, disciolti nelle onde, sedotti dalle loro voci. Seleina ormai non si stupiva più di nessuna delle parole che le dicevano o delle immagini che le mostravano. Semplicemente, non le ascoltava. Cantava la propria melodia interiore, calma, pacata ed ordinata. Mantenere l’ordine e le sue ferree regole era sempre stato il suo modo per non impazzire. Fingeva che non ci fosse nessuno, oltre se stessa. Quella volta, però, era accaduto qualcosa di diverso. Partita tranquilla, quasi incurante, come tutte le altre volte, un rumore aveva presto intaccato il suo autocontrollo. Era stata la preghiera di Mu, accorata, perché fosse prudente e non le accadesse niente di male. Erano state le sue dita sul viso, che tergevano dal sangue e la portavano lontano dalla battaglia, asciugando lacrime, concedendo un coraggio tale da poter spazzare via anche il terrore della morte. Aveva provato calore sul viso, pur se la temperatura era sempre bassa, sfilando tra i volti alieni di quelle creature, che sfioravano con tocchi inconsistenti ed in mezzo a cui i pesci passavano sospesi, nuotandoci attraverso. Ogni tanto, qualche sasso scendeva, posandosi dall’alto verso il fondo argilloso. Era caldo sul viso e sulle labbra, dove si erano adagiate quelle di Zalaia con un tocco inatteso e dolce, a tratti sfrontato, quando la musica era salita di intensità e lo schiaffo era partito senza che lei lo volesse davvero, lo schiocco delle sue dita sulla sua guancia perso tra l’incredulità nei loro sguardi ed il cadenzare ritmico del tamburello, che pareva un cuore che battesse nel frullare delle note. Le mani sulla bocca, ad implorare una scusa per un gesto che non si voleva compiere davvero ma era partito lo stesso. La vergogna, lo smarrimento, fino ad una breve corsa lontano dal fuoco, all’ombra di un albero per riordinare le idee. Ed essere raggiunti li, nella notte stellata, sotto le fronde, tra un sorriso imbarazzato a rassicurarla che sì, un po’ lui se l’era presa ma era stato anche inopportuno, e, se lei voleva, quello schiaffo si poteva anche cancellare, mai esistito, come se non valesse nulla. Zalaia che aveva sempre la risposta pronta e quella sera non trovava le parole per la sua reazione. Preso per mano, sorpreso alla richiesta di sedere vicino a lei, a parlare e basta, conoscersi un attimo, di darle un po’ di tempo che, davvero, l’amore positivo fra due amanti lei non sapeva neppure cosa fosse. Ed il suo viso solare di lui, un po’ incerto ma sollevato, che per rapidissimi secondi si confondeva appena con quello di Mu, anche se non si somigliavano per niente. Seleina cacciò quei ricordi nervosa. Non era il momento per tergiversare e perdere inutili energie. Alzò lo sguardo verso la roccia, che quasi le sfiorava la testa. Era arrivata.

****************

Richiamato dal rumore dell’acqua, Zalaia s’era girato in fretta. Sotto il suo sguardo sorpreso, il liquido era salito di livello concentrato in un unico spazio, come se si stesse riempiendo un contenitore trasparente e cilindrico. Poi, la colonna era diventata figura di donna. Non si stupì troppo che fosse Seleina. Accovacciata, era l'unica, come lui, a poter resistere alla vicinanza del pugnale. Attese i pochi istanti che la separavano dalla forma umana. Anche lei faceva fatica, probabilmente per la vicinanza con l'arma. Le pose la mano per rialzarsi. Quando la ebbe davanti, per un istante trattenne il fiato. Egli conosceva benissimo la propria immagine riflessa. Incredulo, le chiese perché lei no: non si capacitava del fatto che lei avesse ancora gli occhi dello stesso colore di quelli di Haldir, invece di quelli di chi l’aveva generata. Lui aveva i pozzi profondi di Cancer a dannargli il viso. Lei, quel legame coi Dunedain che, almeno in sembianze umane, avrebbe dovuto essere reciso. Le riavviò i capelli dietro l'orecchio non più a punta, confuso, per un attimo lontano dal frastuono della battaglia, attorno a loro.

"Che mistero che sei."

Le soffiò sul viso, teso a non sciupare i pochi secondi che aveva ancora per osservarla, mentre lei, arrossendo, gli svelava che qualcuno della sua famiglia materna s'era divertito a stringere singolari patti con Haldir, molto prima che lei nascesse.

Scoprendo il taglio tra lo spallaccio e l’inizio del pettorale, lei era poi impallidita. Ingenuamente, aveva toccato il suo braccio. Strappandogli un moto di dolore, scostò leggera le dita rosse di sangue, affranta. Quasi tremando al pensiero di causargli altra sofferenza, gli aveva posato la mano sul petto, in modo da rendere lucida almeno la mente. Zalaia aveva chiuso un attimo le palpebre alle sue lacrime. Sentì la pace impadronirsi di lui e trasportarlo lontano, a quando era piccolo e correva tra le braccia di Mnemosine, se ne aveva combinata una. Il rancore dei perduti, che fino a poco fa lo alterava, rallentandolo persino nei movimenti, spariti in un soffio. Cinse le dita che sostavano ancora sul pettorale della sua armatura con le proprie, nel tentativo di scostarle, senza riuscirci. Era la prima volta che provava davvero l'effetto di quel potere, su di sé. Deglutì, al pensiero che anche Gona e pure quel matto di Tabe ne fossero capaci. Si vergognò: se ne aveva avuto bisogno, era perché da solo non era riuscito. Finalmente affrancato da ogni malia, si avvide della barriera d’acqua che li separava dal resto di quella distesa brulla, dove anche il più debole voleva fargli la pelle. Aguzzò allora lo sguardo di fronte a sé, deciso a riabilitarsi. Nella nebbia però era difficile orientarsi. Urlò a Seleina di far sparire anche quell’impedimento. Come desiderava, le anime dell’aria si chetarono al comando della ragazza: la coltre che impediva la vista fu dissolta.

Individuarono subito, a quel punto, la chioma castana dai riflessi rossi dell’Altare che, coperto di lividi, teneva testa ai suoi oppositori. Per fortuna, i perduti avevano paura della sua arma e non si avvicinavano volentieri. Il cavaliere li allontanava con la lama, descrivendo scie di cometa che si spegnevano celeri nell’indistinto. In parte, si difendeva col cosmo ed allora pareva tremare tutto, attorno a lui. Diradata la nebbia si era diradata, aveva localizzato subito Zalaia e Seleina, raggiungendoli in un baleno dentro le mura d’acqua che li difendevano provvisoriamente.


 

La contentezza per averli ritrovati si spense però all’istante: Seleina era stanca, già ansimante e sudata. Zalaia, pallido e ferito, di certo un braccio inutilizzabile ma almeno lucido, con lo sguardo pronto di chi voleva combattere e vincere. Kiki si propose di guarire il taglio alla spalla ma non gli fu permesso: doveva conservare le energie per l’assalto finale. Invece, gli fu chiesto di supportare Seleina per qualche altro momento. Il tempo per concentrarsi ed individuare davvero il capo dell’esercito rivale: era una questione di onore oltre che di sopravvivenza. Allora, si era fatto momentaneamente da parte, la tela di cristallo a supportare la barriera d’acqua. Aveva osservato il ragazzo sedersi a gambe incrociate a terra. Il manico della falce, stretto nella mano sana, a contatto col terreno. Il cosmo di Zalaia era esploso in un vortice rosso, la lama guidata sopra la sua testa, poi lasciata libera di colpire, oltre la barriera, a distruggere ogni essere ne impedisse il passaggio. Continuando a girare, la punta della lama si conficcò in un elmo.

Quello che era stato colpito non l’aveva minimamente bloccata. Senza battere ciglio, l’aveva estratta con un rumore sinistro. Poche stille di sangue scuro e denso gocciolavano dalla punta della lama ricurva. Aveva studiato con noncuranza l’arma per pochi secondi, prima di decidere di restituirla al mittente con un impeto tale da distruggere tutti quegli scocciatori in un’occasione sola. Osservò l’arma tornare fulminea nella direzione opposta, ghignando.

 

Pronti ad intercettare l’arma ricacciata indietro, Kiki e Zalaia afferrarono il manico nello stesso istante, uno a destra e l’altro a sinistra, spinti entrambi qualche centimetro indietro dall’intensità del colpo. Si scambiarono uno sguardo di muto ringraziamento reciproco, sollevati, mentre Seleina li fissava con gli occhi sgranati, che a certe scene non si assisteva spesso. Se non altro, avevano parato la prima offesa. Poi, l’Altare aveva restituito l’arma al legittimo proprietario, fissando serio l’avversario oltre la barriera. Preoccupato per le condizioni fisiche non proprio ottimali dei ragazzi, Kiki si augurò che riuscissero comunque a cavarsela, in qualche modo. Se non concludevano in fretta, non era solo la loro e la sua sopravvivenza ad essere dubbia. Richiamando il cosmo, pugnale alla mano, si lanciò nuovamente all’assalto, lasciandoli soli.

Nella sua corsa, vedeva solo la figura imponente che lo aspettava a braccia aperte, pronto a ghermirlo. Riuscì a non interrompere mai il contatto visivo, neppure quando stavano per bloccarlo a morsi, coi pugni, le spade o le mani. Ogni tanto, le scie nere delle fiamme scure di Zalaia e le correnti ghiacciate di Seleina gli aprivano la strada o lo proteggevano da seccatori troppo insistenti. Non avrebbe saputo ridire dopo quanto tempo arrivò di fronte al suo legittimo opponente. Era un avversario maestoso, che lo scrutava apparentemente calmo, girando in circolo, curioso. Poi, qualcosa era cambiato, ghignando, l’essere dannato che aveva davanti aveva lasciato le sue sembianze di quasi uomo per tramutarsi in gigantesca belva, a sfidarlo di centrargli il cuore con un misero pugnale, in quello stato. Gli si scagliò addosso ringhiando, le fauci schiumose e le zanne scintillanti. Sorpreso, sulle prime Kiki riuscì solo a teletrasportarsi ed evitare parecchie volte i suoi denti. Gli aveva giusto tagliato qualche pelo del manto sporco ed a tratti rado. I muscoli sotto, però, erano tesi e compatti pure dove mancava la pelle. Attorno alle pupille azzurre ed immense, prive di pupilla, rosseggiavano vene rosse tortuose che spezzavano il bianco dell’orbita. A differenza sua, l’avversario non necessitava di riprendere fiato e si divertiva a sfinirlo, interrogandosi su quale pezzo staccargli per primo. Doveva aver deciso perché all’improvviso cercò di azzannargli la gamba. Il cavaliere non seppe neppure come riuscì a teletrasportarsi via, incolume. Tra le fauci della bestia solo sangue ed il pezzo della sua armatura invece della sua carne. Ansante e stupito, si ritrovò con una protezione in meno ma l’avversario dava cenno di essere stato danneggiato dall’aver assaggiato la sua corazza: abbassava le orecchie e soffiava astioso, il pelo irto sopra la schiena. Si dimenava in rapidi balzi a destra e sinistra, scuotendo il muso in scatti circolari. Schioccando la lingua, aveva vomitato l’argento che masticava ancora. Circondato da scariche elettriche, stava anche diventando più piccolo, fino alle dimensioni di un lupo normale.

Kiki osservò confuso il gambale sputato a terra, lordo di plasma marcio e saliva, ridotto ad un pezzo maciullato privo di forma. Zalaia provò a spiegarglielo a distanza che l’argento funzionava meglio dell’oro, contro certe creature ed il pugnale di Haldir non era di quel metallo per caso. Rincuorato da quell’inaspettato motivo di vantaggio, il cavaliere osò ancora. Se anche non avesse centrato il cuore, certo il pugnale qualche effetto l’avrebbe avuto. Dopo una serie di affondi andati a vuoto, mentre il grosso lupo si spostava in circolo o si alzava su due zampe per atterrarlo nell’unico momento in cui lui era vulnerabile, Kiki riuscì a centrarlo vicino al collo. Affondò la lama in profondità, mentre l’animale latrava. Approfittò del momento in cui barcollava per fare leva col piede ed estrarla, tenendo fede alle raccomandazioni di Imuen. La lama era rossa fino all’impugnatura. Lui, sporco di sangue fino al braccio. Non vedeva il proprio viso ma credeva di assomigliare più ad un macellaio che ad un cavaliere di Athena. Non aveva bisogno del fiuto dei Dunedain per riconoscere l’odore ferrigno del sangue. Esausto, si era inginocchiato per il colpo di grazia a quel poderoso esemplare. Solo per un attimo, si concesse di esplorare le iridi profonde di quell’animale, come a scusarsi del gesto che lo ripugnava ma a cui era costretto. Altro sudore, come lacrime, come se non ne avesse versato abbastanza, scesero sul suo corpo freddo nonostante l’eccitazione della lotta. Implorò il suo nemico di perdonarlo: era solo per donargli pace. Prima però che potesse vibrare il colpo, l’animale si era rivoltato a mordergli la gamba nuda dall’armatura. Più veloce della voce di Seleina che gridava il suo nome fu il suo braccio ad offendere ancora, secco, a segno. Il dolore lancinante arrivò solo dopo, togliendogli il fiato. Le punte acuminate si conficcarono con ancora più violenza alla sua gamba per un istante, nell’ultimo rantolo prima della morte, per poi di lasciarla andare definitivamente. Il lupo dal manto bianco sporco aveva riverso le iridi all’indietro. Era caduto di lato con un tonfo secco, la lingua ciondoloni dalla bocca spalancata.

La terra aveva iniziato a tremare pochi istanti dopo, mentre la gamba pulsava atroce e gli impediva di camminare. Con gli occhi ottenebrati dalle fitte che non lasciavano scampo, il cavaliere riuscì solo a vedere il lupo che spariva in polvere, mentre Zalaia lo trascinava via di peso e Seleina gli prendeva dalla mano il pugnale. Doveva aver perso i sensi. Nonostante tutto dovesse essere finito, Zalaia ripeteva che, se da fuori non si sbrigavano a recuperarli, erano spacciati.


 


 

Post Scriptum: allora, anime dell’acqua. Per come le ho concepite io, esseri viventi composti essenzialmente d’acqua. Li controllano, per tradizione, i figli di Haldir, sfruttandone i poteri. Sempre gli stessi le chiamano anime, perché gli manca un corpo fisico nel senso normale del termine. Sono efficaci per erigere barriere o lanciare getti potenti contro gli avversari, a varie temperature, fino ad arrivare al ghiaccio, oltre a spostarsi sulla terra. Nella mia mente contorta esistono pure le anime dell’aria. Non sono fatte proprio d’aria ma in questo capitolo non ho bisogno di farle “vedere" e non ho intenzione di descriverle qui. Sono le responsabili di nebbia e getti d’aria fredda, per chi le sa dominare. Normalmente, gli uomini non possono né vederle né si curano della loro esistenza. Se ne hanno bisogno e ne sono capaci, usano il cosmo. Se mai servisse altro, chiedete. Anche se vorrei sapere chi arriverà a leggerle, ste note. :) Ciao

   
 
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